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LA LINGUA, L’ALFABETO E L’AMORE PER IL LIBRO

 

L’armeno è una lingua indoeuropea. All’interno di questo gruppo però costituisce un ramo a sé. Non è quindi paragonabile, ad esempio, al russo o all’inglese che appartengono rispettivamente alle grandi famiglie delle lingue slave e germaniche. Da una punto di vista lessicale emergono molti prestiti iranici, dovuti ai forti contatti che per secoli sono perdurati tra le due aree. Questo fatto ha determinato per un certo periodo l’erronea interpretazione che l’armeno fosse un dialetto iranico: tesi successivamente smentita da filologi e linguisti.

L’armeno è una lingua flessiva: comprende pertanto declinazioni e coniugazioni. La struttura della frase, con gli articoli posti dopo il nome e il verbo generalmente alla fine, può rivelarsi inizialmente ostica allo studente neofita; a compensare tali ostacoli però, manca il genere grammaticale e l’accento cade sempre sull’ultima sillaba.

Storicamente viene fatta una distinzione tra il grabar, l’armeno classico, che a partire dal V secolo è stata la lingua delle opere di ispirazione teologica, filosofica, storica nonché la lingua ufficiale dell’amministrazione dello Stato e del diritto, e l’ashkharabar, ovvero la “lingua mondana” o “volgare”, con cui, a partire dal XIX secolo, ha avuto inizio una cospicua produzione letteraria profana.

Esiste inoltre una ulteriore differenziazione relativa all’armeno dei giorni nostri, che si distingue in armeno orientale – parlato nella Repubblica d’Armenia e in Iran – e armeno occidentale – parlato a Istanbul, in Medio Oriente e dalla diaspora in genere. Le differenze sono soprattutto relative alla pronuncia di talune consonanti e all’applicazione di alcune regole grammaticali: tuttavia la comprensione e comunicazione tra i parlanti i due diversi idiomi non presenta particolari problemi.

Lingua originalissima, l’armeno stupisce fin dal primo approccio, per la caratteristica di “esprimersi per immagini”. Ricco di vocaboli composti, sembra offrire spazio ad una molteplicità di combinazioni, di cui talune appaiono geniali nella loro semplicità. Ad esempio:

tun = casa; dram = denaro (tra l’altro dram è anche il nome dell’attuale valuta della Repubblica Armena) dram-a-tun = banca;

mayr = madre; khaghakh = città

mayr-a-khaghakh = metropoli, capitale

degh = medicina

tegh-a-tun = farmacia

od = aria; naw = nave

od-a-naw = aeoroplano

hangist = riposo, sosta, riposo

naw-a-hangist = porto.

Queste molteplici combinazioni danno spesso origine a lunghissime parole composte, piuttosto complesse ad una prima lettura, ma molto interessanti e stimolanti: una volta compreso il meccanismo che sta alla base dell’etimologia di molti vocaboli, la loro memorizzazione ne risulta agevolata.

La lingua armena ha potuto sopravvivere fino ad oggi grazie all’alfabeto creato dal vardapet (ieromonaco) Mesrop Mashtots nel 405 d.C. A differenza di altri alfabeti le cui origini rimangono oscure o vaghe, l’alfabeto armeno ha una data di nascita precisa e un suo inventore ufficiale, Mesrop. Santo per gli armeni, che lo festeggiano ben due volte all’anno, era un predicatore che, peregrinando di villaggio in villaggio, si era reso conto che la massa dei fedeli cui si rivolgeva non era in grado di comprendere il messaggio delle Sacre Scritture espresso in greco o siriaco. Aveva pertanto intuito quanto fosse importante poter tradurre i testi sacri, la Bibbia per prima, in armeno e renderli in tal modo intelligibili al popolo.

La nascita dell’alfabeto è tradizionalmente riferita come un miracolo, attraverso le parole di Koriun, discepolo di Mesrop, che narra: “[allora Mesrop] vide non un sogno nel sonno, né una visione nella veglia, ma nel laboratorio del suo cuore una mano destra che, apparendo agli occhi dell’anima, tracciava le lettere su una pietra. E la pietra riceveva su di sé i segni così come la neve accoglie le impronte.”1 Ne è risultato un insieme di 36 lettere: 7 vocali e 29 consonanti. A ciascuna lettera corrisponde un fonema. Successivamente, nel XII sec. le lettere sono divenute 38. Tale alfabeto, perfettamente adatto alla fonologia dell’armeno, è giunto intatto fino ai giorni nostri. Inoltre, rappresentando una gamma di suoni molto vasta, si adatta in modo straordinario alla traslitterazione di vocaboli e nomi stranieri.

