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Novità librarie
 a cura di Sandra Fabbro Canzian

 

Un genocidio culturale dei nostri giorni Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena
a cura di Antonia Arslan e Aldo Ferrari
Guerini e Associati, Milano 2023

Quando il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin (1900-1959) formulò il termine “genocidio” nel 1944, non fece riferimento solamente al “crimine di barbarie” commesso nei confronti di una popolazione, un gruppo accomunato dalla medesima etnia o religione, ma vi associò quello di “vandalismo, consistente nella distruzione delle opere culturali e artistiche di questi gruppi”. Per i perpetratori, un genocidio non può dirsi completo se, dopo gli esseri umani, non ne vengono annientati anche monumenti, opere architettoniche, biblioteche e quant’altro testimoni la loro presenza, talvolta secolare, nel luogo da dove sono state estirpati. Tale forma di genocidio è stato definito da studiosi del tema genocidio bianco, dopo che il sangue aveva già invaso di rosso strade e fiumi. 
In tutta l’Anatolia, prima del genocidio armeno compiuto principalmente nel 1915-16, sorgevano molti antichi edifici armeni sacri e profani, che sono stati sistematicamente distrutti o abbandonati al degrado dalla fondazione della Repubblica Turca (1923) fino ad oggi. In tal modo si intende supportare le tesi panturche secondo cui gli armeni non furono un popolo residente in quei territori da tempi molto antecedenti all’arrivo delle genti di etnia turca. 
Tale politica è stata adottata anche in anni molto recenti dall’Azerbaigian, fedele alleato della Turchia. Questa pubblicazione raccoglie i contributi di diversi studiosi che analizzano la storia del Nakhichevan, spaziando nel campo dell’arte, della letteratura, degli antichi commerci, della religione, che attestano un’antica presenza armena nel territorio, oggi totalmente fatta sparire. 
Il Nakhichevan è oggi una enclave azera di circa 5000 kmq, che confina a est e a nord con l’Armenia, a sud e a ovest con l’Iran e a nord-ovest, per una quindicina di chilometri con la Turchia (dato tutt’altro che trascurabile). Se attualmente è parte della Repubblica dell’Azerbaigian, storicamente e culturalmente ha fatto parte dell’Armenia fin tanto che Osip Stalin, nominato da Lenin plenipotenziario per il Caucaso, nel 1922 non assolse, con machiavellico calcolo, al compito di tracciare opportuni confini tra le tre neonate repubbliche di Georgia, Armenia e Azerbaigian, da poco inglobate nell’impero sovietica. Stalin pensò bene di riservare un occhio di riguardo per la sua terra d’origine, la Georgia, mentre penalizzò scientemente l’Armenia a tutto vantaggio dell’Azerbaigian. Sembra che in questa manovra fosse stato influenzato dai buoni rapporti che aveva instaurato con Mustafa Kemal. Fu infatti in questa operazione che il Nagorno Karabakh (Artsakh) divenne quella martoriata enclave armena in territorio azero, di qui si è già precedentemente parlato. 
Nel 1922 il Nakhichevan viene assegnato all’Azerbaigian. Diversamente dal Nagorno Karabakh dove la popolazione armena decide in massima parte di restare, dal Nakhichevan prende l’avvio un progressivo e massiccio esodo di armeni alla volta della limitrofa Armenia. Le genti se ne vanno, ma restano le pietre: testimonianze artistiche e architettoniche della loro secolare presenza. Anche qui, come in Anatolia queste opere subirono un graduale e inesorabile processo di abbandono e distruzione, uno stillicidio che passò lungamente inosservato. 
La situazione è però drasticamente precipitata tra il 1998 e il 2005. Il Governo azero sin dal 1998 aveva stabilito di procedere alla completa distruzione del patrimonio artistico armeno restante in Nakhichevan. Ha destato un’eco e una desolazione particolari l’azione con cui sono stati abbattuti oltre 2000 preziosi antichi khatchkar nella piana di Giulfa. Il khatchkar, è la tradizionale croce in pietra, finemente cesellata in pietra lavica, eretta per scopi religiosi e celebrativi, che rappresenta uno dei simboli dell’armenità. Una tradizione iniziata nel primi secoli successivi alla cristianizzazione e durata fino ai giorni nostri. Quelli di Giulfa coprivano un arco di tempo che andava dal V al XVI secolo. Nel 1998 proteste da parte dell’UNESCO, invitato a intervenire su sollecitazione del Governo armeno, interruppero momentaneamente i lavori delle ruspe. Questi però sono ripresi indisturbati nel 2002 per concludersi nel 2005, quando tutte le antiche croci sono state polverizzate e riutilizzate come materiale per la costruzione di una massicciata lungo una linea ferroviaria. Questo scempio è stato documentato e fotografato da rappresentanti della Chiesa Armena, giornalisti e storici dell’arte di diverse nazioni. Assieme al cimitero di Giulfa sono stati azzerati i restanti monumenti armeni del Nakhichevan e oggi non esiste più una testimonianza visiva che nella regione siano vissute le popolazioni che li avevano eretti.
La medesima forma di genocidio culturale operata in Nakhicevan può verosimilmente essere attuata oggi in Nagorno Karabakh (Artsakh), dopo l’invasione dell’esercito azero del settembre 2023 e l’esodo di una massa di profughi armeni alla volta della Repubblica Armena. In Artsakh è sempre esistito un vasto e ricco patrimonio architettonico armeno, consistente soprattutto in chiese e monasteri. Particolarmente noto è il complesso di Dadivank, i cui preziosi affreschi sono stati recentemente restaurati da una equipe guidata dall’architetto italo-armeno Arà Zarian e dalla restauratrice belga Christine Lamoureux. Una mostra fotografica organizzata dai Musei Civici di Padova a Palazzo Zucherman (7 maggio – 26 giugno 2022) ne ha documentato gli eccellenti risultati. 
Ci auguriamo che i magnifici affreschi emersi da tanto lavoro, non vadano perduti, soprattutto alla luce della esplicita condanna espressa dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2022 sulla distruzione del patrimonio culturale del Nagorno Karabakh. Purtroppo la cinica legge dell’economia il più delle volte prevale su tutto. Oggi in Europa abbiamo bisogno delle risorse energetiche azere e i ricatti esercitati dal dittatore Aliyev potrebbero prevalere su ogni legittima protesta.  


