“CHIESE DI CRISTALLO” E KHATCHKAR
“……La chiesetta di Aštarak è la più ordinaria e, per l’Armenia, tranquilla. Niente di speciale – una piccola chiesa con un berretto da pope a sei punte, un ornamento a cordone lungo il cornicione del tetto, e piccole sopracciglia anch’esse cordonate sulle avare bocche di finestre-feritoie.
Una porta che non si vede e non si sente. In punta di piedi, ho gettato un’occhiata all’interno: ma c’è una cupola, una cupola!
Una cupola vera! Come quella di San Pietro a Roma, quella sotto cui ci sono folle di migliaia di persone, e palme, e un mare di ceri, e la sedia gestatoria.
Lì le sfere incavate nelle absidi cantano come conchiglie. [….] A chi è venuto in mente di imprigionare lo spazio in questa povera cantina, in questa misera cella?”1
Osip Mandel’štam, narratore e poeta russo 2, a seguito di un viaggio in Armenia compiuto nel 1930, ha raccolto le proprie impressioni, sia in prosa che in versi, in un’opera, intitolata appunto Viaggio in Armenia, in cui esprime stupore per l’incanto dei luoghi e calore umano per i suoi abitanti. Inoltre la fortunata immagine “paese dalle pietre urlanti” è tratta da una breve poesia contenuta in questa sua opera.
La descrizione che il fantasioso scrittore russo traccia di una chiesa armena, così poetica e leggera, farà sicuramente sorridere gli storici dell’arte, ma talune osservazioni mettono a fuoco più di una componente che caratterizza le chiese armene dal medioevo ad oggi.
Le chiese armene non raggiungono in genere grandi dimensioni e, come soleva dire nelle sue lezioni accademiche Adriano Alpago Novello3, dialogano con il territorio, con l’ambiente naturale, in un gioco di contrasti ed armonie in cui ambiente costruito e paesaggio si fanno complementari. Diversamente da altre tradizioni, compresa quella della limitrofa Georgia, non si trovano mai in posizione dominante, ma preferibilmente marginale, discreta, quasi vogliano mimetizzarsi. Nella forma tendono a privilegiare semplicità e chiarezza, con la scelta di volumi geometrici sovrapposti ed accostati, il tutto regolato da un rigore di tipo matematico. La struttura di base è sormontata da una cuspide, conica o piramidale, che cela la calotta della cupola. La forma esterna delle masse così create, nitide ed essenziali, con gli spigoli taglienti, suggerirono al critico Cesare Brandi 4 la più volte ripresa definizione di “chiese di cristallo”, avendovi trovato un’analogia con la foggia del cristallo di rocca. All’interno permangono semplicità ed essenzialità. L’illuminazione è scarsa, e rara risulta la presenza di affreschi, mentre frequente, e spesso unico ornamento, è quello delle “stalattiti” – le conchiglie di Mandel’štam – cui si attribuisce anche una funzione acustica. Questo motivo, di origine tipicamente islamica, è il risultato di contatti con il mondo persiano, ma si differenzia nell’uso dei materiali: le stalattiti islamiche sono realizzate in stucco o ceramica policroma, quelle armene invece in pietra da taglio. Questa pietra è in genere il tufo, talvolta il basalto o il granito. Ma il tufo è comunque il materiale principe, di cui l’Armenia è particolarmente ricca: di origine vulcanica, è leggero e facile da tagliare e levigare appena estratto dalla cava, mentre si indurisce con l’esposizione all’atmosfera. Può assumere una vasta gamma cromatica che va dalle tonalità del nero, grigio, bruno fino a quelle del rosa, ocra, violetto, rosso mattone, verde. I costruttori, in talune chiese si sono appositamente serviti di pietre levigate di tonalità diverse per comporre giochi cromatici originalissimi e molto ornamentali pur nella loro semplicità. Il tufo si presta idealmente anche alla lavorazione di bassorilievi, che sovrastano i portali di talune chiese e all’incisione delle tipiche croci dette khatchkar, di cui parleremo più avanti.