L’importanza rivestita da questo evento nella storia del popolo armeno non è solo connessa alla possibilità di tradurre e mettere su carta testi sacri fondamentali, ma è anche di carattere prettamente politico: possedere una lingua scritta in un alfabeto che appartiene unicamente a loro ha fornito agli armeni una corazza di difesa psicologica e culturale contro i continui ed insidiosi rischi di assimilazione che le potenti nazioni e popolazioni confinanti hanno continuato per secoli a mettere in atto. La nascita dell’alfabeto, dopo la conversione al Cristianesimo, ha contribuito a forgiare l’autocoscienza del popolo armeno come entità distinta all’interno di un contesto multiforme dal punto di vista etnico, religioso e culturale.

Gli armeni tutt’oggi amano molto il proprio alfabeto. Ne vanno orgogliosi. Le lettere armene, di per sé già così armoniose nella forma, appaiono incise nel legno e nella pietra, tessute nei tappeti, ricamate, dipinte, e dal segno iniziale dipartono uccelli, rami fioriti e quanto la fantasia dell’artista e dell’artigiano suggerisce.

Tornando a Mesrop, è bene ricordare che non si limitò all’invenzione dell’alfabeto, ma ritenne fosse di fondamentale importanza la formazione di un gruppo di allievi cui insegnare l’arte della scrittura. La prima scrittura creata ed insegnata dal maestro è la capitale maiuscola (erkathagir) vergata su pergamena, nei colori nero o rosso bruno, con segni che si susseguono in modo armonico ed equilibrato. Questa scrittura però richiedeva molto spazio e pertanto, a partire dal XII sec. venne creata una scrittura minuscola (bolorgir), su cui si basa il moderno alfabeto a stampa. Terzo tipo, a partire dal XVII sec. è la scrittura detta notargir, ovvero “scrittura notarile”, usata per i codici, dai tratti piccoli e veloci.

All’ “arte della scrittura”, cui Mesrop avviò una nutrita schiera di discepoli, è strettamente collegata quella del manoscritto miniato. “Per lo stolto il manoscritto non vale niente, per il saggio ha il prezzo del mondo”, si legge nel colophon di un manoscritto del 1391.2 E questa dichiarazione è rappresentativa di un carattere antropologico armeno che vede nel culto per il libro un modo di essere, una scelta di vita, una scala di valori. Il codice miniato è sentito come entità viva, come bene da salvare e proteggere, che al pari di un essere umano, deve essere salvato da mani nemiche distruttrici. Sono stati storicamente documentati episodi in cui gli armeni compirono atti eroici pur di salvare dei libri antichi dalla distruzione. Noto è l’esempio relativo all’Omeliario di Mush, un preziosissimo manoscritto dell’undicesimo secolo, salvato nel 1915 da due donne che, in fuga dal genocidio, lo portarono con sé verso l’Armenia orientale. Non essendo in grado di trasportarlo tutto intero (misura 70 cm. di altezza per 50 cm. di larghezza e pesa 27 kg), lo divisero in due parti. Ne sotterrarono una metà nel cortile della chiesa armena di Erzerum e si suddivisero la restante parte, portandola in salvo a Etchmiadzin. Successivamente il testo poté essere ricomposto e ora si trova alla Biblioteca Matenadaran di Erevan. Un fascicolo di sedici pagine è, invece, arrivato alla Biblioteca di San Lazzaro dei padri mechitaristi a Venezia dove tuttora è conservato.

Il culto per il libro diviene atto di venerazione quando si è al cospetto delle Sacre Scritture. Nella liturgia il Vangelo viene incensato; il celebrante non lo regge mai a mani nude ma, quando lo solleva alla vista dei fedeli, si serve di un drappo ricamato. All’inizio della celebrazione – sia gregoriana che cattolica di rito orientale – il sacerdote fa baciare il Vangelo alla persona più in vista della comunità: questo gesto è definito “Astvatzashunçh” che significa “alito di Dio”.3

Si diceva delle scuole di scrittura. Queste avevano sede presso le chiese e i monasteri, dove operavano diversi copisti, la cui opera ci ha permesso di conservare e trasmettere nei secoli oltre ai testi armeni anche tante opere classiche, tradotte in armeno, di cui si è perso l’originale. I copisti in genere firmavano il loro lavoro e nel colophon precisavano il nome del committente, il luogo di stesura e la data. Spesso aggiungevano altri particolari che hanno consentito agli storici di raccogliere una serie di informazioni sugli ambienti e la società in cui le opere furono realizzate.

