Letteratura - dettaglio

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LA MASSERIA DELLE ALLODOLE
di Antonia Arslan
Ed. Rizzoli, Milano 2004 

Il primo romanzo per l'autrice di tanti saggi sulla letteratura italiana e sulla cultura armena. Sia pure trasfigurati dalla fantasia, i personaggi ritratti riaffiorano dalle memorie di famiglia, dai racconti sentiti da bambina, da vecchie foto di parenti di cui conosce le vicende lontane.

Yervant, affermato medico ormai residente da diversi anni in Italia, avendo avuto da ragazzo l'opportunità di venire a studiare al collegio armeno di Venezia, nel 1915 è in procinto di tornar a far visita ai familiari rimasti in Armenia e che non vede da tanti anni. Il suo viaggio, preparato con entusiasmo ed amore fin nei minimi particolari, sarà impedito dall'entrata in guerra dell'Italia. Nel frattempo in Armenia si compie la tragedia, di cui Yervant viene presto a conoscenza. Prima il brivido di una sensazione che qualcosa di grave deve essere accaduto, poi la certezza della morte del fratello e di tutti i familiari armeni lo fa sentire svuotato, solo e in preda ad un inguaribile senso di colpa per esser sopravvissuto e non aver potuto far nulla per i suoi cari. In realtà non tutti muoiono: sopravvivono alcune donne, ed un bambino, scambiato per femmina dai gendarmi che obbedivano all'ordine di eliminare subito gli armeni maschi. Protagoniste di questa storia sono quindi soprattutto le donne, madri, figlie, sorelle, che nella marcia verso il nulla, riescono a sopravvivere, nel fisico e nello spirito, fino a raggiungere, dopo una lunga serie di rocambolesche avventure, il loro congiunto in Italia.

Non c'è odio nel ricordo, nel racconto di tanta sofferenza e atrocità. Anzi si vuole volutamente distinguere tra la responsabilità storica del governo turco che pianificò ed ordinò il genocidio, e la popolazione turca, inorridita da un progetto tanto criminale. Sarà infatti un povero mendicante turco ad aiutare in modo determinante le donne nella loro fuga verso la salvezza.

Una storia scritta non solo con grande arte narrativa, ma soprattutto con amore, con l'amore verso quei personaggi veramente esistiti che hanno chiesto di essere ricordati.

 


 LA STRADA DI SMIRNE
di Antonia Arslan
Ed. Rizzoli, Milano 2009

Era nell’aria in quella frase, affatto casuale “ma questa è un’altra storia”, che compare tra le battute finali della Masseria delle allodole: coloro che si sono sentiti coinvolti e commossi dalle vicende del martoriato popolo della Piccola Città e si sono affezionati a quella sparuta manciata di membri della grande famiglia armena che è approdata, dopo indicibili dolori, ad Aleppo, attendevano con trepidazione, e talora malcelata impazienza, di conoscere il prosieguo della storia.

Shushanig (ormai morta dentro), le figlie (un’adolescenza massacrata), Henriette (chiusa in un silenzio irrisolto) e il piccolo Nubar (forse troppo piccolo, fortunatamente, per ricordare); gli straordinari Ismene, Nazim e Isacco (figure che potremmo dire di giusti, poiché hanno amato a tal punto i loro armeni, da rischiare per la loro salvezza il tutto e per tutto); Yerwant (rimasto impotente prigioniero, bloccato in Italia in una sorta di gabbia d’avorio) ricompaiono tutti, in questo nuovo poetico romanzo, assieme a tanti altri nuovi personaggi.

La narrazione procede fluida, con i ritmi armonici di un poema epico, in cui ogni immagine, ogni aggettivo è scelto con una cura ed attenzione speciali, diremmo con amore. Poche pennellate possono riassumere e racchiudere in sé un universo. La lingua italiana vi appare valorizzata in una moltitudine di potenzialità creative.