È interessante riferire che, a giudizio di specialisti nel settore, le chiese armene medievali si distinguono per la genialità di alcune soluzioni architettoniche, decisamente brillanti ed innovative per l’epoca, anche in riferimento alle tecniche antitelluriche impiegate nella progettazione5.
Altro elemento ricorrente è il gavit, un vasto ambiente coperto che precede la chiesa, utilizzato in genere come sala adibita ad assemblee, tribunale, aula d’insegnamento. Solitamente si regge su quattro colonne ed ha un’apertura verso il cielo circondata da stalattiti.
Le chiese tutt’oggi rimaste possono presentarsi isolate, ma più spesso fanno parte di complessi monastici, in alcuni casi molto articolati, in cui, oltre alle celle per i monaci e ai refettori, c’erano biblioteche e centri studi.
Nell’attuale Repubblica Armena si possono visitare diversi monasteri e chiese medievali: attualmente sono oggetto di restauro, anche grazie a finanziamenti stranieri e da parte della diaspora. Questi monumenti sono quanto rimane di un patrimonio molto più vasto andato in massima parte distrutto dall’uomo e dalle ingiurie del tempo. Nell’attuale Turchia rimangono pochi, ma significativi esempi di architettura armena sacra, quali la cattedrale di Akhtamar, presso il Lago Van, e il complesso di Ani, l’antica capitale dalle “mille e una chiesa”, a pochi chilometri dal confine armeno e visibile dalla città armena di Gyumri. La vastità e capillarità dei luoghi di culto esistenti in Anatolia dal I al XVII sec. sono attestate da un’antica suggestiva mappa rinvenuta casualmente presso l’Università di Bologna e recentemente tradotta e studiata dalla professoressa Gabriella Uluhogian.6
Tra i tanti esempi di architettura sacra in Armenia val la pena di ricordare il complesso monastico di Geghard: tra i più antichi, risalente ai primi secoli dopo la conversione, si compone di quattro edifici principali, costruiti in epoche diverse. Particolarmente singolari appaiono le chiese scavate nella roccia, le celle dei monaci abbarbicate sulla montagna intarsiata di croci, in un paesaggio maestosamente selvaggio. Luogo intriso di sacralità, colpisce anche il visitatore più agnostico quando, nella semioscurità della chiesa più interna, le pareti rivelano via via una miriade di piccole croci incise, mentre le voci di un piccolo coro intonano inni sacri che sembrano decuplicarsi sotto la cupola sovrastante.
Khor Virap è un luogo particolarmente caro agli armeni. Il suo nome, che significa “fossa profonda”, sta ad indicare il luogo in cui San Gregorio l’Illuminatore fu tenuto prigioniero per lunghi anni, fino alla liberazione concessagli dal sovrano Trdat III. Secondo la leggenda il re, come punizione per aver martirizzato la giovane vergine cristiana Hripsime e le sue compagne, era stato trasformato in cinghiale e potè assumere nuovamente le sembianze umane proprio grazie all’intervento miracoloso di San Gregorio. Di qui non solo la liberazione del santo, ma anche la conversione al cristianesimo del sovrano e la conseguente cristianizzazione dell’Armenia. Nel VII secolo venne qui fatta erigere una prima chiesa mausoleo, poi ricostruita nel XIII secolo e sostituita nel 1669 da quella attuale. Ma oltre per la sua importanza storica, questo luogo è meta irrinunciabile perché dall’alto delle sue mura si può godere di una delle più belle viste dell’Ararat, che appare vicinissimo ed imprendibile, con le cime perennemente innevate e rese spesso evanescenti da una anello di nubi che ne circonda le pendici.
Raggiungere il monastero di Tathev non è impresa del tutto facile: costruito su di un dirupo, a picco su di una gola profonda, doveva avere una straordinaria posizione strategica. Fondato nel IX secolo, fu centro di un’importante scuola miniaturista e polo religioso e culturale di prim’ordine. La chiesa principale, dedicata ai santi Pietro e Paolo, era anticamente affrescata, ma oggi rimane molto poco delle immagini dipinte; la decorazione anche qui è sobria e si limita alle effigi di una serie di personaggi che si presume fossero benefattori della chiesa.
