Armeni in Turchia - dettaglio

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IL SANGUE DELL’AGNELLO
Reportage fra i cristiani perseguitati in Medio Oriente
di Rodolfo Casadei
Guerini e Associati Ed. Milano, 2008

In qualità di inviato speciale del settimanale Tempi, Rodolfo Casadei ha svolto un’ampia e coinvolgente inchiesta tra i cristiani attualmente vittime di persecuzioni in Medio Oriente: Ampia, perché abbraccia sia i cristiani “di antica tradizione come gli assiro-caldei iracheni e gli armeni, sia quelli di nuova generazione come i protestanti evangelici di Turchia”; coinvolgente, perché l’autore esprime empatia nei confronti delle vittime mista ad “un senso di frustrazione”, cui però si accompagna un’assunzione di responsabilità: “quella di dare voce ai senza voce, di difendere dall’oblio la memoria dei protagonisti piccoli e grandi del dramma dei cristiani che hanno pagato con la vita e l’esilio la loro fedeltà a Cristo e al loro paese.”

Tutta la prima parte del libro tratta della critica situazione in Turchia e si apre con un importante ricordo di Hrant Dink. Casadei è stato l’ultimo giornalista italiano ad intervistare il fondatore e direttore di Agos, due mesi prima che questi venisse ucciso. Qui viene riportata quell’ultima intervista dalla quale emergono le coraggiose e scomode posizioni di Hrant Dink in materia di diritti umani, di riconoscimento del genocidio, di islam e ultranazionalismo in Turchia, posizioni che ne hanno fatto un bersaglio indifeso alla mercè dei suoi assassini.

Cinque mesi dopo Casadei torna in Turchia, dopo che a Malatya tre cristiani evangelici vengono torturati e uccisi da giovanissimi presso la sede di una casa editrice cristiana. In tale occasione si reca anche a Istanbul, sullo stesso luogo dove Hrant Dink è caduto. Con tristezza annota:”Nessuna targa, nessuna fotografia, nemmeno un mazzo di fiori secchi.” Ma quel che è più grave ed inquietante, le indagini sui mandanti del delitto sembrano giunte ad un punto morto e, se all’indomani del delitto migliaia di istanbulioti sfilavano recando storici cartelli con la scritta “Siamo tutti armeni, siamo tutti Hrant Dink”, a Trebisonda, città di origine di Ogün Samast il giovanissimo esecutore materiale del delitto, sono comparse scritte di segno opposto “Siamo tutti turchi, siamo tutti Mustafa Kemal”. E non solo , ma anche “Siamo tutti Ogün.”

 


HERANUSH – mia nonna.
di Fethiye Çetin
Ed. ALET, Padova 2007

Gli “armeni nascosti” di Turchia, alle cui storie Kemal Yalçin ha di recente dato clamorosamente voce dopo decenni di silenzio ed autocensura, trovano in questo libro una straordinaria compagna di viaggio nella ultranovantenne Heranush, che tutti avevano sempre chiamato Seher’, e che, giunta ormai al tramonto della vita, in un giorno apparentemente come tanti, decide di rivelare, con sobrie e faticose parole, alla nipote prediletta Fethiye le proprie origini armene, la deportazione e la storia di una famiglia frantumata e dispersa. Nonna Heranush – ovvero “Sergente Seher”, nel nomignolo affettuosamente datole dal marito – è sempre stata una figura carismatica per figli, nipoti e pronipoti; un punto di riferimento, una donna dalle qualità ed abilità non comuni, dotata di una autorevole personalità. È una delle numerosissime bambine ed adolescenti armene sopravvissute al genocidio perché rapite, vendute o accolte da famiglie turche, per scopi più o meno nobili. “I resti della spada”, così vengono popolarmente chiamate, sono, come afferma Antonia Arslan nella prefazione “mutilate nel cuore e negli affetti […], oggetti privi di una volontà propria.” Il prezzo da pagare per la salvezza era stato per tutte lo stesso: rinunciare al proprio nome, alla propria lingua, alla propria religione, alla propria cultura. Questa identità, lungamente sopita, quasi ibernata, sotto il fitto velo di una vita nuova, fatta di dolori, ma anche di alcune gioie, non è mai stata del tutto cancellata e i ricordi indelebili e struggenti di un mondo perduto, hanno ripreso a germogliare, come i semi dei fiori che miracolosamente rifioriscono nel deserto.

