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La memoria del genocidio

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La negazione delle responsabilità

Lo sterminio pianificato di un milione e mezzo di persone appartenenti ad uno stesso gruppo etnico ha un solo nome: genocidio, ovvero l’intenzionale eliminazione fisica di un popolo che da oltre duemila anni abitava quella terra e la cancellazione della memoria della sua presenza. Ad essa va aggiunta la totale cancellazione di ogni traccia di presenza armena, con le chiese distrutte o destinate a vari usi fino a diventare fienili o stalle, e nel migliore dei casi trasformate in moschee (è il cosiddetto genocidio bianco).

Un crimine di tale enormità, come accadrà per quelli che gli succederanno (Shoah, Gulag, in Cambogia, in Ruanda e altri), pone inevitabili problemi di ordine storico, etico e giuridico, resi particolarmente drammatici a causa del mancato suo riconoscimento da parte degli autori. Chi lo pianificò e lo realizzò ebbe infatti la preoccupazione fin da subito di coprire la verità: si può dire che la negazione del genocidio andò di pari passo con la sua esecuzione. Con il chiaro fine di negare la premeditazione del massacro, si cercò di giustificare gli ordini di deportazione sfruttando l’opportunità della guerra, furono preparati documenti ufficiali “buoni” copia di ordini di sterminio criptati e segreti, furono usati come strumenti per i massacri le tribù curde dell’Anatolia per coprire le responsabilità dei funzionari e delle guardie incaricate della deportazione.

Ci fu una breve, anche se significativa, parentesi, quando nel 1919, dopo la caduta del Governo dei Giovani Turchi il nuovo Governo ottomano volle processare, senza risultati rilevanti, i principali responsabili dei massacri e dimostrare prima della conferenza di pace di avere preso le distanze dai carnefici; poi, purtroppo, l’atteggiamento negazionista è rimasto una costante dei Governi che si sono succeduti, fino ad oggi, unendo la responsabilità storica di uno Stato che non c’è più (l’Impero ottomano) con quella della moderna Repubblica Turca, fondata da Mustafà Kemal, in un’opera di manipolazione storica e di ostacolo alla ricerca della verità.

Il negazionismo rappresenta il frutto maligno di quella ideologia nazionalista che allora generò il piano di sterminio e che ora continua a produrre un duplice nefasto effetto: da una parte impedisce al popolo armeno di lenire la ferita subita e lo costringe a dimostrare, oltre l’evidenza, la verità di quei fatti, dall’altra, corrispondentemente, fa divenire il genocidio armeno un tabù per il popolo turco, rendendo quest’ultimo incapace di accettare la propria storia e di liberarsi dalle oscurità del proprio passato, spezzando soprattutto una storia millenaria di convivenza di due popoli nella stessa terra.

Tali difficoltà fanno comprendere la ragione per cui il genocidio armeno, pur essendo il primo del XX Secolo, resti, oltrechè impunito, un genocidio dimenticato e in parte disconosciuto. Non può sorprendere come già nell’Agosto del 1939, alle soglie dell’olocausto ebraico ci fu chi si pose la domanda retorica “chi ricorda oggi lo sterminio degli armeni ?”: si chiamava Adolf Hitler.

La questione del riconoscimento prima ancora che storica e politica, diventa allora di natura etica: non vuole riaccendere odi sopiti, né tantomeno colpevolizzare un popolo, quello turco, bensì mira a restituire una verità storica e una memoria viva attraverso cui risarcire le vittime e riprendere un percorso di dialogo e convivenza possibili. Un elemento di conforto deriva in tal senso da alcune recenti esperienze di dialogo tra studiosi, che hanno coinvolto anche alcuni coraggiosi intellettuali turchi, nell’ambito delle quali si è dimostrato come un approccio sereno all’argomento sia possibile.

 

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