Una famiglia armena
di Laura Ephrikian 
Sce Edizioni, Palermo 2021  

Quando iniziò le scuole elementari a Treviso, la piccola Laura si trovò dinnanzi a una maestra che, durante il primo appello, inciampò con la lettura in quello strano, lungo cognome chiaramente non italiano, e men che meno che veneto. “Ephrikian. … Da dove viene questo cognome?” E poi in seguito, nelle scuole il rito si ripeteva, cui si aggiungeva la domanda: “Dov’è l’Armenia?” 
Un aneddoto che riecheggia quello così magistralmente descritto da Henri Verneuil nel suo bellissimo film autobiografico Mayrig, in cui il piccolo Azad si trova ad affrontare una maestra altrettanto in difficoltà con il cognome Zakarian. 
Inizialmente la piccola Laura riceve poche laconiche spiegazioni in famiglia circa le origini armene del suo cognome, le dicono solo che il nonno paterno viene dall’Armenia. Si tratta di nonno Akop, “un uomo strano” che era stato il marito di nonna Laura, prematuramente scomparsa, e di cui Laura ha ereditato il nome e, stando a quel che molti asseriscono, la raffinata bellezza. 
Laura ama trascorrere con nonno Akop molti pomeriggi in giardino. Ma è un nonno taciturno, che parla un italiano legnoso, e che ha chiaramente deciso di non raccontare, di non rendere partecipi gli altri familiari del suo vissuto. Sicuramente l’amata moglie sapeva, ma lei ha sempre rispettato i desideri di silenzio del marito. Ci sono tuttavia alcuni barlumi di ricordo, che si sono annidati nella mente della nipotina e che riemergendo, sollevano interrogativi. Un giorno nonno Akop chiamò la piccola Laura “Gaianè”, che è effettivamente il suo secondo nome, ma con gli occhi pieni di lacrime e uno sguardo lontano, in un altro dove. Chi era stata Gaianè?   
Anche in seguito gli interrogativi della giovanissima Laura rimasero per lo più senza risposte. Lei ha voluto intitolare questo libro “Una famiglia armena” e questo è il segnale del crescente desiderio di recupero di un’armenità che non regnava in casa, dove invece lei ricorda che “si respirava aria di mistero”, quando si accennava ai “Padri”. Poi seppe che erano quelli di San Lazzaro cui venne donata tutta la biblioteca del nonno quando questi morì. Libri scritti con dei misteriosi caratteri alfabetici, mai visti altrove. 
Infine, tanta storia di famiglia è riemersa attingendo a un grande baule, prezioso scrigno di tanti ricordi, e in cui era conservato il carteggio tra Akop e Laura da fidanzati. Queste lettere hanno spiegato molte cose, ma hanno soprattutto stimolato, in una Laura ormai adulta, una ricerca sulle radici armene della propria famiglia. Si tratta, a quanto si intuisce, di una ricerca quasi in solitaria, sia pur affiancata dal fratello, presupponiamo inizialmente recalcitrante. Oggi Laura Ephrikian è nonna di ben cinque nipoti, tutti maschi, e uno di questi, Paolo, un giorno le ha riservato una bella sorpresa. “Seriamente, e con un certo imbarazzo” le ha chiesto se un giorno potrà conservare lui le 66 lettere dei suoi bisnonni, Akop e Laura. Forse oggi nonna Laura ha trovato un compagno di strada, un alleato, entusiasta, intraprendente e creativo, nella ricerca delle loro lontane origini armene.

 

 

George
di Siobhan Nash- Marshall 
Invito alla lettura di Antonia Arslan
Ed. Ares, Milano 2022   

L’autrice di questo romanzo è un’assidua e preziosa collaboratrice di Italiarmenia, esperta in questioni armenistiche e impegnata in attività umanitarie nel Nagorno Karabagh. Ha scritto I PECCATI DEI PADRI. Nazionalismo turco e genocidio armeno, (Guerini e Associati, 2018).       

George è un romanzo originalissimo, pieno di sfaccettature e che nel prosieguo della lettura suggerisce diverse chiavi interpretative: una sorta di matassa dai fili di diversi colori, che alla fine si dipana, lasciando comunque aperti spiragli di luce, assieme a interrogativi su quali debbano essere i veri valori per cui valga la pena lottare nella vita. Metafore e simboli accompagnano il lettore nel corso di tutto il testo. 
In apertura si ha la sensazione di trovarsi dinnanzi a una leggenda contemporanea che riecheggia certa mitologia classica. Il Drago che chiede agli uomini un tributo, è forse un novello Minotauro? E con esso, quei misteriosi personaggi che agiscono invulnerabili durante una “morte di massa”, non possono non farci rammentare i monatti di manzoniana memoria, assieme ai “respiratori”, moderni untori, simili a quelli tanto temuti negli anni nefasti della grande peste secentesca. 
George, come il santo di cui porta il nome, affronta il Drago. Trova gradualmente la forza dentro di sé per affrontarlo. Si tratta del medesimo Drago, il mostro (di cui non aveva visto le sembianze) per cui egli stesso ha per molti anni strenuamente operato, con convinzione, finché una fitta coltre di fumo grigio è piombata sul mondo; e quando gli uomini se ne sono accorti, a molti è parso fosse troppo tardi per uscirne. Questo è un mondo fatto di grattaceli freddi, imponenti e prepotenti, dentro ai quali numeri, digitati da pochi, scorrono rapidi in grandi schermi luminosi, dettando il destino di molti. 
A questo mondo se ne contrappone un altro, bellissimo, forse fatato, dalle tinte ora delicate, ora brillanti, un mondo che potrebbe assumere il nome di “Pacifica Armonia”, dove vivono tante famiglie, molti bambini, piccoli saggi, ma pur sempre bambini, con i loro capricci e i loro giochi. George viene accolto in questo mondo, si sente accompagnato e ascoltato. E qui inizia un suo percorso.
C’è una profonda e ampia cultura alla base di queste pagine: cultura filosofica, storica, letteraria, teologica, che ci indica lo spessore intellettuale dell’autrice. Il tutto porta a un messaggio molto importante: la necessità di riflettere su quali siano i mali dell’oggi, quelli però meno evidenti, ma per questo più pericolosi. Antonia Arslan, nel suo scritto introduttivo, ci fa lucidamente e saggiamente notare che stiamo subendo, per lo più inconsapevoli, una sistematica “amplificazione ottusa, priva di memoria e spessore storico, che ci viene infiltrata nel cervello” di svariati distruttivi messaggi, per opera di persuasori occulti, abili nella comunicazione di massa. Questo è uno dei mali odierni, foriero di altri, contro cui George comprende la necessità di lottare, prima che il Drago sferri un ultimo attacco mortale.

 

 