Anche qui le storie personali si fondono con la Grande Storia. Ismene, Isacco e Nazim, rimasti soli ad Aleppo, dopo che Shushanig è salpata alla volta dell’Italia, dedicheranno, sia pure in modi diversi, le loro esistenze ai sopravvissuti e a tanti piccoli orfani, sostenendo con astuzia, maestria e coraggio l’operato di volonterose missionarie europee, giunte sul posto con un bagaglio fatto di generosità, ma anche di non poca ingenua inesperienza. Nel frattempo, in Italia sono arrivate le figlie di Shushanig con Nubar, e l’inserimento, nonostante la buona volontà di tutti, non è facile. La narrazione infatti oscilla armonicamente tra Italia e Oriente, tra vicenda narrata e ricordi della bambina.

Oltre ai tanti personaggi noti e a quelli nuovi che qui incrociano le loro esistenze, vi è un’altra figura che a tratti sembra quasi ergersi a protagonista al di sopra di tutti: è la città di Smirne. Paragonata ripetutamente ad una donna fatalmente bella, che ama vivere appieno il presente in uno sfarzo temerario che rasenta l’illecito e danza voluttuosa ed inconsapevole sull’orlo di un baratro, la città diviene vittima sacrificale e il teatro in cui il romanzo si chiude. Il grande incendio del 1922, anche questo, come il genocidio, progettato, preparato con efficiente spietatezza dalle nuove forze al potere in Turchia, e “diplomaticamente” non previsto e sostanzialmente ignorato dalle Grandi Potenze, dà la mazzata finale agli armeni rimasti e colpisce con odio la fiorente comunità greca, non più tollerata nella nuova nazione “tutta turca” che Kemal sta edificando.

Ma mentre a Smirne crollano tutte le speranze e i fuggiaschi cercano disperatamente di raggiungere la salvezza attraverso il mare, in Italia si sta progettando il futuro per le due ragazze – Arussiag e Nervant – che aspirano a raggiungere zio Rupen in America, e Nubar che, dopo gli studi al celebrato e prestigioso Collegio Armeno di Venezia, dovrebbe, con una bella laurea in tasca, raggiungere zio Zareh in Siria. Speriamo che, in un’altra storia, ci verrà dato di conoscere cosa ne è stato di questi giovani, che hanno voluto costruirsi una nuova vita in quella diaspora tanto variegata e tanto unita nel ricordo del vecchio Paese perduto.

 


RACCONTI DEL SILENZIO - Cinque novelle armene
di Aksel Bakunts
Ed. Guerini e Associati, Milano 2002

 Aksel Bakunts è considerato uno dei più importanti scrittori dell'Armenia sovietica. Dopo gli inizi promettenti come autore di racconti e sceneggiatore cinematografico, in cui era portavoce dei temi legati alla lotta di classe, Bakunts, come altri intellettuali suoi contemporanei, cadde vittima del terrore staliniano. Appartiene anch'egli a quella che Jakobson definì "la generazione che dissipò i suoi poeti" e, come tanti, scomparve nel nulla. Si ritiene sia morto nel 1937; solo nel 1955 la sua figura e la sua opera vennero riabilitate e riscoperte.

In questi racconti il protagonista è il mondo contadino armeno, con le sue tradizioni, immerso nel silenzio della natura. Le condizioni di vita dei personaggi sono difficili, ma la critica, la denuncia è pacata. (Sicuramente troppo pacata dal punto di vista del regime). C'è un filo conduttore che lega questi cinque racconti: una situazione iniziale in cui regnano pace e continuità, viene improvvisamente sconvolta da un evento inatteso. Questo fatto incide radicalmente sull'esistenza e sulla memoria dei personaggi, i quali reagiscono però con misura, con parole non dette. Altro elemento principe è la natura: questa vive in un animale, un fiume, un fiore, che, alla stessa stregua degli uomini, diventano personaggi.

Questa prima traduzione in italiano dell'opera di Bakunts è frutto di un lungo ed accurato lavoro corale coordinato da Gabriella Uluhogian.