Attualmente è stata registrata l’esistenza di circa trentamila manoscritti conservati principalmente tra il Matenadaran (Armenia) e Gerusalemme, Venezia, Vienna, Nuova Giulfa (Isfahan, Iran) e Bzommar (Libano); alcuni pezzi si trovano anche in altre raccolte in Europa ed America.

Il Matenadaran è tra tutte la raccolta più ricca, con sedicimila manoscritti – di cui 13.500 in lingua armena antica – che abbracciano svariati temi quali, storia, filosofia, diritto, geografia, medicina, matematica etc. Questa straordinaria biblioteca conserva inoltre tremila antichi manoscritti in arabo, persiano, latino, greco, siriano, slavo antico, georgiano, etiopico ed altre lingue ancora, e un archivio di diecimila documenti antichi. I testi più antichi erano redatti su pergamena, mentre l’impiego della carta risale al decimo secolo, e a partire dal quindicesimo quella prodotta a Damasco era considerata la più pregiata. Particolarmente importante è l’ampio settore dedicato alla storia dell’Armenia. Vi sono conservati gli originali di diversi classici, prima fra tutte La Storia dell’Armenia di Mosè di Corene (V sec.), considerato uno dei massimi storici armeni dell’antichità. Quest’opera che copre la storia armena fino al 440 d.C., spicca per l’impostazione scientifica e laica e contiene riferimenti anche alla storia dei paesi limitrofi. In essa tra l’altro si legge: “Sebbene noi siamo un piccolo popolo, ristretto nel numero, limitato nelle forze e molte volte sottomesso ad una potenza straniera, tuttavia anche nel nostro Paese si sono compiuti molti atti di valore, degni di essere ricordati per iscritto.” (Storia degli Armeni, 1,3) Sono inoltre conservati gli originali delle opere poetiche di Gregorio di Narek (X sec.) e Nerses Shnorhali (XII sec.) e testi scientifici come quelli di Anania di Shirak (VII sec.), autore di una Geografia in cui sostiene che la terra è sferica e fornisce una corretta spiegazione delle eclissi lunari e solari. Dello stesso autore è anche uno dei più antichi manuali di aritmetica.

Il Matenadaran, fondato nel V sec. a Etchmiadzin, presso la residenza del Patriarca Supremo dell’Armenia, venne nazionalizzato nel 1920 dopo la presa del potere da parte del governo sovietico. Nel 1939 fu trasferito a Erevan dove è divenuto sede dell’Istituto dei Manoscritti Antichi. In pieno centro cittadino, alla fine di un lungo viale alberato intestato a Mesrop Mashtots, occupa un possente edificio in granito grigio fronteggiato da diverse statue raffiguranti eminenti scrittori ed intellettuali armeni, al cui centro però troneggia quella di Mesrop affiancato dal discepolo Koriun; a lato, incise nel muro le lettere dell’alfabeto.

Seconda per numero di opere conservate è la biblioteca del Monastero di San Giacobbe degli Armeni a Gerusalemme e terza quella dell’Isola di San Lazzaro degli Armeni a Venezia. Quest’ultima attualmente possiede circa quattromila codici armeni manoscritti, raccolti dalla sua fondazione in avanti e frutto di acquisti e donazioni. Oltre alle opere miniate in armeno, conserva anche preziosissimi testi persiani, arabi, greci, antico slavi ed un autografo di Pietro il Grande. L’Isola e la biblioteca sono meta di visite giornaliere durante tutto l’anno da parte di turisti ed appassionati e costituiscono un punto di riferimento affettivo e culturale per tanti armeni sparsi nel mondo.