Il destino di Aghavnì 
di Antonia Arslan
Edizioni Ares, Milano 2022   

Abbiamo già incontrato, diversi anni or sono, tanti membri di quel ramo della famiglia Arslanian, che viveva pacificamente nella Piccola Città, fino all’oscena mattanza con cui venne decimata, quasi interamente, da concittadini traditori, che erano divenuti i nuovi fanatici padroni dell’Impero. C’erano lo zio Sempad con l’amata Shushanig, Veron, Azniv, Nubar, il fedele Nazim con Ismene, e tanti altri. 
Li abbiamo seguiti durante la martoriata deportazione, leggendo le pagine della Masseria delle Allodole, il romanzo che con tocco geniale ha guidato un vasto pubblico alla conoscenza del genocidio armeno. Abbiamo quindi assistito, ne La Srada di Smirne, al lungo periglioso viaggio con cui i giovanissimi superstiti della sfortunata famiglia riescono a raggiungere l’Italia, per essere finalmente accolti dal celebrato dottore, dallo zio Yervant, fratello di Sempad, nella sua grande e sicura casa.   
Credevamo ormai di averli conosciuti tutti, ed erano divenute figure familiari, per molti di noi; ma Antonia, nel corso di un recente viaggio negli Stati Uniti, incontra un cugino che le mostra una vecchia foto degli Arslanian d’Anatolia, ed ecco la scoperta. C’è un’altra componente della famiglia, che era stata fatalmente dimenticata, complice lo strisciante, ineluttabile incalzare degli eventi. Si tratta di una giovane donna, Aghavnì, sorella minore di Sepad, e quindi anche di Yerwant.   
Antonia naturalmente, indaga, compie ricerche, si interroga, immagina, fantastica con oculata consapevolezza della realtà storica. E anche la misconosciuta Aghavnì, al pari della restante parte della famiglia, chiede di essere ricordata. Di qui questo breve prezioso romanzo. 
Assieme al marito Alfred e ai loro due bambini, Garò, un maschietto di sei anni, e Zabel, una bimba di due, un giorno spariscono nel nulla, dopo essersi allontanati di poco dalla loro casa, che si trova nella Piccola Città. Sono i primi giorni in cui la plumbea nuvola di sordide m inacce si addensa senza tregua sulle teste degli armeni; le voci di uccisioni, torture, violenze atroci divengono sempre più insistenti. I familiari svolgono, fin che possono, tante ricerche: emerge un’ipotesi di rapimento, poiché nessuno ha trovato dei cadaveri, lungo la via. Poi il nulla, e sappiamo perché. 
Di fatto la giovane famigliola è stata rapita dai fedelissimi scagnozzi di Osman, indiscusso, autoritario e autorevole capo di una vasta, rude comunità di montanari, che vive in un impervio villaggio, una sorta di nido d’aquile quasi inaccessibile. Si tratta di una popolazione che esprime una elementare aderenza all’Islam, soprattutto attraverso il disprezzo verso i cristiani, ma che è del tutto priva di una benché minima cultura religiosa. Per Osman è motivo di tracotante orgoglio l’avere al proprio servizio, ridotta in schiavitù, una famiglia armena dalle origini illustri. Infatti non solo i due genitori, ma anche il piccolo Garò, devono lavorare indefessamente per il loro dispotico padrone, sin dal primo giorno. 
Aghavnì diviene subito consapevole di essere piombata in un vortice dal quale è impossibile uscire e, con intelligenza e forza interiore, lo affronta. Non si ribella – sarebbe motivo di morbosa violenza verso di lei e i suoi cari – lavora in silenzio, e gradualmente si conquista la simpatia e la solidarietà delle donne della comunità, povere suddite di uomini brutali. 
Garò diventa un pastorello e instaura spontaneamente un rapporto di empatia con gli animali che gli vengono assegnati, i quali obbediscono magicamente al piccolo armeno. 
Anche la piccola Zabel si ricava una sua nicchia, quasi confortevole, grazie all’amicizia dimostratale, sin dal primo giorno, dalla figlioletta del grande capo. 
L’unico che non sa accettare la sua nuova situazione è Alfred, e questa fragilità gli sarà fatale.
Esaminandone la vicenda, potremmo dire che Aghavnì appartiene a quella lunga schiera di “armene nascoste”, altrimenti note come “i resti della spada”. Donne che si volle turchizzare e islamizzare, ma che conservarono nell’intimo una decisa libertà interiore. 
La nostra fiera e saggia protagonista riesce, all’approssimarsi del Natale, a creare con piccole cose raccolte con cura e amore, e con l’aiuto del fabbro Selim/Tokom un presepio. La cosa non passa inosservata, ma, miracolosamente, viene lasciata libera di procedere nei lunghi preparativi. Non solo, ad un certo punto, alcune donne l’aiutano, pur non comprendendo appieno il significato di questo gesto. Ma sanno, in cuor loro, che è cosa buona. Perfino il grande temutissimo capo Osman lascia fare: complice l’Angelo Muto, che non abbandona Aghavnì e i suoi figli, in questo nuovo duro mondo, estraneo e straniero.   
In una intervista di alcuni anni fa, Carlo Arslan, ebbe a dire che per gli armeni, ovunque si trovino, è prioritario costruire una chiesa e una scuola, con discrezione, senza imporsi. 
A suo modo, anche Aghavnì si trovava in un mondo nuovo e straniero, ma riuscì, attraverso il suo Presepio, a esprimere la propria fede e identità armena, lanciando un messaggio di pace, con saggia discrezione.

 

 

Il Libro di Mush 
di Antonia Arslan 
con prefazione dell’autrice 
BUR Rizzoli, Milano 2022 

Nel settembre 2011 è stata allestita a Venezia a Palazzo Correr una vasta mostra intitolata “Impronte di una civiltà” dedicata al V Centenario della Stampa Armena. Tra le numerose sale che esponevano antichi manoscritti e libri a stampa armeni, una di esse non poteva non lasciare stupefatto il visitatore. Al centro di questa sala era collocata un’unica grande teca illuminata, contenente un libro dalle dimensioni eccezionali, precisamente mm 705x550, l’Omiliario di Mush, più noto come il Libro di Mush. A Venezia erano presenti sedici fogli di questa imponente opera, appartenenti alla Biblioteca dei Padri Mechitaristi di San Lazzaro. Potevano però essere visionate anche le copie digitali delle sezioni mancanti, che sono conservate al Matenadaran di Erevan. Nel suo complesso il libro consta di 661 fogli pergamenacei e pesa 32 chili. 
L’Omilario di Mush, contenente omelie scritte da diversi autori e, datato 1202, era appartenuto al monastero di Surp Arakelos (Santi Apostoli), fondato da San Gregorio l’Illuminatore nei pressi della città di Mush in Anatolia. È il più grande manoscritto miniato armeno esistente, e fu miracolosamente salvato dalla ottusa rabbia distruttrice dei fautori del genocidio; “un libro prezioso, simbolo fortissimo della volontà di resistenza all’annientamento e all’oblio di un popolo minacciato e perseguitato”: così lo definisce Antonia Arslan nella prefazione che precede questo suo breve, incantevole romanzo. Questo libro sacro era considerato taumaturgico dagli abitanti della valle, che si recavano con fede alle celebrazioni nel monastero. 
Talora ci si dimentica che un progetto genocidario non prevede solo la sistematica soppressione degli individui che costituiscono il popolo reietto del momento, ma anche la cancellazione di una cultura, con i suoi tesori artistici, letterari, architettonici; nel caso armeno, questi erano di straordinario valore, per raffinatezza, sapienza creativa e originalità. Si pensi ai khatchkar, merletti forgiati nella pietra, alle “chiese di cristallo”, che hanno resistito agli assedi di tanti devastanti terremoti, e quando sono crollate è stato per mano dell’uomo; e ai codici miniati, frutto della sapiente e saggia opera dei monaci che, chiusi nei loro scriptoria, hanno perpetuato una scrittura e una lingua armoniosamente intricate. La maggior parte di questo patrimonio presente nell’Anatolia orientale prima del 1915, è stato scientemente distrutto e vilipeso, ma non Il Libro di Mush, di cui Antonia Arslan ci narra l’epico salvataggio a opera di due eroiche donne armene, che dopo esser state barbaramente mutilate negli affetti terreni, hanno fatto della sopravvivenza del libro sacro una ragione di vita. Dopo un lungo e insidioso peregrinare, il Libro viene consegnato in mani sicure, affinché sopravviva, patrimonio di tutti gli armeni “sparsi nel vasto mondo”.   
La narrazione romanzata di questa vicenda, scandita in ventitrè piccoli capitoli, coinvolge emotivamente, affettivamente il lettore: i personaggi, “cinque creature malamente assortite”, sono palpabili, visibili, ispirano empatia. Ogni frase, ogni immagine, ogni aggettivo sono scelti con cura ed efficacia straordinari. Il poetico fluire del racconto si armonizza con diverse fondamentali informazioni storiche, fornite al lettore al momento giusto, senza alcun stacco dal ritmo narrativo. Si tratta di brevi efficaci pennellate che illustrano i pilastri dell’armenità. 
Quella del salvataggio del Libro di Mush, assieme all’impresa del Mussa Dagh, possono essere considerate, come osserva l’autrice, le uniche vicende a lieto fine negli anni orribili del Grande Male, ma hanno un valore immenso. Perpetuano la resilienza del popolo armeno, la caparbia volontà di sopravvivere e, come ebbe a scrivere Saroyan, di continuare a gioire delle cose semplici della vita.