Anche Noravankh è posizionato in cima ad un precipizio, ma in posizione meno elevata. Si tratta di un complesso monastico risalente al XIII sec., formato da tre chiese racchiuse da una cinta muraria, ognuna con una sua peculiarità; di queste originalissima è quella di S. Astvatzatzin, per la struttura a due piani. Si può accedere al piano superiore, salendo un’impervia scaletta che, per la singolarità della collocazione funge anche da motivo decorativo della facciata principale. Il paesaggio circostante, prevalentemente roccioso, si fonde armonicamente con il tufo chiaro degli edifici.
Haghartzin invece appare all’improvviso, celato da un lussureggiante bosco di faggi e rare conifere e circondato da morbide colline. Oltre alle quattro chiese, perfettamente conservato è un vasto refettorio con accanto un forno per il pane, ancora funzionante. Il complesso risale al X-XIII secolo. Particolarmente interessanti i gavit, uno dei quali è ricco di iscrizioni che forniscono molte informazioni di carattere storico su questo luogo, e una meridiana, finemente lavorata, con motivi floreali e le prime dodici lettere dell’alfabeto armeno incise al posto dei numeri. Curiosa, nella chiesa a Lei dedicata, la rappresentazione della Vergine e del Bambino in cui entrambi hanno tratti vistosamente asiatici: non si tratta dell’unico caso in cui gli artisti sembrano quasi voler in tal modo ammorbidire la suscettibilità di qualche islamico potente che, di fronte a dei lineamenti familiari, viene trattenuto dal desiderio di distruggere tale immagine sacra.
Il monastero di Haghbat fa parte del patrimonio dell’UNESCO. Eretto tra il X e il XII secolo, è particolarmente articolato: ne fanno parte oltre ad una chiesa principale e al singolare campanile a se stante, una serie di altre cappelle, un refettorio, una biblioteca, una fontana coperta: il tutto circondato da mura ove si alternano torri cilindriche. Nella chiesa principale, San Nshan, si intravedono le tracce di alcuni affreschi.
Le due chiese gemelle di S. Astvatzatzin e S. Arakhelots, raggiungibili grazie ad una ripida scalinata di un centinaio di scalini, dominano l’enorme bacino del Lago Sevan. In origine il territorio su cui sorgono era un’isola, ma attualmente si è trasformato in promontorio, a seguito del progressivo abbassamento subito dalle acque del lago. Restaurate di recente, risalgono al IX secolo.
In ognuno di questi luoghi di culto, e disseminati in tutto il mondo armeno, incontriamo i khatchkar. “Khatch” significa “croce” e “kar” “pietra”, quindi letteralmente tale denominazione denota delle croci di pietra. La pietra usata è, come s’è già detto, il tufo. Sostanzialmente diversi dalle più note croci celtiche, i khatchkar restano una forma d’arte originalissima, che ha accompagnato gli armeni nel corso di tutta la loro storia. Hanno fin dalle origini assunto funzione commemorativa, celebrativa e funeraria, e tali sono sentiti anche oggi.
Possono mostrarsi isolati o inseriti nei paramenti murari degli edifici, sia che questi siano sacri o profani. Indicano ovviamente anche i luoghi di sepoltura, e particolarmente importante è, a tal proposito, il grande antico cimitero di Noraduz, nei pressi del Lago di Sevan, risalente al XIV sec. In questa vasta area, le centinaia di croci, finemente cesellate, oltre che dare al visitatore una straordinaria visione d’insieme, hanno offerto agli studiosi una importante serie di informazioni storiche sull’epoca in cui furono incise. Infatti l’artigiano era solito incidervi il nome del committente e lo scopo dell’opera, assieme ad altri particolari oggi rilevanti.
