Testimonianze e Memorie - dettaglio

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LE ROSE DI ESTER Una madre racconta il genocidio armeno
di Margaret Ajermian Ahnert
Rizzoli Ed. Milano, 2008

Ester arriva alle soglie del novantanovesimo compleanno lucidamente serena, spesso ironica, auto ironica, capace di gioire delle piccole cose, come i fiori, ogni volta diversi, che la figlia le porta in dono all’ Armenian Home, e ha il privilegio di spegnersi nel sonno, pacificamente, dopo una sana colazione. Tutto questo dopo aver attraversato l’incubo della deportazione, dopo aver subito tutti gli orrori che il Grande Male poteva riservare ad un’adolescente di quindici anni. Una vita lungamente difficile, in cui non sono mai venuti a mancare la capacità di lottare, la strenua ricerca della felicità, il desiderio e la capacità di amare e di essere amata. Non cade Ester nel viscido tunnel della depressione e dell’odio sordo, senza rimedio. “Non lasciare”, raccomanda alla figlia Margaret “che la tua vita si riempia di risentimento, potrà solo farti male. L’odio è come l’acido, buca anche il suo contenitore.” E la figlia raccoglie amorevolmente i ricordi della madre, in cui gli episodi più dolorosi e raccapriccianti, sono talora inframmezzati dalle storielle buffe che si narravano in famiglia, nell’epoca felice, quando tutti si riunivano, nelle sere d’inverno attorno al tepore del tonir.

La storia di Ester si interseca con i ricordi di Margaret – figlia di sopravvissuti e nata negli Stati Uniti – con armonica complementarietà, un capitolo ciascuno, alternandosi. Margaret spesso riflette su quanto abbia inciso nel suo subconscio e nella sua maturazione il passato dei genitori, nonostante questi abbiano evitato il più possibile rivelazioni dure e dolorose. Significativo ad esempio l’ingovernabile panico provato nell’essersi trovata a tu per tu con un sia pur garbato ed affascinante funzionario turco, al sicuro in terra americana. Margaret compirà gradualmente una sua ricerca personale sulla storia del suo popolo e la sua decisione di trasmettere le memorie della madre ci appare come un gesto d’amore non solo filiale, ma verso tutti coloro che sono scomparsi nel nulla tra le rocce dell’Anatolia.

 

I BARONI DI ALEPPO
di Flavia Amabile e Marco Tosatti
Gamberetti Editrice, Roma 1998

Chi ama la cultura armena e prova grande simpatia per gli Armeni, avendo l'opportunità di recarsi ad Aleppo, sarà sicuramente ansioso di entrare nello storico Baron's Hotel . In tal caso, non tanto perchè questo ospitò tanti personaggi affascinanti e leggendari come Lawrence d'Arabia, Agatha Christie o Freya Stark, ma perchè rappresenta una singolare pagina di storia armena. Una storia "minore" - in quanto storia della famiglia armena Mazloumian che per tre generazioni fu proprietaria del noto albergo - inserita nella "grande storia." I Marzloumian, per sfuggire ai massacri di Habdul Hamid, approdano ad Aleppo, dove gradualmente, con grande abilità e tenacia, si creano una nuova esistenza. Il Baron's è il loro capolavoro: un albergo di lusso, l'albergo dei baroni, appunto, la cui insegna è scritta in arabo, in armeno, in inglese, ma non in turco.

Immaginiamo che dalle finestre di questo albergo tanti testimoni abbiano visto, sgomenti e pieni di vergogna, i convogli dei deportati, che ormai stremati ed abbruttiti avevano raggiunto Aleppo, ultima tappa verso il "nulla" del deserto.

Apprendiamo che nelle sue sale transitavano odiosi ospiti, come Jamal Pasha e l'alleato tedesco generale Leman von Sanders. Ma mentre questi venivano serviti sontuosamente e con tutti gli onori, in una stanza privata si tenevano rischiosi incontri segreti per organizzare piani di fuga di leader armeni in pericolo. Non solo, ma i Marzloumian diedero il proprio appoggio a Jalal Bey e a Bekir Sami Bey, i due prefetti che cercarono di bloccare la macchina della morte, disattendendo il più possibile gli ordini ricevuti da Costantinopoli.

 


HUSHÉR: La memoria - Voci italiane di sopravvissuti armeni
a cura di Antonia Arslan e Laura Pisanello
Ed. Guerini e Associati, Milano 2001.