 

 

YEGHISHE CHARENTS Vita inquieta di un poeta 
di Letizia Leonardi 
Prefazione di Carlo Verdone 
Le lettere, Firenze 2022

Yeghishe Charents (1897-1937) è uno dei poeti armeni più amati dal suo popolo ed è noto soprattutto grazie al suo dolcissimo e appassionato inno alla terra dei padri, la poesia Della mia dolce Armenia, scritta negli anni ’20. In questi versi evoca immagini, luci, colori, tradizioni, frammenti storici, tutto ciò che con poche pennellate illustra l’armenità. E non c’è armeno nel mondo che non conosca questa poesia e ami rievocarla in certi momenti.   
L’autrice di questa ampia e articolata biografia ci fa notare che la data di nascita è immediatamente successiva ai massacri hamidiani, di cui ipotizza che il giovanissimo Yeghishe abbia sentito parlare in famiglia, con innegabile sofferenza. Risulta, sempre da questa ricerca, che il poeta fu invece testimone del genocidio armeno, mentre era arruolato nell’esercito zarista, appena diciottenne. 
Soffermiamoci ora sull’anno della morte: il 1937. Siamo nel cuore del nefasto Terrore staliniano, anni in cui innumerevoli cittadini sovietici finivano nei gulag in base ad accuse infondate, e tanti scrittori, artisti e intellettuali scomparvero, dopo esser stati arrestati dalla čeka. Anche Charents fu una delle vittime della paranoica fobia e del fanatismo di un regime che vedeva “nemici dello Stato” ovunque. La data di morte di Charents è considerata certa - il 27 novembre 1937 - ma non se ne conoscono le circostanze esatte, e non è mai stato ritrovato il luogo di sepoltura. Al posto di quella tomba che non c’è in Armenia è stato eretto un imponente e suggestivo arco, l’Arco di Charents, lungo la strada che conduce a Garni, con vista sull’Ararat. Questo arco è stato anche immortalato in uno dei suoi quadri dal noto pittore Martiros Sarian, che fu amico del poeta. 
Nato a Kars, Charents si formò culturalmente in un contesto sia armeno che russo. Aderì giovanissimo al bolscevismo, convinto che il comunismo fosse la via giusta da seguire per edificare e salvaguardare la sua patria armena. Artisticamente entrò a far parte del Futurismo che ebbe in Vladimir Majakovskij il massimo esponente. Per quasi un ventennio Charents è uno scrittore stimato e acclamato, che gode di una immagine pubblica di prestigio. Nel contempo, come recita il sottotitolo di questa biografia, la vita privata è “inquieta”. Il lavoro di Letizia Leonardi si è avvalso non solo di ricerche bibliografiche, ma anche di epistolari, incontri con testimoni e visite in Armenia, nei luoghi in cui Charens visse e operò. Ne emerge una personalità complessa, non priva di fragilità, sbalzi d’umore, momenti di ottimismo e profonda tristezza, passionalità e instabilità.
Charents è stato, come detto, un convinto comunista e, in quanto tale, si sentiva cittadino sovietico, ma nello stesso tempo era profondamente legato alla sua millenaria patria armena. Con convinzione e onestà iniziò a ribadire, nel corso di importanti pubblici eventi, la necessità di valorizzare e conservare le diverse culture e tradizioni dei popoli riuniti sotto il vessillo dell’URSS. E questo venne interpretato male. Negli anni ’30 iniziò nei suoi confronti una sorta di snervante, perfido stillicidio. Da questo lavoro apprendiamo che mentre le autorità gli conferivano incarichi di prestigio, attribuibili a personaggi politicamente integerrimi, dall’altro le sue opere non venivano pubblicate o erano sottoposte a dolorosi tagli. Un atteggiamento che inizialmente risulta incomprensibile a Charents; quindi graduale e sempre maggiore, matura la disillusione. Del resto, non dimentichiamocelo, il grande, celebrato Majakovskij si era suicidato nel 1930, lasciando aperti molti interrogativi. Ma le menti lucide e colte, comprendevano che il motivo principale di questa scelta estrema erano state la sfiducia e la delusione profonde per non aver visto realizzati i sogni ispirati e promessi dalla Rivoluzione. Anche Charents è sempre più amareggiato e deluso. Non è nemmeno un ingenuo e presto capisce con chiarezza che il suo arresto è già stato deciso nelle lugubri stanze dei servizi del NKVD. Pur potendolo forse fare grazie all’aiuto di amici fedeli, non fugge all’estero, tanto era sentimentalmente legato alla propria terra. 
Viene accusato di attività anti-rivoluzionaria e nazionalista e organizzazione di atti terroristici contro la Federazione Transcaucasica. Poco dopo venne arrestata anche la moglie Isabella, che affida le piccole figlie e un grosso plico di scritti di Charents a una carissima amica di famiglia, Regina Ghazaryan, che è in seguito diventata una nota pittrice armena. A questa donna coraggiosa è qui attribuito il merito di aver salvato molte opere del poeta, che senza il suo tempestivo intervento sarebbero andate distrutte e perdute per sempre.

 

 

L’uccello blu di Erzurum  
di Ian Manook 
Fazi Editore, Roma 2022

1915-1939: in questo arco di tempo si intrecciano le storie dei diversi personaggi che animano questo coinvolgente romanzo, dettato dalle memorie di famiglia, che Ian Manook - in origine il cognome era Manoukian - ha raccolto con cura e devozione. 
Le stragi e la deportazione del popolo armeno, costituiscono il tema della prima parte dell’opera: una narrazione in cui al lettore vengono trasmesse le ragioni delle scellerate decisioni del Governo ottomano, i suoi scientifici piani genocidari, assieme a numerose descrizioni delle brutalità commesse dai cetè al soldo del Ministero degli Interni: banditi oscenamente crudeli, che godono nell’assistere e compiere torture e stupri, su quel che resta dei martoriati corpi delle povere vittime, soprattutto donne e bambini.      
Araxie, di dieci anni - la nonna dell’autore – e la sorellina Haïganouch, che è rimasta cieca a seguito dell’aggressione subita dai banditi curdi che hanno ammazzato la loro madre, sono rimaste sole e trascinate sulla via della deportazione. Araxie si rivela subito una colonna portante, nella sua esile figuretta di bambina, scavata dalla fame e coperta di stracci. Determinata a sopravvivere ad ogni costo e a difendere la sorellina minore, che non vede l’orrore, ma percepisce tutto con nitidezza. Sfrontata, con la parola tagliente di chi sa di essere nel giusto, è capace di guardare dritto negli occhi anche uomini potenti e prepotenti, lasciandoli spesso disarmati. Araxie, nel corso di tutta questa lunga narrazione, resterà sotto molti aspetti, la vera protagonista attorno alla quale ruotano tanti altri personaggi, significativi e ognuno con un suo ruolo indispensabile. 
Araxie e Haïganouch, al pari di tante piccole armene deportate che sarebbero poi andate a formare la silente e lungamente sconosciuta schiera dei “resti della spada,” ebbero salva la vita per esser state comprate come schiave e assegnate al servizio di una adolescente turca, spaventata e disperata, divenuta la moglie bambina di un uomo ricco, potente e brutale. Quella della vendita fu una scelta traumatica e dolorosissima fatta da una anziana donna, intelligente, tenace, coraggiosa che aveva preso le due orfane sotto la propria ala protettrice, essendo ormai percepita come una nonna adottiva. Ma questa Metz mama, come la chiamano le bimbe, sa che è l’unico modo per far sì che non muoiano di fame e sete lungo la strada o nel deserto siriano.   
Le due sorelle ricevono il marchio di tutte le schiave al servizio della casa dove vanno a lavorare: un piccolo tatuaggio, che ricorda loro quel merlo blu, che era solito appollaiarsi su un ramo della loro casa nei pressi di Erzurum. Per la crudeltà del potente padrone di casa, le due sorelle vengono presto separate, e si vuole che sia per sempre. 
Lo scenario, a partire dai primi anni del dopoguerra, si sposta in luoghi diversi, che vedono agire tante altre figure, non solo armeni e turchi: la Germania, gli Stati Uniti, la Francia, l’Armenia Sovietica, Smirne, Beirut, Mosca, la Siberia, la Svizzera. 
I sopravvissuti al genocidio sono andati a formare, nel corso degli anni di pace postbellici, la Grande Diaspora, nella speranza di trovare nei nuovi paesi ospitanti “una specie di felicità.” Araxie ci riesce, grazie alla sua intelligenza e una certa dose di fortuna. La Francia è il suo nuovo paese e l’autore ci fornisce uno spaccato molto vivido della diaspora armena in questa terra: i nuovi immigrati riescono a coniugare l’amore per il Paese Perduto, di cui conservano gelosamente usanze e tradizioni private, con il rispetto, l’ammirazione e la riconoscenza verso il nuovo mondo che li ha accolti.   
Ritroviamo anche Haïganouch in un paese nuovo, ma molto diverso e certamente più ostile: la Repubblica Socialista Sovietica d’Armenia. Da adulta ha sviluppato una dote manifestata sin da bambina, nel buio che ormai l’aveva irrimediabilmente circondata: comporre versi. Frequenta cerchie di poeti e scrittori, anche famosi, ma non sono anni fortunati per gli intellettuali in URSS. Nei capitoli relativi agli anni ’30 in Unione Sovietica veniamo immersi nella plumbea atmosfera del Terrore staliniano. I funzionari della Ghepeù sono spietati assassini, torturatori freddi ed esperti, maestri nell’arte perversa di creare false prove, contro tutti i cittadini sovietici scomodi, anche solo per futili motivi. Non c’è sicurezza per nessuno, nemmeno per fedelissimi membri del partito e militari di rango. Un mondo pericolosissimo in cui sembra non esserci spazio per un futuro felice. 
Non mancano infine diversi colpi di scena, alcuni fonte di gioie insperate, e testimonianze di intrighi politici in Germania come in Svizzera, argomentazioni di cinica realpolitik in America, ricatti, compromessi e tradimenti, orditi dai servizi segreti e dalle polizie delle potenze occidentali, ormai pronte a entrare nuovamente in guerra.   
Questo romanzo si apre con la pagina più sconosciuta e taciuta sulla prima Guerra Mondiale - il primo crimine di Stato, perpetrato ai danni della nazione armena lontano dagli occhi del mondo - e si conclude con l’annuncio dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, in seno della quale verrà compiuto un altro genocidio, allora presagito solo da pochi, che non furono ascoltati.