Ma prima che assumessero le forme elaborate che ammiriamo a Noraduz o nei monasteri di cui si è già detto, i khatchkar sono stati preceduti da creazioni più semplici. Per comprenderne l’evoluzione, dobbiamo risalire alle loro origini. Queste ci rimandano all’era precristiana, in cui cippi e steli commemorative, note come vishap, contrassegnavano il territorio. Il vishap era una grande stele figurata, con la testa a forma di pesce o drago, probabilmente collegata con il culto dell’acqua in epoca pagana e tipica del secondo millennio a. C. Nei secoli VII e VI a. C. invece, compaiono monoliti urartei 7 con epigrafi a caratteri cunieiformi, mentre fu a partire dal IV sec. d. C. che compare la croce innalzata a testimonianza del martirio dei primi cristiani. Inizialmente le croci erano lignee; divennero in pietra a partire dal V sec., anche se all’epoca il motivo celebrativo più impiegato era una stele votiva, appoggiata su un basamento a forma di prisma, ornata con motivi vegetali stilizzati.
Il khatchkar propriamente detto fa la sua comparsa nel IX e X sec. Prescindendo dagli esempi più arcaici, che appaiono più semplici e stilizzati, la stragrande maggioranza dei khatchkar presenta i seguenti elementi: bracci elaborati alle estremità e riccioli agli apici; dalla base dipartono ramificazioni con foglie, grappoli d’uva e melograni, disposti simmetricamente, che rimandano all’ “Albero della Vita”; in genere non compare la figura del Crocefisso, ma la croce vuota allude al Risorto. Uno dei rari esempi di khatchkar con il Cristo affiancato dai due ladroni e ai piedi le pie donne è conservato a Etchmiadzin, sede del catholicosato armeno; un altro simile si trova a Haghbat. Infine, alla base della croce possiamo trovare un cuneo a gradoni che simboleggia in Golgota, oppure un disco istoriato, detto rosetta, che rappresenta il seme fecondo da cui germoglia l’Albero della Vita o può alludere al concetto di eternità.
In Italia possono essere ammirati due importanti esempi di khatchkar. All’Isola di San Lazzaro degli Armeni, a Venezia, accanto all’ingresso principale del monastero, all’ombra di un melograno, si erge un khatchkar del XIII sec., in tufo grigio. Opera del celebre maestro Poghos, è stato donato dalla Repubblica Armena alla Regione Veneto in segno di amicizia e a testimonianza dell’antico connubio che lega Venezia e il popolo armeno. Altro bellissimo khatchkar è conservato al Museo Archelogico di Milano.
Note:
- Osip Mandel’štam Viaggio in Armenia, Ed. Adelphi, Milano, 1988.
- Osip Mandel’štam (1891-1933), autore di diverse opere poetiche e di alcuni volumi in prosa, a causa di alcuni versi satirici su Stalin, è stato condannato e scomparso in un gulag siberiano.
- Adriano Alpago Novello è stato autore di una ricca serie di studi sull’architettura armena, basati non solo su documenti, ma anche su numerose missioni scientifiche effettuate sul posto. Nelle diverse pubblicazioni, spesso le foto sono opera sua. Ha diretto per diversi anni il Centro di Studi e Documentazione della Cultura Armena di Milano.
Si veda, per quanto qui riferito Ambiente naturale e ambiente costruito e L’Architettura armena tra Oriente ed Occidente di A. Alpago Novello in GLI ARMENI, Ed. Jaca Book, Milano 1998 e L’architettura degli armeni di A. Alpago Novello in Incontro con il popolo dell’Ararat:l’Armenia’”Tipografia armena S. Lazzaro, Venezia 1987.
- Nel “Corriere della Sera” del 5 luglio 1968, a commento dei risultati delle missioni in Armenia, effettuate dagli esperti del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena di Milano, il critico Cesare Brandi, coniò questa definizione, cui gli armeni sono molto “affezionati” e che amano citare.
- Si veda quanto H. Kasangian, ingegnere ed eminente studioso di architettura armena, afferma in proposito nell’autobiografico Otto grammi di piombo, mezzo chilo di acciaio, mezzo litro do ilio di ricino, ed. Il Poligrafo, Padova, 1996, pp. 103,104,107,108,109.
- Si veda Un’Antica Mappa dell’Armenia – Monasteri e santuari dal I al XVII secolo, di Gabriella Uluhogian, Longo Editore, Ravenna, 2000. Nota curiosa: una riproduzione di questa mappa si trova anche nel Museo di Storia di Erevan, assieme a molte altre antiche mappe dell’Armenia.