 

 

ODI ARMENE
di Elise Ciarenz
Ibiskos Uliveri Ed.Empoli (FI) 2007

A pochi kilometri da Erevan, su una piccola sommità vicino al ciglio della strada per Garni, si erge un arco di pietra grigia, essenziale nella forma. È “L’arco di Ciarenz”. Di lì lo sguardo si apre su di un’ampia vallata, ricca di vegetazione e vegliata dall’imponente mole dell’Ararat. Un luogo che gli armeni dicono fosse caro al poeta, che amava fermarvisi a riflettere e forse, pensano, a comporre versi.

Il pittore Mardiros Sarian, oltre che alcuni ritratti di Ciarenz stesso, ci ha lasciato anche una rappresentazione di quest’arco, inserito in un tripudio di luce e colore.

Gli armeni ha voluto fosse eretto questo monumento in luogo di una tomba che non c’è, poiché Ciarenz è una delle tante vittime del paranoico terrore staliniano che sono scomparse nel nulla. Si ritiene sia morto in un gulag nel 1937.

Come i russi hanno sempre amato leggere i versi di Pasternak dandosi convegno accanto alla sua tomba a Peredelkino, oggi gli armeni si recano all’arco di Ciarenz, per rendergli omaggio e mantener vivo il ricordo della sua poesia.

Personalità di intellettuale ed artista in continua evoluzione, Ciarez partì da un’esperienza crepuscolare e simbolista che lo avvicinava a Blok, per poi abbandonarsi entusiasticamente agli slanci futuristi, sulla scia di Majakovskij, con cui condivise anche la fede nella Rivoluzione d’Ottobre; successivamente ritornò a temi più intimisti e compose versi dedicati alla propria terra, dal passato millenario, e che sentiva di amare visceralmente. Deve esser stato proprio questo cambiamento di rotta ed un incauto intervento al Congresso degli Scrittori presieduto da Gorki, in cui osò sottolineare il valore delle letterature create dalle singole nazionalità, ad avergli valso l’accusa di deviazionismo e la conseguente condanna.

Questa breve, ma preziosa raccolta è curata e commentata da Mario Verdone, che contestualizza Ciarenz nel filone del Futurismo armeno e in quella grande e complessa fucina creativa che furono gli anni Venti in Russia; un’opera che costituisce un contributo importante alla conoscenza della letteratura armena, il cui patrimonio è ancora così poco noto in Italia.

 


LA ROCCIA E IL MELOGRANO
di Franca Feslikenian
Ed. Mursia, Milano 2000

L'autrice percorre, tra storia vera e propria e leggenda, laddove ci si allontana sempre più nel tempo, le origini delle famiglie dei propri genitori. Un racconto fluido e ricco di stimoli, per volerne sapere di più. Tra le figure descritte, non può non aver il posto centrale quella del padre Aram. Valente medico, scampato al genocidio e divenuto punto di riferimento per gli armeni della diaspora residenti a Milano, è, assieme alla nonna, il perno della crescita spirituale di Franca. Li perderà entrambi prematuramente, ma rimarranno sempre presenti nella sua vita. E' anche una storia di donne coraggiose e tenaci, che hanno affrontato le avversità della vita con energia. Il racconto è tutt'altro che cupo, ma costellato da tante immagini ricche di humor ed ironia.

 

 

LA FIABA DELL’ULTIMO PENSIERO
di Edgar Hilsenrath
Ed. Marcos y Marcos, Milano 2006

L’autore è un ebreo tedesco, per gran parte della vita perennemente in fuga, dal nazismo prima, dal rischio di una deportazione in Siberia, dopo la guerra: spirito inquieto ed errante, narra in uno stile originalissimo, con immagini talora intrise di sferzatane crudezza, gli ultimi istanti di vita di un vecchio armeno. Sono momenti in cui il tempo e lo spazio si dilatano e i ricordi ritornano all’infanzia idilliaca, fino a precipitare nell’inferno del genocidio. Realtà e immaginazione, dimensione onirica e metafora si intrecciano di continuo.