 

 

Quattro anni sotto la Mezzaluna
di Rafael de Nogales
Prefazione di Antonia Arslan
Guerini e Associati, Milano 2022  

“Quale unico cristiano che sia stato testimone dei massacri e delle deportazioni degli armeni in una veste ufficiale, intendo illustrare come si conviene tutta l’incongruità della mia posizione. […] All’epoca ricoprivo il grado di ispettore delle forze armate turche in Armenia.” 
Così inizia questa ampia opera autobiografica che il venezuelano Rafael de Nogales scrisse, dopo l’esperienza vissuta dal gennaio 1915 al gennaio 1918, a servizio dell’esercito ottomano durante la Prima Guerra Mondiale. La prima edizione in lingua spagnola, Cuatro años bajo la Media Luna, uscì nel 1924. Di lì a poco vennero pubblicate le traduzioni in tedesco e inglese. 
Prima di esaminare i molteplici contenuti e l’indubbio valore testimoniale di questo libro, è utile soffermarsi sulla personalità del suo autore, un personaggio ricco di sfaccettature. 
Rafael de Nogales nasce in un villaggio andino, San Cristobal, nel 1877, da una facoltosa famiglia locale, che presto si trasferisce in Germania per questioni prettamente commerciali. Il giovane Rafael, cui vengono assegnati precettori privati tedeschi e belgi, cresce in un ambiente cosmopolita. Pur essendo molto interessato alla storia antica, specie orientale, all’arte, alla filosofia, allo studio delle religioni, stabilisce di iscriversi all’accademia militare in Belgio, sentendosi votato alla vita militare. A diciassette anni completa tale formazione e si arruola nell’esercito spagnolo, combattendo nella guerra ispano-americana. Ama però anche esplorare mondi nuovi, recandosi in Alaska e Nevada dove sperimenta diverse attività lavorative. Si dedica quindi al giornalismo politico: i suoi articoli di condanna alla dittatura del venezuelano Cipriano Castro, vengono pubblicati negli Stati Uniti e gli causano pericolose inimicizie nella terra d’origine. Personaggio eclettico, inquieto, bisognoso di lottare, di combattere - aspira a far destituire Castro - e di porsi al fianco di qualcuno in cui credere, è stato definito un “soldato di ventura,” avendo prestato servizio militare per più paesi. Da non confondere con un mercenario, nulla di più lontano da questo; siamo piuttosto dinnanzi a un giovane uomo alla ricerca di un suo ruolo in un contesto bellico, sentendosi portato per le strategie militari e nutrendo degli ideali di onore militare e cavalleria tutti personali, ormai disattesi dalla maggior parte dei combattenti con cui interagiva. 
Nel settembre 1914 parte per l’Europa con l’intento di “offrire il [suo] modesto contributo al piccolo ed eroico Belgio,” ma presto deve verificare che, né il Belgio, né le altre potenze alleate, sono disposte ad accoglierlo nei loro ranghi, cui non sono ammessi i cittadini stranieri. Gli unici disposti ad accettare la sua offerta sono la Germania e l’Impero ottomano: quest’ultimo non gli richiede di rinunciare alla propria nazionalità, di prestare giuramento innanzi alla bandiera, e si accontenta semplicemente della sua parola d’onore. De Nogales accetta, pur trattandosi dei nemici di coloro cui aveva deciso inizialmente di rivolgersi, senza troppe remore. Non ne fa una questione ideologica. 
Inizia così per de Nogales un percorso molto travagliato, irto di situazioni assolutamente impreviste, e che gradualmente lo portano ad ammettere, con coraggio e onestà, di aver commesso gravi errori iniziali di valutazione nei confronti di singoli individui o gruppi di persone; esprime con schiettezza il proprio pensiero, si tratti di parole d’aspra condanna, o di stima incondizionata, anche laddove tanta sincerità può risultargli scomoda o pericolosa. 
Prima della guerra Rafael de Nogales nutriva un’opinione positiva nei confronti dei Giovani Turchi, ritenendoli “un rispettabile partito politico progressista,” e i suoi primi incontri con alcuni di loro, in particolare con Enver Pascà, sono all’insegna della cordialità, essendosi sentito bene accolto e stimato. Ma presto Enver, Halil, Cemal, Talaat e i diversi personaggi che stanno al vertice del governo ottomano, si rivelano ai suoi occhi per quello che in realtà sono: una massa di spietati assassini e insaziabili ladri che, “hanno fatto sprofondare l’impero negli abissi della peggiore barbarie.” 
Prima di partire non nutriva particolare stima e simpatia nei confronti degli armeni, e anche in seguito non risparmia loro alcune critiche. Li descrive come mercanti astuti e privi di scrupoli; ritiene che i loro partiti abbiano commesso errori strategici madornali durante il governo del sultano Hamid II, provocando i massacri degli anni 1894/96 ai danni delle inermi comunità armene; durante la guerra attribuisce ai battaglioni di irregolari armeni, schieratisi a fianco dei russi, gravi azioni di violenza, dettate dallo spirito di vendetta, verso civili turchi. Inoltre, pur totalmente indignato, scioccato dinnanzi alla disumanità delle deportazioni, ha parole di rimprovero, se non disprezzo, nei confronti di quegli uomini armeni che non sono stati capaci di scagliarsi contro un manipolo di gendarmi, pensando che così avrebbero potuto salvare le loro donne e i bambini. Ma questo è un interrogativo che in seguito altri solleveranno, cui non c’è risposta, o è troppo complessa da dare in poche parole. Un tema che richiede una lunga analisi, assieme a una profonda umana comprensione, un’empatia che al nostro giovane militare al momento sfugge. 
I massacri, le deportazioni, le ruberie da parte del governo e dei banditi curdi, sono il risultato di un piano accuratamente preordinato, anche agli occhi attenti di questo “soldato di ventura” venuto da lontano, il quale, con crescente orrore, disgusto e dolore deve assistere, senza poter fare nulla, con un falso mezzo sorriso sulle labbra, alle torture e a inaudite crudeltà fini a se stesse. Le descrizioni che ci fornisce sono molto precise, ampie, del tutto simili a quelle fornite in seguito da tanti sopravvissuti. Non mancano informazioni importanti sui telegrammi inviati dal Ministro degli Interni con ordini del tipo “Bruciare, demolire, uccidere,” e denunce dell’avidità di personaggi come Cevdet Bey, che priva il suo stesso esercito dei beni di prima necessità prestabiliti, pur di arricchire se stesso, con la complicità di tanti ufficiali. Questo malcostume permane, fintanto che lo stesso de Nogales non riesce a smascherare gli autori di tanti intrallazzi, fornendo ai soldati cibo e medicine sufficienti, e condizioni di vita dignitose. 
Rafael de Nogales si trova a partecipare all’assedio di Van, e questa esperienza, assommata a tutto il resto, genera una sorta di punto di non ritorno. Sente di stare davvero dalla parte sbagliata: ammira incondizionatamente “l’eroica città di Van assieme a tutti i suoi abitanti” e maledice l’ora in cui “la mala sorte [lo] ha trasformato nell’aguzzino dei [suoi] correligionari.” Chiede di essere rimosso dall’incarico assegnatoli e spostato in tutt’altro fronte. Di più non era possibile, e i suoi superiori lo accontentano ben volentieri. Aveva già visto e saputo troppo, poteva diventare pericoloso, se avesse raccontato tutto a chi di dovere. Lo spediscono nel Caucaso, con il progetto di eliminarlo lungo la strada. Ma non riescono a portare a termine un complotto che pensano ben congegnato, grazie all’intervento di alcuni “buoni amici” di Rafael, ufficiali tedeschi, beduini conosciuti nel deserto, e suoi soldati, che egli ha protetto nei momenti di necessità, e trattato anche molto severamente quando infrangevano regole di basilare importanza in quanto garanti della sicurezza comune. 
Quando fa un bilancio sulla immane tragedia della nazione armena, cerca di assolvere l’esercito per il quale ha prestato servizio, asserendo che “l’esercito regolare ottomano fu del tutto incolpevole dei massacri armeni.” Preferisce addossarne tutte le colpe ai dirigenti Giovani Turchi, e per quanto riguarda i tedeschi dichiara che “badavano bene a non immischiarsi negli affari interni dell’amministrazione militare e civile ottomana.” Fece eccezione il console Rössler, salvatore di tanti armeni, da lui citato per questi meriti.   
Ricordiamo infine, che de Nogales non era unicamente un uomo d’arme, ma anche un appassionato di arte e storia, e un abile scrittore. Troviamo qui molte pagine ricche di riferimenti storici su luoghi d’interesse artistico, che riesce a visitare nel corso dei suoi spostamenti o nelle pause di riposo. Sono numerosi i paesaggi che lo affascinano e di cui fornisce descrizioni di straordinaria efficacia, una carrellata di quadri espressionisti, fissati in uno stile elegante e originale.   
Questo libro è una preziosa miniera di informazioni registrate in tempo reale, da una voce diversa: un non armeno, uno strano latinoamericano, che per quattro anni ha combattuto per le Potenze Centrali, e nel corso dei quattro anni in cui si trovava sotto la Mezzaluna, ha cercato di capire la realtà che doveva fronteggiare, ricercando la verità e denunciando il male e le ingiustizie commesse, da qualunque parte provenissero.