 "Hushér" in lingua armena significa "Memoria". Memoria di un passato che non si vuole venga cancellato e negato. Le autrici hanno raccolto una serie di testimonianze tra armeni della diaspora che vivono in Italia, sopravvissuti al genocidio, o tra i loro figli, che hanno conservato l'eredità della preziosa e sofferta memoria dei loro cari. Ricordi di una catastrofe che si abbattè su di loro giovanissimi, ancora bambini, incapaci di comprenderne le ragioni. In queste testimonianze emergono però tanto coraggio, amore per la vita, e, quel che più colpisce, assenza di odio nei confronti del popolo turco. C'è infatti la capacità di distinguere tra il progetto criminale di un manipolo di governanti e tanta gente comune, senza il cui coraggioso aiuto molti non sarebbero sopravvissuti, conservando la fiducia verso gli altri e la vita.

 

 

MEMORIA DELLA MIA MEMORIA
di Gérard Chaliand
Ed. ARGO, Lecce 2003

 L’autore - studioso di geostrategia, nonché poeta e scrittore francese di origini armene – si era ostinato per anni a non dare ascolto agli echi di “un passato di disastri”. Poi “volente o nolente”, è venuto il momento di ricordare, quando ormai tutti i testimoni sono scomparsi. Nel racconto si rivolge proprio a loro, al nonno e al padre. Il racconto procede fluido, come un fiume di pianura dai lenti meandri, e in cui affluiscono innumerevoli frammenti di memorie private, che vanno a mescolarsi con la storia collettiva.

Non c’è rabbia, né odio nel ricordare: Piuttosto lucidità, disincanto. Tuttavia, non a caso l’autore si congeda con i versi del poeta Nazim Hikmet dedicati a Jelal Bey, governatore di Aleppo nel 1915, un uomo giusto, e a tutti coloro che “non vollero partecipare all’assassinio di un popolo.”

 

 

OTTO GRAMMI DI PIOMBO, MEZZO CHILO DI ACCIAIO, MEZZO LITRO DI OLIO DI RICINO. Vita e avventure di un ragazzo armeno
di Hatutiun Kasangian
Ed. Il Poligrafo, Padova 1996

 Un libro di memorie personali, scritto nella speranza che sui nomi di “tanti personaggi odiati, temuti o amati” per le loro azioni di un tempo, non scenda definitivamente l’oblio. Un libro caldeggiato dagli amici più veri di Harutiun Kasangian, ingegnere ed eminente studioso dell’architettura armena, che in una prosa fluida e piacevolissima offre al lettore – come osserva Antonia Arslan nella prefazione – “un tappeto di storie intrecciate con precisione, ciascuna conclusa in se stessa, ciascuna legata alle altre”dove “i luoghi, i paesi, le persone, gli accadimenti si riflettono l’uno sull’altro, e dalla contiguità temporale acquistano rilievo, e spessore, e significato.”

L’autore ci spiega che il progetto iniziale avrebbe dovuto limitarsi agli anni 1918-22, in cui giovanissimo – era nato nel 1909 ad Ardamutch (nord-est dell’attuale Turchia) – assistette a tre eventi epocali per il Medio Oriente e l’Europa, come la rivoluzione bolscevica, la presa del potere da parte di Kemal Atatürk e l’ascesa del fascismo. Di qui il singolare titolo che allude al “piombo dei fucili bolscevichi, all’acciaio delle sciabole kemaliste e all’olio di ricino fatto ingoiare a forza agli obiettori del regime fascista.” Da queste poche note introduttive si intuisce la garbata ironia, la sobrietà di stile, l’assenza di enfasi ed acrimonia che contraddistinguono questa narrazione in cui ripercorriamo le peregrinazioni del piccolo Harutiun tra Georgia, Russia, Turchia, Italia, negli anni 1918-22, per trovarlo poi stabilito a Venezia, studente del celebre Collegio Armeno Moraat-Raphael. Le memorie però continuano e si soffermano, alla fine, sui più recenti viaggi in Armenia e Georgia dove, agli interessi professionali, ritrova con emozione un mondo di ricordi infantili mai sopiti, perché “appena tutto si ripresenta, rientra nel cuore con uguale intensità.”