Per Fethiye, diventata adulta nella convinzione di avere origini esclusivamente turche, la scoperta è sconvolgente ed affascinante nello stesso tempo. Un mondo nuovo ed una nuova lettura della realtà le si aprono dinnanzi, e quando la nonna le chiederà di ricercare i parenti dispersi in America, Fethiye non si darà per vinta finchè non li avrà ritrovati.

Il racconto si dipana tra ricordi d’infanzia e storia presente, in cui emerge tra le righe l’impegno dell’autrice in ambito sociale e politico. Infatti Fethiye Çetin ha coraggiosamente lottato per la salvaguardia dei diritti umani in Turchia, pagando con la prigione le proprie scelte. Avvocato di Hrant Dink nel processo che gli fu intentato in base al tristemente noto art.301, con questo suo primo libro ha intrapreso una coraggiosa battaglia per dar voce alle armene nascoste di Turchia: una sorta di sasso nello stagno, i cui cerchi pensiamo siano destinati ad allargarsi. In Turchia ha straordinariamente raggiunto le sette edizioni, segno del bisogno di sapere da parte di tanti cittadini turchi e del fermento che anima molti intellettuali che si dissociano dall’ostinato negazionismo di chi governa il loro Paese.

 


L’INQUIETUDINE DELLA COLOMBAEssere armeni in Turchia
di Hrant Dink
Ed. Guerini e Associati, Milano 2008

Una serie di interviste rilasciate da Hrant Dink ai più diffusi giornali turchi; una raccolta di alcuni tra i suoi più emblematici articoli pubblicati da “Agos”; il ricordo degli amici, primo fra tutti Etyen Mahçupyan che gli è succeduto alla guida del coraggioso settimanale, e che in questa pubblicazione accompagna il lettore alla contestualizzazione dei diversi capitoli; l’articolata ed approfondita postfazione di Boghos Levon Zekiyan; stanno alla base di questo importante lavoro che consente al lettore italiano di conoscere più da vicino la figura di Hrant Dink.

È passato poco più di un anno da quel primo pomeriggio del 19 gennaio 2007, in cui questo “armeno di Turchia” – come desiderava autodefinirsi – è stato freddamente assassinato, davanti alla redazione del giornale che egli stesso aveva fondato. Una “morte annunciata”, direbbero i media, e che Hrant sicuramente presentiva, con lucidità, da tempo.

Vengono qui ripercorsi i momenti salienti della sua attività di giornalista, fin dagli esordi di “Agos” nel 1996, quando il suo settimanale destò enorme scalpore, pubblicando la notizia secondo cui c’erano fondate ragioni per ritenere che la figlia adottiva di Atatürk, la gloriosa pilota Sabiha, fosse un’orfana armena. Già allora iniziano i guai con le autorità turche, che lo invitano ad un insidioso colloquio in cui il gioco delle parti appare evidente, mentre le minacce serpeggiano sottili e gelide, oltre uno schermo fatto di ipocriti sorrisi e frasi melliflue. Da allora Hrant sentirà di avere sempre “qualcuno alle calcagna.”

Hrant è stato un uomo di pace, il cui obiettivo ultimo era la riconciliazione tra turchi ed armeni e un’armonica convivenza delle diverse nazionalità – turchi, armeni, curdi - che vivono in Turchia. Figura spesso scomoda, sempre coraggiosa, nei momenti più difficili sosteneva di possedere come unica arma di difesa la sincerità. Una sincerità che lo portò ad assumere posizioni molto decise sulle questioni cruciali del riconoscimento del genocidio armeno, della libertà di espressione in Turchia, sui rapporti tra gli armeni della diaspora e la Repubblica armena, sul ruolo del Patriarcato armeno, sul rispetto delle minoranze.