Gli armeni, grazie alle intense relazioni commerciali con l’Europa, colsero molto presto le opportunità offerte loro dall’invenzione della stampa. E Venezia giocò un ruolo fondamentale per la conservazione e la diffusione della cultura armena. Nel 1511 fu stampato a Venezia il primo libro armeno,4 ad opera dell’editore Hakob detto “Meghapat” (ovvero “peccatore”): si tratta di una raccolta di massime, proverbi, informazioni e consigli utili ad uso soprattutto degli uomini di mare intitolato Urbat’agirk, ovvero Il Libro del Venerdì. La stampa è bicolore – nero e rosso – con diverse decorazioni in cui le lettere prendono la forma di uccelli e i margini sono istoriati. L’ubicazione della tipografia di Hakob resta tutt’oggi incerta. A questa prima pubblicazione seguirono, tra il 1512 e il 1566, altre sei opere.

Nei due secoli successivi si assisterà ad una espansione dell’editoria armena in altre città italiane ed europee – Ferrara, Roma, Livorno, Vienna, Amsterdam, San Pietroburgo ed altre ancora – con oltre 160 opere pubblicate. Il ruolo principale resta comunque quello esercitato da Venezia. Le ragioni di questa felice collaborazione sono da ricercarsi nella fortuna che molti armeni provenienti dalla Cilicia – il cui regno crollò nel 1375 – trovarono presso la Serenissima. Persa l’indipendenza, questi cercarono uno sbocco verso l’Europa e trovarono in Venezia un contesto particolarmente interessato ai rapporti culturali e commerciali con un Oriente di matrice cristiana. Gli armeni residenti a Venezia raggiunsero le cinquemila unità, lasciando segni tangibili della loro presenza: basti pensare alla Chiesa di Santa Croce degli Armeni e all’attiguo Sotoportego degli Armeni in sestriere San Marco. Tra il 1512 e il 1800 a Venezia diciannove tipografie stampano in armeno: tra queste spiccano nel Settecento quella di Antonio Bortoli, con 121 titoli, e quella di San Lazzaro. Infatti, Mechitar di Sebaste, fondatore della comunità di monaci qui insediatasi nel 1717, convinto che uno dei mezzi più efficaci per concretizzare il proprio apostolato fosse la stampa, promosse la pubblicazione di una serie di opere basilari per la cultura armena. La stamperia da egli stesso avviata, pubblicherà negli anni opere di genere diverso, non solo dottrinale, e curerà la traduzione in lingua armena di classici quali l’Iliade, la Divina Commedia, oltre alle opere di Petrarca, Boccaccio, l’Alfieri, l’Ariosto, Leopardi, Manzoni, Pascoli e molti altri. Inoltre, a partire dal 1843 i Mechitaristi pubblicano il periodico “Bazmavep”, di carattere storico-filologico-letterario, che è una delle più antiche riviste d’Europa.

Il valore attribuito nel corso dei secoli al libro, l’attaccamento alla propria lingua e all’alfabeto originalissimo e perfetto con cui questa è stata trasferita su carta, sono strettamente collegati a quella che Gabriella Uluhogian definisce “tensione verso la cultura”5 propria di tutte le classi sociali armene ed espressa con particolare evidenza nei momenti in cui questo popolo minoritario era circondato da nazioni e genti molto più numerose e potenti.

All’inizio del ‘900 in particolare, in Anatolia orientale, su una popolazione armena per la maggior parte costituita da contadini, artigiani e piccoli commercianti, gli armeni facevano funzionare un numero di scuole in percentuale molto più elevato rispetto a quelle della maggioranza turca. A queste accedevano indifferentemente maschi e femmine e l’alfabetizzazione di queste ultime era molto più elevata rispetto alla restante popolazione. Le famiglie più facoltose invece avevano l’abitudine diffusa di investire nell’istruzione dei figli, che venivano inviati a studiare a Costantinopoli o all’estero, dove mete privilegiate erano Parigi e Venezia.

Note:

  1. G. Uluhogian , Lingua e cultura scritta in GLI ARMENI, Jaca Book Ed. Milano 1998, pag.118.
  2. Ibid. pag. 120.
  3. P. Kuciukian Terza Armenia, Guerini e Associati Ed. Milano 2007, pag. 89.
  4. Il primo libro armeno stampato in Armenia a Etchmiadzin risale al 1771 (vedi Venezia per l’Oriente la nascita del libro armeno di B. Sivazliyan in “Armeni, Ebrei, Greci: stampatori a Venezia” Casa Editrice Armena, Venezia 1989).
  5. G. Uluhogian, Lingua e cultura scritta in GLI ARMENI, Jaca Book Ed. Milano 1998, pag. 120.

 



 

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