 

 

LA CROCE E LA MEZZALUNA
di Manug Khanbeghian
Ed. Anna Maria Mungo, Milano 2001

Un romanzo che narra, attraverso personaggi trasfigurati dalla fantasia dell'autore, la storia di un villaggio e di una famiglia spazzati via dalle stragi del 1915.

E' soprattutto una storia di donne, che tenacemente sanno resistere nella propria terra e, pur defraudate di tutto, riescono a sopravvivere con dignità e a mantenere vive le proprie tradizioni e la propria cultura.

Molto utile, a completamento della pubblicazione, un'appendice sulla geografia e la storia dell'Armenia.

 


LONTANO DA CASA
di David Kherdian e a cura di Antonia Arslan
Ed. Guerini e Associati, Milano 2010

Veron racconta una lunga pagina della propria vita attraverso il figlio David, affermato scrittore armeno-americano.

Una pacifica esistenza, iniziata nel quartiere armeno di Azizya, in Turchia, in una bella “preziosa casa, intonacata di bianco”, e interrotta brutalmente nel 1915 “quando la grande volta celeste si infranse e crollò sulle nostre vite, e noi fummo abbandonati dal sole e dispersi nel deserto arabico come semi nel vento.” Questo è l’incipit del romanzo, nel quale Veron riferisce fin da subito di essere l’unica sopravvissuta di una numerosa famiglia, un tempo prospera e felice. Ma l’immagine di quei semi, dispersi al vento, non è casuale: i semi possono, comunque, germogliare, anche nel deserto. Miracoli, meraviglie della natura. Analogamente, Veron non permette che il nulla del deserto la uccida, anche dopo la catastrofe. Appartiene a quelle fila di sopravvissuti che hanno continuato a lottare e a sperare, nonostante le perdite e i lutti si siano susseguiti inesorabili, come gli anelli di una catena, fino all’ultimo pezzo.

La deportazione, il dopoguerra, la permanenza in un orfanotrofio, un tentativo di ritorno a casa della nonna – unica della famiglia a non esser stata deportata -, il grave ferimento ad una gamba, l’approdo a Smirne dove ritrova alcuni parenti, di cui taluni accoglienti, altri più gretti ed egoisti, la precipitosa fuga da Smirne prima che l’incendio divampi irreparabile, ed infine il coraggioso matrimonio per procura con Melkon Kherdian, atto che le consente l’espatrio negli Stati Uniti, capitolo dopo capitolo ci mettono di fronte ad una bambina, adolescente, giovane donna, che ha vissuto, nell’arco di pochi anni esperienze che sarebbero bastate ognuna a segnarla e bloccarla per sempre; ma lei ha continuato a perseguire la propria ricerca della felicità, animata da una fede semplice e da una volontà ferrea.

Il racconto di Veron si conclude con l’insolita festa di fidanzamento, senza il promesso sposo, ma la situazione che per l’epoca non era poi così rara, non la spaventa. “Sento che andrà tutto bene. So che in America avrò una buona vita” rassicura zia Lusaper, angosciata per questo salto nel buio. Era sicuramente memore delle parole pronunciate dal padre, mentre tutt’intono c’erano morte e disperazione. “Penso che bisogna trovare il modo di rifondare il nostro popolo in un’altra terra e sono convinto che debba essere lontano da qui, lontano dalle nostre pene e sofferenze.” 

Per la struttura narrativa, la chiarezza espositiva dei contenuti e i messaggi in esso contenuti, questo romanzo è adatto anche ad un pubblico di lettori giovanili, a partire dalla Scuola Media. Particolarmente importante è, a nostro giudizio, anche il riferimento ai turchi buoni, a uomini giusti che cercano di aiutare le vittime, ed esprimono la propria contrarietà verso le assassine scelte dei propri governanti.