 

 

CONDANNATO AD UCCIDERE Memorie di un patriota armeno
di Arshavir Shiragian
Ed. Guerini e Associati, Milano 2005

Questo libro di memorie, pubblicato in italiano dopo quasi trent’anni dalla sua apparizione in lingua inglese, fornisce uno spaccato su una pagina ancora poco nota della storia armena successiva al genocidio.

Nel 1919 la corte marziale condanna a morte in contumacia i triumviri Talaat, Enver e Jemal e a pene di diversa entità altri personaggi di minore spicco, con l’accusa di “sterminio di tutto un popolo.” I condannati però erano già preventivamente riparati all’estero, dove conducevano esistenze agiate, in genere sotto falso nome. Il partito armeno Dashnak, denominato “Federazione Rivoluzionaria Armena”, crea un’organizzazione segreta, l’Operazione Nemesis, allo scopo di stanare e giustiziare i fautori del genocidio, sfuggiti alla giustizia. Operò in questa organizzazione anche Tehlirian, noto per aver ucciso a Berlino Talaat.

Shiragian porta a termine due attentati, uno a Berlino in cui cadono vittime tre alti funzionari turchi, tra cui Djemal Azmi, noto come “il mostro di Trebisonda.”

Oltre che mossi da uno spirito di ribellione per la mancata giustizia resa alle vittime attraverso l’applicazione delle pene pronunciate in tribunale, i membri dell’organizzazione nutrivano forti timori che i Giovani Turchi transfughi si stessero preparando, dai paesi ospitanti, un ritorno al potere.

Il racconto scorre veloce, tra pedinamenti, appostamenti, colpi di scena, momenti di alta tensione, per concludersi con il definitivo trasferimento di Shiragian negli Stati Uniti, dove dichiara di sentirsi definitivamente sicuro e libero.

Queste memorie pongono molti interrogativi morali sul concetto di giustizia, sul valore della vita umana e sul significato di termini quali “terrorismo” e “rivoluzione” che, a seconda dei momenti storici hanno assunto valenze diverse.

 

 

UNA STORIA ARMENA – Vita di Arshile Gorky
di Matthew Spender
Barbès Editore, Firenze 2010

Questa non è una comune biografia in cui le informazioni sono esposte con un sostanziale distacco oggettivo. L’autore non è solo un colto esperto d’arte, ma anche il genero di Gorky, avendone sposato la primogenita Maro. Qui si ricostruisce accuratamente e con un equilibrata partecipazione emotiva la vita privata ed artistica di Arshile Gorky, dalla nascita in un villaggio sulle rive del lago di Van nel 1895, fino al suicidio, presentito e preannunciato, commesso nel 1948. Da queste pagine emerge uno spirito originale, ribelle, bizzarro fin dall’infanzia e la prima giovinezza, età in cui aveva già manifestato una viscerale attrazione per l’arte. Il suo vero nome è Vostanig Adoian: sopravvissuto al genocidio, durante il quale perde la madre, morta di stenti, arriva negli Stati uniti nel 1920. Qui inizia una nuova vita che lo porterà a divenire uno dei massimi esponenti dell’espressionismo astratto, essendo prima passato attraverso uno stile pittorico che lo vede vicino a Picasso e Braque. La sua sarà un’esistenza tormentata da perenni difficoltà economiche, da rapporti umani vissuti con estremismi emotivi, in cui attacchi d’ira si alternavano a fanciulleschi entusiasmi. Il tutto però inglobato in una assoluta onestà intellettuale e morale, nonostante taluni ingenui puntigli ideologici, come l’ammirazione indiscussa per Stalin.

Il legame con la terra d’origine, con Van, i ricordi d’infanzia compaiono costantemente nella sua storia umana ed artistica. Ma egli amava raccontare apertamente di sé agli amici, agli allievi, una sorta di bisogno catartico; agli estranei invece, che petulanti avvicinavano l’artista famoso si divertiva a raccontare bugie, o verità alquanto stravolte, definendosi georgiano o talvolta russo, ed attribuendosi una millantata parentela con lo scrittore Maksim Gorky.

C’è un suo famoso quadro giovanile, precedente all’astrattismo, intitolato The artist and his mother molto apprezzato tra gli armeni della diaspora, tanto che tendono ad assurgerlo ad icona del genocidio. Ma Spender dissente da questa interpretazione che giudica restrittiva e non rispettosa delle intenzioni dell’artista, che non deve essere, a suo giudizio catalogato rigidamente, poiché non era armeno e non era americano,in quanto“era costantemente alla ricerca di un’identità che andasse al di là di ogni singolo paese.”