 

I Quaranta giorni del Mussa Dagh
di Franz Werfel
Prefazione di Antonia Arslan
Mondadori, Milano 2021 

Il Mussa Dagh (o Mussa Lehr) è un monte che raggiunge un’altitudine di 1.355 metri e fa parte della catena del Tauro Orientale. Si trova nell’attuale Turchia, nella provincia di Hatay e le sue propaggini scendono fino alla costa che si affaccia al Mar Mediterraneo.
Nel 1915 fu teatro di quella che Antonia Arslan ha definito “l’unica vicenda a lieto fine del genocidio armeno.” All’epoca, gli abitanti armeni di sette villaggi collocati ai piedi del Monte di Mosè – questo è il significato del suo nome – guidati da un gruppo di capi, molto determinati e strategicamente dotati, fuggirono, al gran completo in cima al monte, per non sottostare alla deportazione in massa, già in atto e subita da tanti altri loro compatrioti, residenti nelle province orientali. Dopo essersi costruiti dei semplici alloggi e avendo portato con sé il maggior numero possibile di derrate alimentari e materiale di prima necessità, furono in grado di respingere una serie di massicci attacchi da parte dell’esercito turco, inviato sul posto a stanare gli “odiati traditori.” Nonostante l’inferiorità numerica e la limitata quantità di armi a disposizione, i ribelli armeni ebbero ripetutamente la meglio sul nemico. Una comunità di circa cinquemila persone in tutto, uomini validi, adolescenti, donne, bambini e anziani, in massima parte contadini e artigiani, riuscirono a resistere per oltre cinquanta giorni, stando alle fonti storiche. Quando ormai erano allo stremo, vennero tratti in salvo da due navi francesi, che comparvero al largo della costa e individuarono un enorme striscione che da tempo gli armeni avevano ben posizionato, in cui lanciavano un accorato ed esplicito SOS: “Siamo Armeni cristiani in pericolo. Salvateci!” 
Franz Werfel, nato nella magica Praga, multietnica e multiculturale, ebreo di nascita e madrelingua tedesco, è già uno scrittore affermato – autore di poesie, romanzi, testi teatrali – quando nel 1929, durante un viaggio a Damasco, visita una fabbrica di tappeti dove vede lavorare un gruppo di infelici orfani armeni, che colpiscono profondamente la sua sensibilità. Questa esperienza lo porta a svolgere ampie ricerche sia sulle stragi avvenute durante la Prima Guerra Mondiale, sia sulla storia e cultura di quel popolo martoriato. Werfel, pur sentendosi intimamente ebreo, sin da giovane ha importanti, formativi legami con il mondo cristiano, e forse è per questa ragione che ha scelto il numero 40, in questa sua opera, traendolo dalla tradizione biblica e cristiana, a partire dai giorni del Diluvio, che riconducono a quell’Arca, tanto sacra per l’universo armeno. 
Die vierzig Tage des Musa Dagh (I quaranta giorni del Mussa Dagh) viene pubblicato in Germania nel 1933, ma di lì a poco proibito dal regime nazista. Siamo nell’anno nefasto in cui Hitler impone la dittatura del nazifascismo e, con essa, la persecuzione antiebraica assume proporzioni sempre maggiori. Non a caso, anni dopo, durante la rivolta al ghetto di Varsavia, proprio il romanzo il romanzo di Werfel era il libro più letto in Polonia. Ci fornisce questo importante dato Antonia Arslan, nella sua prefazione, precisando: “Gli ebrei in disperata rivolta sentivano come l’intuizione dello scrittore avesse prefigurato, attraverso la storia degli armeni del Monte di Mosè, il loro stesso tragico destino.” 
Nel 1935 il romanzo viene pubblicato negli Stati Uniti, dove ottiene un grande successo di pubblico, assieme all’ammirazione e riconoscenza della diaspora armena. 
Nella sua interpretazione letteraria dell’impresa del Mussa Dagh, Werfel non ne attribuisce il merito a un gruppo di capi, coraggiosi e determinati, ma a un unico eroe, figura carismatica, autorevole e lungimirante, di grande fascino, sia pure dalla personalità complessa e non priva di intime, nascoste paure e taciute fragilità. Gabriel Bagranian è un armeno della diaspora, approdato giovanissimo in Francia, dove si è costruito una luminosa carriera e una agiata esistenza. Sposato con la raffinata e soave Juliette, orgogliosa figlia di Francia, hanno un figlio, Stephan, che di armeno, come il padre ha gli occhi, “occhi armeni, occhi stranieri.” Gabriel vive la dualità armeno-francese, con una certa rassegnata accettazione, in sospeso tra i due mondi, finché, per iniziali ragioni burocratico familiari, torna nel paese di nascita, Yoghonoluk, ai piedi del Mussa Dagh, dove ritrova la villa sontuosa in cui è nato, i colori, i bagliori, gli odori, le voci della sua infanzia. Moglie e figlio, inspiegabilmente sembrano adattarsi presto alla nuova realtà, ma rapidamente accade una svolta da cui nessuno tornerà più indietro. Gabriel Bagranian ritrova tutta la sua armenità: quella lingua lungamente non usata e che inizialmente gli esce così legnosa e straniera, torna a essere la sua lingua madre e percepisce la gente del posto, che pur guarda a lui con un’iniziale diffidenza, come un’entità vicina. Quando