 

 

VIAGGIO IN ARMENIA
di Osip Mandel'stam
a cura di Serena Vitale
Ed. Adelphi, Milano 1988

In questi taccuini di viaggio, il poeta russo Mandel'stam ci trasmette la sua visione di un mondo cui si sente molto attratto e che visita tra il 1931 e il 1932. Sono pennellate lasciate da un poeta, piene di stupore e spesso intrise di affettuosa ironia. "Non c'è nulla di più istruttivo e gioioso dell'immersione in una comunità di esseri umani di tutt'altra razza, razza che si rispetti, con cui simpatizzi, di cui vai fiero pur non appartenendole. La pienezza vitale degli armeni, la loro rude affabilità, le loro nobili ossa lavoratrici........" così annotava Mandel'stam e l'immagine poetica che vede l'Armenia come "Regno delle pietre urlanti", verrà da tanti ripresa, per alludere alla splendida asprezza del paesaggio e alla storia tanto travagliata di questa terra.

 


MISSIONE A DZABLVAR – Epistolario socialista del compagno Phançhuni
di Yervant Odian
a cura di Andrea Scala
postfazione di Boghos Levon Zekiyan
Edizioni Lavoro, Roma 2004

Una decina di lettere, inviate da un rivoluzionario sognatore, logorroico, animato da un donchisciottesco entusiasmo, ad un non ben precisato Comitato Centrale, costituiscono l’espediente letterario con cui Yervant Odian dà vita ad una figura e ad una vicenda surreali: la realtà sociale e politica che caratterizza gli anni tra fine ‘800 e inizi ‘900, viene qui osservata e descritta attraverso la brillante ed illuminante lente della satira.

Missione a Dzablvar (1911) fa parte di una trilogia di scritti satirici che hanno come protagonista il compagno Phançuni: un personaggio comico, simpatico pur nella sua ottusità, ingenuità e codardia, che si esprime in un linguaggio infarcito di russismi, a ricordare il sostrato ideologico e culturale in cui si suppone sia stato istruito. Decide di fare il rivoluzionario non solo per rispondere ad un anelito ideologico, ma anche per non “restare a pancia vuota”; del resto il suo nome, in lingua armena, riecheggia il termine “nullatenente” e, non a caso, il nostro conclude molte delle sue lettere con un accorato “Mandatemi un po’ di soldi”.

Yervant Odian (1869-1926) oltre che esser stato “uno dei migliori curatori del genere [satirico] a livello della storia letteraria europea” – come osserva B. L. Zekiyan – è stato scrittore ed intellettuale poliedrico.

Giornalista e redattore di diverse testate, autore di romanzi, opere teatrali, memorie, oltre che scritti satirici, era originario di una famiglia della colta borghesia armena di Costantinopoli. Figlio di un diplomatico, viaggiò moltissimo, alternando soggiorni in patria a periodi di permanenza all’estero.

Nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1915 viene prelevato da casa ed iniziano quattro anni tra deportazione ed esilio. É uno dei pochi intellettuali armeni che sono sopravvissuiti alla persecuzione dei Giovani Turchi. Rientrato a Costantinopoli nel 1919, riprende per un certo periodo l’attività letteraria, ma ormai è segnato irrimediabilmente nel fisico e nello spirito. Morirà al Cairo nel 1926.

 

 

LE MELE DELL'IMMORTALITA'
Fiabe armene a cura di Sonya Orfalian
Ed. Guerini e Associati, Milano 2000

Una raccolta di fiabe dalle origini lontane: tramandate oralmente di generazione in generazione, spesso erano narrate dagli ashugh, trovatori o rapsodi itineranti, che solevano accompagnare il loro racconto con canti, specie quando la fiaba parlava d'amore. Tale patrimonio culturale fu trascritto agli inizi dell'Ottocento, da etnografi e antropologi armeni. L'originale armeno di questa raccolta fu pubblicato a Erevan nel 1956 e la curatrice ricorda il magico momento in cui per la prima volta, da bambina si imbattè nella lettura di "questo piccolo tesoro": un tesoro che narra di giovani eroi, di demoni di montagna, di animali fantastici, come le mucche-fate e i tori parlanti. Questa antologia offre al lettore uno spaccato della cultura armena popolare e un'idea del genere della fiaba armena in particolare. Molto accurate sono anche le spiegazioni nelle note, che consentono di comprendere ed immaginare meglio il contesto in cui queste fiabe sono nate e venivano narrate.