 

 

PIETRE SUL CUORE
di Alice Tachdjian
Ed. Sperling e Kupfer, Milano 2003.

Il libro è costituito dalle pagine dei diari di Varvar, che all'età di sei anni vede, nell'estate del 1915, in pochi giorni, distrutti la propria famiglia e il proprio universo per sempre. Scampata al genocidio, dopo lunghe peregrinazioni Varvar approda in Francia. Qui si costruisce una nuova vita irta di difficoltà, da apolide.

Varvar è la madre dell'autrice, che, traducendone i diari, ha donato a tutti i lettori un'eredità tanto preziosa. Scelta immaginiamo non facile, ma si intuisce, forse, dettata dalle parole della stessa Varvar che scrive: "Ma perchè Dio ha voluto che noi bambini sopravvivessimo? Perchè siamo stati risparmiati dalla furia omicida? Forse noi fummo dispersi per il mondo come una manciata di semi in cerca di terra fertile per testimoniare, ricordare e indicare ai nostri figli la via impervia e dolorosa del perdono".

 


“L’IMPUTATO NON È COLPEVOLE” – Atti del processo “Talaat Pasha”
Ed. Argo, Lecce 2006 

La lettura degli atti processuali a carico di Soghomon Tehlirian, che il 15 marzo 1921 uccide a Berlino, con un colpo di pistola Talaat Pasha, Ministro degli Interni del Governo dei Giovani Turchi dal 1910 al 1918, riparato nel 1919 in Germania sotto falso nome, per sfuggire ad una condanna a morte in contumacia, pronunciata dalla Corte Marziale per essersi macchiato di “crimine di lesa umanità” a danno delle popolazione armene residenti nell’Impero Ottomano, potrebbe apparire un compito riservabile agli specialisti in materia giuridica: contrariamente ci si rende conto che questo testo offre al lettore comune diversi spunti di riflessione storica ed ulteriori informazioni su quell’immane tragedia che fu il genocidio armeno del 1915.

Attraverso le dichiarazioni di testimoni illustri e non, chiamati a deporre, possiamo aggiungere importanti tasselli alla ricostruzione del contesto politico in cui il progetto genocidario fu messo in atto. Particolarmente rivelatrici sono le dichiarazioni del pastore Johannes Lepsius, responsabile della Deutsche Orient-Mission e del generale Otto Liman von Sanders, al cui comando erano le truppe tedesche inviate in Anatolia durante la Prima Guerra Mondiale. Se il Dr. Lepsius espone una serie circostanziata di fatti a dimostrazione della precisa volontà genocidaria dei Giovani Turchi, il generale Liman von Sanders cerca, almeno in parte, di scagionare il Governo ottomano, ritenuto – a suo avviso – responsabile delle deportazioni, ma non dei massacri indiscriminati di donne e bambini, opera che egli ascrive ad una frangia impazzita della gendarmeria ausiliaria, inadeguata al compito affidatole e quindi non opportunamente selezionata. Inoltre, l’alto graduato tedesco scagiona il proprio esercito da qualsivoglia corresponsabilità nei massacri, giudicando mere calunnie tutte quelle dichiarazioni della stampa alleata che hanno invece visto nei tedeschi degli ambigui collaboratori o taciti spettatori appostati dietro le quinte. Johannes Lepsius al contrario, allarga l’orizzonte di analisi, ricercando ulteriori responsabilità al di fuori dei confini dell’Impero ottomano e dichiara che “la questione armena non è un prodotto autoctono, ma una creazione della diplomazia europea” in quanto “il popolo armeno è stato vittima degli interessi politici della Russia e dell’Inghilterra.”

Nei racconti dei testimoni emergono riferimenti a figure di anonimi turchi e curdi buoni, che vennero in soccorso ai deportati, mentre risulta ricorrente la condanna morale della vittima, attraverso le drammatiche rivelazioni dei sopravvissuti chiamati a deporre. Interessanti appaiono anche alcune argomentazioni dei legali dalle quali emerge una visione stereotipata che gli occidentali del tempo avevano nei confronti dei popoli orientali, giudicati tendenzialmente inclini all’illegalità e scarsamente consapevoli del valore della vita umana.

La prefazione di Gérard Chaliand e l’Appendice che riporta i testi di 21 telegrammi inviati da Talaat alle autorità di Aleppo, aggiungono ulteriore completezza a questo testo.