capisce che la catastrofe incombe inesorabile sul popolo dei sette villaggi, e sta per inghiottirlo, assieme ad altre figure di rilievo scelte tra i notabili e i religiosi, sprona il popolo alla fuga sul Monte di Mosè, gestisce tutta la logistica, organizza la difesa militare e si mette al comando delle centurie di combattenti. Non era un uomo d’azione, prima di tutto ciò, ma uno studioso e intellettuale, la cui esperienza militare era limitata al servizio prestato durante la Guerra Balcanica, ma tanto gli è bastato per istruire i suoi in modo efficace. Da abile e lucido stratega, conduce i ribelli armeni a straordinarie vittorie, che lasciano i capi turchi - quelli che come sempre succede nelle guerre se ne stanno ben lontani dal fronte - storditi, increduli e sempre più alle prese con lividi, meschini e sterili litigi. Ma, ogni giorno che passa, in cima al Mussa Dagh c’è un’altra logorante battaglia, sempre più difficile da affrontare, amara e avvilente. Risulta spesso complicato mantenere l’ordine, la disciplina, la collaborazione da parte di tutti, l’accettazione di regole imposte drasticamente per il bene comune. Con il passare del tempo, le quote alimentari vengono a mancare, la tensione, causata dalla paura e dal senso dell’ignoto, si fa più incalzante; emergono anche vecchie invidie, maldicenze, futili pregiudizi lungamente taciuti, situazioni di comune fragilità umana, poco dannose in un ambiente normale, ma che qui, se non frenate in tempo, possono condurre, e talora conducono, a serie conseguenze. Inoltre in un simile contesto estremo, avvengono fatti estremi: passioni irrazionali, tradimenti mai concepiti prima, amori rubati e amori mai sbocciati, assieme a lutti e traumi laceranti. Notti piene di incubi e visioni oniriche indecifrabili. Sono davvero tanti i personaggi che agiscono, ognuno con un suo ruolo ben preciso e basilare, in questo universo lontano dal resto del mondo, e Werfel fa uno sforzo speciale per penetrare il loro sentire, soffermando lo sguardo su ogni singolo “granello di melagrana” della loro anima. Quando ormai le genti del Mussa Dagh sono allo stremo, e il loro condottiero è mortalmente provato, nello spirito e nella mente, fanno la loro miracolosa comparsa le due navi salvatrici: è la fine di un incubo collettivo, e anche Gabriel trova la pace.
Ma c’è dell’altro, molto importante, in questa preziosa opera. 
All’interno del suo articolato impianto narrativo troviamo due capitoli che, per contenuto storico e per la qualità descrittiva delle persone e degli ambienti, potrebbero costituire un libro a sé stante. Si tratta delle parti accentrate sul pastore tedesco Johannes Lepsius, sul “dio della guerra,” Enver Pasha, sul Ministro degli Interni Talaat Pasha, “dalla zampa poderosa,” e su Djemal Pasha, il Ministro della Marina che, suo malgrado, fu spedito in Siria dagli altri due triunviri. Il lungo colloquio, purtroppo infruttuoso tra Lepsius ed Enver, che non ascolta ragioni e ha deciso di procedere alla completa realizzazione delle deportazioni, si basa su fatti concreti, come le diatribe tra Djemal e gli altri due. Magistrale resta l’interpretazione degli stati d’animo di Lepsius, che passa dalla rabbia, all’angoscia e frustrazione, suscitando una sorta di empatia nel lettore. Importante anche il riferimento al console tedesco Rössler che agì nobilmente in difesa degli armeni, assieme alle guide spirituali dei musulmani dervisci, senza trascurare le figure di semplici uomini del popolo turco che, nonostante i rischi concreti, intervengono in soccorso dei perseguitati.   
A conclusione, torniamo brevemente sulla messa all’indice di questo romanzo da parte di Hitler. Cercando attentamente tra le sue pagine, c’è una esplicita allusione alla Germania degli anni ’30 nel seguente dialogo tra Enver e Lepsius. Il primo afferma: “La Germania non ha per fortuna nemici interni, o pochissimi. Ma posto il caso che in altre circostanze avesse nemici interni, supponiamo polacchi …ebrei, in numero maggiore di quel che sia oggi, non approverebbe allora, signor Lepsius, qualsiasi mezzo per liberare dal nemico interno la sua nazione?” Al che Lepsius ribatte: “Se il governo del mio popolo procedesse contro i suoi conterranei di altra razza o di altre opinioni in modo ingiusto, illegale, inumano, io mi staccherei all’istante dalla Germania e me ne andrei in America!” Il nesso logico tra il destino subito dagli armeni e quanto si sta pianificando contro gli ebrei residenti in Germania è fin troppo chiaro. Perfettamente calzante la battuta conclusiva di Lepsius: “Non si tratta qui della difesa da un nemico interno, bensì dello sterminio di una nazione.”   
Gli armeni e gli ebrei: una stessa sorte, e Werfel lo aveva percepito con chiarezza. Anch’egli, come fa dire a Lepsius, fuggirà in America, per salvarsi dall’orrore nazifascista.

 

 

1829 Viaggio all’Ararat 
di Friedrich Parrot 
con contributi di Paolo Ascenzi, Kurt Diemberger e Aldo Ferrari
Edizioni del Gran Sasso, Roma 2020 