 

 

IL CANTO DEL PANE
di Daniel Varujan
a cura di Antonia Arslan
Ed. Guerini e Associati, Milano 1992

Il canto del pane è una raccolta di poesie, rimasta incompiuta. Iniziata negli anni 1913-14, fu interrotta dalla morte del poeta che, assieme all'élite armena di Costantinopoli, fu arrestato nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915. Varujan verrà poi ucciso a colpi di pugnale il 26 agosto dello stesso anno, a soli 31 anni.

Il canto del pane uscirà postumo, a Costantinopoli, nel 1921, dopo che il manoscritto viene fortunosamente recuperato, eludendo le maglie della censura turca.

Poeta poco conosciuto in Italia, Varujan è considerato uno dei maggiori artefici della lirica armena. In questa raccolta i versi trasmettono immagini della propria terra, della vita contadina: immagini apparentemente semplici, ma in realtà intrise di simboli. I colori, accesi, sono anch'essi allusivi e simbolici. Il legame con la terra e i suoi cicli vitali si fonde con la figura femminile: entrambe portatrici di vita. In questi versi ogni essere vivente appare immerso nell'armonia del creato, ma la pace è apparente, poichè compaiono segnali minacciosi, presagi di distruzione e di morte. Le stragi del 1896 non potevano non aver lasciato una profonda ferita nella sensibilità del poeta.

In Varujan riscontriamo anche una religiosità profonda, in cui Dio accoglie il popolo tra le sue infinite braccia e in cui Maria è innanzitutto madre, di tutte le creature.

( Sempre di Daniel Varujan si veda anche la raccolta Mari di grano, Ed. Paoline 1995, a cura di A. Arslan).

 

 

NOTTE TURCA
di Philippe Videlier
Donzelli Editore, Roma 2007

Quando uno storico e ricercatore come Philippe Videlier, che si è già occupato a livello scientifico di storia armena, decise di scrivere la storia degli eccidi ordinati dal Sultano Rosso e del genocidio armeno sotto forma di romanzo, non poteva comunque rinunciare ad inserire in questa narrazione un’ampia gamma di notizie, aneddoti, curiosità, informazioni storiche sull’epoca in questione.

Non ci sono personaggi di fantasia, tutti i nomi sono quelli storici.

Dove sta dunque il romanzo? Lo stile espositivo è elegantemente colloquiale, le immagini sono tracciate con un’accurata ed efficace scelta aggettivale e lessicale, poche pennellate sicure sul telo di un grande pannello, come quello di cui si servivano certi cantastorie. Amaramente caricaturali si mostrano i personaggi malvagi: di Habdul Hamid emergono “le orecchie sporgenti, i lineamenti sgraziati, le spalle ricurve”; a proposito dei triumviri, fa dire al prode ed affascinante Lawrence d’Arabia: “Djemal è un imbecille e un cafone”; ci rivela poi che Talaat, con il talento di un ottuso burocrate, teneva i conti dei deportati “in colonne ben allineate, [ma] sbagliando nell’addizione, visto che in aritmetica era poco dotato.” Dipinge quindi Enver come “un insipido bellimbusto, piccolo e smilzo” che nutriva uno sviscerato culto per Napoleone ed ovviamente per il proprio “IO”, parola ridondante in ogni frase da lui pronunciata.

Sono questi i particolari a cui si abbandona dunque la fantasia dell’autore, che ama anche le rivelazioni di episodi inediti, come quello che vuole la presenza del giornalista comunista americano John Reed sui luoghi delle deportazioni, quando tutti lo ricordano quale testimone della Rivoluzione russa e delle lotte di Pancho Villa.

Una breve, scorrevole lettura, accurata nei particolari, che invita ad ulteriori approfondimenti.