La sua analisi della realtà, la sua statura morale ed intellettuale hanno lasciato il segno, poiché – come sostiene B. L. Zekiyan – “rappresentano una pietra miliare” nella crescita democratica del suo paese, e hanno indicato “la strada principale per uscire dal vicolo cieco” in cui le relazioni turco-armene sono finite.

 


CON TE SORRIDE IL MIO CUORE
Viaggio tra gli armeni nascosti della Turchia
di Kemal Yalçin
Ed. Lavoro, Roma 2006

Questo “romanzo documentario” segna le tappe del viaggio non solo materiale, ma anche spirituale di un intellettuale turco che, a seguito del fatale incontro con Meline, una carismatica “armena discreta”, decide di “scostare il velo che gli offusca la coscienza” e di chiedere, indagare, conoscere una verità lungamente celata, sconosciuta ed oggetto di rimozione nella psicologia della società turca.

Consapevole di compiere una ricerca resa difficile dalla motivata diffidenza delle persone intervistate, e non priva di alcuni rischi personali, Kemal Yalçin incontra una lunga carrellata di cittadini turchi di origine armena diretti discendenti delle vittime della sevkiyet - la deportazione del 1915 – come costoro sono soliti definire il Metz Yeghern armeno.

In alcuni casi le informazioni sulla perdita dei familiari sono molto sintetiche, in altri particolareggiate e sofferte; segue il racconto di come i loro nomi armeni siano poi diventati nomi turchi, di come avvenne la conversione all’Islam – in certi casi sincera, in altri solo di facciata.

Non mancano note ottimistiche, storie di felici matrimoni misti, per lo più osteggiati dai genitori di entrambi gli innamorati. Nei racconti però emergono però diffusamente sentimenti di solitudine, di vuoto per la consapevolezza di non avere più radici, di averle perse per sempre nelle sabbie del deserto siriano; c’è il disorientamento dovuto alla percezione di aver smarrito la propria identità; una costante sorda paura ed un’irrazionale senso di colpa per essere, nonostante tutti gli sforzi di integrazione, irrimediabilmente “giaurri”. Emerge però anche in diversi testimoni il desiderio di creare comprensione, pace, armonia per una felice convivenza tra turchi, curdi e armeni in una società migliore.

Ai racconti in prima persona si collegano informazioni sulla storia della Turchia a partire dagli anni ’20, in cui emerge come, sia pur col passare degli anni e il susseguirsi dei governi, gli armeni rimasti nel loro Paese di origine abbiano continuato a subire violazioni dei propri diritti di cittadini. Due casi per tutti: la legge tributaria capestro del 1942 a carico dei non musulmani che ne causò la deportazione e il lavoro coatto a Aşkale; e il mancato diritto, per i cittadini di origine armena, di svolgere cariche pubbliche, dalla docenza universitaria al semplice lavoro di dattilografo in un tribunale.

Questo libro avrebbe dovuto circolare in Turchia già dal gennaio del 2002, ma pochi giorni prima della data prevista, la distribuzione fu bloccata “per ordini dall’alto, in attesa di tempi migliori”. È quanto fu detto all’autore a proposito di questo suo lavoro che appare molto importante non solo per gli armeni, ma anche per i turchi: infatti Safiye, Haci Ibrahim e altri, che pur amando sinceramente la loro Turchia hanno trovato il coraggio per svelare una storia lungamente nascosta, potrebbero idealmente guidare altri loro concittadini turchi nella ricerca della verità e fuori dalle sabbie mobili di un negazionismo ormai insostenibile.

L’edizione italiana è arricchita dalla prefazione di Antonia Arslan, ampia, circostanziata e poetica come una studiosa e grande narratrice sa fare.