I QUARANTA GIORNI DEL MUSSA DAGH
di Franz Werfel
Ed. Corbaccio, Milano 1997

Questo grande ampio romanzo, ispiratosi a fatti storici realmente avvenuti, narra la tragica e strenua resistenza di circa cinquemila armeni che, per fuggire alla persecuzione dei turchi, nel luglio 1915, si rifugiano sul massiccio del Mussa Dagh, a nord di Antiochia. Qui tutti, uomini, donne e bambini, si organizzano, per combattere e difendersi, fino alla fine. Dopo esser riusciti a resistere fino ai primi di settembre, quando ormai cibo e munizioni scarseggiano e le malattie e gli stenti stanno decimando la piccola comunità, arriva provvidenziale una nave francese che, ricevuto un segnale da parte degli eroici messaggeri armeni, riesce a trarre in salvo i superstiti.

All'interno di questa epopea corale, vivono tante storie individuali, frutto della creatività dell'autore. Incontriamo però anche personaggi storici, come Giovanni Lepsius, pastore tedesco responsabile della Missione Tedesco-Orientale, che cerca, invano, di indurre il triunvirato turco a desistere dai suoi progetti di sterminio. Il capitolo del romanzo relativo all'incontro tra Lepsius e Enver Pascià è basato su quanto storicamente documentato.

 

 

NELLE ROVINE
di Zabel Yessayan
Ed. peQuod, Ancona 2008

Il massacro delle popolazioni armene di Adana, per mano turca, ha avuto luogo nell’aprile del 1909, svolgendosi in due fasi: una prima ondata di violenze dal 1 al 14 del mese, ed una seconda, ancora più cruenta, è stata portata a termine dal 14 al 27 aprile. Gli storici V.N. Dadarian e M. Flores concordano nel riconoscere che si tratta di un episodio poco conosciuto e dalla documentazione piuttosto frammentaria. Entrambi riferiscono che ci furono 25mila vittime armene: si trattava di convinti sostenitori della Costituzione, di cui chiedevano l’applicazione, e i cui principi erano stati inizialmente sbandierati dal Comitato Unione e Progresso. Pertanto questo “preludio del genocidio”- come lo definisce Dadrian – ha avuto luogo in un contesto in cui forze antiunioniste fedeli al sultano Abdühl Hamid II, attaccano con brutale determinazione una minoranza percepita come un pericoloso nemico interno. Nella prima fase gli armeni riescono ad opporre una efficace resistenza, fino alla tregua mediata dal console britannico. Nella seconda fase invece, questi ormai inermi e spossati, vengono annientati con l’impiego di metodiche che verranno riprese nel 1915. Il tutto avviene mentre al largo di Mersin – il porto di Adana – navi da guerra di Gran Bretagna, Francia, Italia, Austria, Russia, Germania e Stati Uniti assistono, senza intervenire, a questo “affare interno” ottomano.

Zabel Yessayan, armena residente all’epoca in Francia, viene inviata con una delegazione del Patriarcato ad offrire aiuti umanitari, all’indomani dei massacri. La sua è una testimonianza molto dura e sofferta. Per gran parte del testo predomina uno spossante senso di impotenza, di smarrimento, dinnanzi a tanta disperazione. I sopravvissuti sono larve umane, spesso rese folli dal dolore per i lutti subiti. Alle rovine, materiali e morali, fa da sfondo una natura impassibile, nella sua solenne magnificenza. Ma, nelle ultime pagine, emerge una luce di speranza, grazie al racconto dell’intervento salvifico di qualche turco giusto e buono, e alla voglia di ricominciare, di chi è rimasto.

La Yessayan è considerata una delle più importanti scrittrici armene del Novecento. Dopo aver fatto la spola tra Parigi, Costantinopoli e l’Armenia, nel 1933 decide, carica di entusiasmo e capacità progettuale, di trasferirsi definitivamente nell’Armenia sovietica. Qui però, al pari di Yeghishe Ciarentz, anzi probabilmente per averne assunto le difese, venne accusata di attività antisovietica e confinata in Siberia, dove morì nel 1943.