Johan Jacob Friedrich Wilhelm von Parrot nacque nel 1791 a Karlsruhe, nell’attuale Baden-Wüttemberg. Scienziato poliedrico, di profonda e sincera fede cristiana, alpinista esperto, è storicamente considerato colui che per primo scalò la vetta del Grande Ararat nel 1829, e fu definito, in virtù di questa impresa, “il padre dell’alpinismo russo e armeno.” 
Questo breve intenso libro è la cronaca, passo dopo passo, spuntone di roccia dopo spuntone, crepaccio dopo crepaccio, della sua conquista dell’Ararat. Impressioni ed emozioni personali si uniscono a una dovizia di dati tecnico-scientifici rilevati sul posto, al fine di arricchire il patrimonio di conoscenze dello studioso. 
Laureato in medicina e chirurgia, svolse la professione di medico chirurgo a servizio dell’esercito imperiale russo fino al 1816, anno in cui decise di dedicarsi alle scienze naturali, alla mineralogia e alla fisica. Esperto nel metodo barometrico per determinare l’altezza delle montagne, svolse diverse spedizioni scientifiche in Russia ed Europa, cui abbinò anche la pratica dell’alpinismo. Nel 1829 ottenne dallo zar Nicola I l’approvazione del suo progetto di salita dell’Ararat, cui il sovrano diede pieno appoggio, fornendo a Parrot mezzi logistici e una scorta militare. Gli obiettivi di ricerca scientifica e geografica, unitamente al sogno di trovare resti dell’Arca, avevano acceso le ambizioni del monarca russo. 
Parrot ebbe al suo seguito quattro scienziati, una guida locale, sei cosacchi, quattro soldati e un giovane diacono armeno di Echmiadzin, Khachatur Abovian, che sarebbe successivamente divenuto una figura di grande rilievo della letteratura armena ottocentesca. Abovian assunse il ruolo di ambasciatore, mediando tra il gruppo di alpinisti-scienziati e il clero armeno, e di interprete, essendo poliglotta. Parrot nel suo libro ne parla in termini molto positivi, attribuendogli abnegazione, modestia, coraggio, perseveranza, e indicandolo quale modello di fede religiosa e desiderio di conoscere.
Prima di accingersi alla scalata, il gruppo raggiunge l’unico villaggio che sorge ai piedi dell’Ararat e che Parrot denomina Arguri. In seguito ci saranno diverse varianti, per indicare il medesimo luogo. Riferisce che era abitato da circa 175 famiglie. Descrive minuziosamente le abitazioni e le usanze locali. La tradizione biblica narra che questo fu il primo punto dove Noè mise piede, appena sceso dall’Arca: vi edificò quindi un altare, per rendere grazie a Dio, e poi piantò una vigna. A breve distanza dal villaggio di Arguri sorgeva il Monastero di San Giacobbe, dove Parrot e compagni trovarono calorosa ospitalità. Parrot si dilunga nella descrizione dell’Abate, il Varthabed Karapet, figura mistica e affascinante, con cui lo scienziato entra presto in sintonia. Colpisce una osservazione circa l’anziano monaco: “I suoi occhi, grandi e schietti, imploravano un mondo migliore.” 
Parrot, prima di intraprendere questa missione, si era ben documentato non solo da un punto di vista tecnico-scientifico, ma anche storico e culturale, non trascurando tutte le teorie sull’impossibilità di raggiungere l’agognata vetta; una impossibilità dettata dal divieto imposto dall’alto clero armeno, nel convincimento che, essendo un luogo sacro, non dovesse essere violato. Su questo aspetto si sofferma anche Aldo Ferrari, nella sua ampia dissertazione acclusa a questa pubblicazione, riferendo che già in epoca precristiana l’Ararat era considerato luogo proibito, perché si credeva abitato da demoni ed esseri malefici, da cui era impossibile salvarsi. Molto interessante e singolare è il racconto che Parrot fornisce circa la provenienza del frammento dell’Arca che è conservato come reliquia sacra nella cattedrale di Echmiadzin. Questa sarebbe stata consegnata da un angelo, mandato dal Signore, a un monaco di nome Giacobbe che aveva cercato di raggiungere la vetta dell’Ararat, senza riuscirci: ogni qualvolta si addormentava, per la stanchezza, il poveretto irrimediabilmente scivolava in basso, ritrovandosi al punto di partenza. Il Signore, impietosito, lo premiò con il prezioso legno. 
Parrot, al pari di tanti altri che dopo di lui avrebbero conquistato la biblica vetta, ne era ammaliato, soggiogato, non solo per l’imponenza resa ancora più superba dalla piana circostante, ma per l’aura di mistero e sacralità che la circonda.
La vetta fu raggiunta dal gruppo solo al terzo tentativo. Ogni volta la salita durò mediamente tre giorni, con pernottamenti in alta quota, in angusti, gelidi ripari tra le rocce. Nei primi due casi, le difficoltà impreviste, i ritardi dovuti alla fatica, repentini cambiamenti atmosferici, suggerirono all’accorto ed esperto Parrot, che si sentiva responsabile nei confronti di tutti, di ritornare alla base, senza mai sentirsi sconfitto, ma saggiamente convinto di aver comunque ottenuto via via risultati importanti. In particolare, durante la seconda ascesa il gruppo riuscì a piantare una grande croce lignea che da lassù “guardava Erivan.” Dipinta di nero, molto massiccia, si voleva fosse individuata, grazie a un buon cannocchiale, dalla città che sarebbe diventata la capitale armena; sulla croce era affissa una targa in omaggio allo zar Nicola I. Parrot esprime tutta la sua gioia per questo risultato affermando: “Non senza profonda devozione, mettemmo piede in quel luogo che certamente, fin dai tempi di Noè, non era più stato calpestato da essere umano.” E di questo ringrazia la Provvidenza. 
Finalmente, il 27 settembre (9 ottobre secondo il calendario gregoriano) del 1829, alle tre e un quarto, Parrot e compagni raggiungono la vetta, dopo due giorni di salita. 
Pacatamente Parrot scrive: “La prima cosa che desiderai fu un meritato riposo: stesi il mio mantello e mi sedetti. La vetta aveva grossolanamente la forma di una cupola poco inclinata.” Nessuna retorica auto celebrazione, anzi le uniche parole di lode sono per Abovian che, con notevole rischio personale, piantò una croce, molto più piccola della precedente, in una posizione molto impervia e pericolosa, ma che guardava verso la valle. In quel luogo il giovane diacono raccolse quindi del ghiaccio, per portarne l’acqua di scioglimento, quale atto devozionale, ai suoi superiori di Echmiadzin, che la accolsero come sacra. 
Non pago della meta raggiunta, dopo un mese, Parrot parte con i suoi alla volta del Piccolo Ararat. Ne raggiungono la vetta al primo tentativo, il 27 ottobre (8 novembre secondo il calendario gregoriano) del 1829. Pur essendo anche questo di natura vulcanica, Parrot constata che le caratteristiche ambientali e la vegetazione sono molto diverse. Questa salita manifesta molte insidie ed è forse più faticosa del previsto. Soprattutto le condizioni climatiche si fanno decisamente avverse.
Anche il Piccolo Ararat racchiude in sé un’aura di mistero. Vengono ritrovate delle pietre con iscrizioni in tataro. “Cerchi di pietre in ordine preciso, su un pezzo di terreno perfettamente piatto, come se fossero stati messi lì solo da pochi mesi, o addirittura giorni prima.” 
Anche il Piccolo Ararat, al pari del suo fratello maggiore, potrebbe pertanto divenire oggetto di attente e stimolanti esplorazioni.

 

 

I ribelli del Mussa Dagh  
di Fulvia Degl’Innocenti
con una nota di Antonia Arslan
Notes Edizioni, Torino 2021  

Accade spesso che coloro che iniziano a informarsi sul genocidio armeno si chiedano: “Ma non ci fu mai, da parte del popolo armeno un qualche tentativo di ribellione, una lotta di difesa, una battaglia, sia pur limitata, in cui gli armeni non siano stati irrimediabilmente annientati e sconfitti?” Tra i sopravvissuti vi furono coloro che, a distanza di tanti anni, constatarono amaramente che, pur essendo numericamente molto più numerosi dei gendarmi che li affiancavano durante la deportazione, il terrore e l’orrore che stavano provando, unitamente allo stremo delle forze, annichilivano totalmente qualsivoglia capacità di reazione. 
Di fatto, oltre alla breve sollevazione di Van, conclusasi però con una resa, l’unica vera ribellione con esito positivo per gli armeni fu quella attuata dagli abitanti di sette villaggi contadini distribuiti sulla piana prospiciente il Mussa Dagh (o Mussa Ler, in armeno), ovvero la Montagna di Mosè, le cui pendici scendono fino al Mar Egeo. Antonia Arslan ha definito questa vicenda straordinaria “l’unica storia davvero a lieto fine della tragedia armena.” Questa eroica impresa di ribellione e resistenza fu organizzata dai capi villaggio di sette piccoli centri dove, sempre più allarmanti, erano pervenute le notizie di massacri e degli ordini di evacuazione e deportazione attuate in altri vilayet dell’Impero. Decisi a non subire tale destino, gli abitanti dei sette villaggi abbandonarono abitazioni e terre e si rifugiarono al gran completo, con masserizie, animali, e quant’altro trasportabile, sulla cima della Montagna di Mosè, dai cui anfratti, a loro ben noti, furono in grado di sostenere una strenua resistenza armata contro l’esercito turco, che aveva deciso di attaccare quelle poche migliaia di ribelli, perchè avevano osato disobbedire agli ordini governativi. La resistenza durò quasi una cinquantina di giorni, finché le genti del Mussa Dagh non furono, quasi miracolosamente, tratte in salvo da un paio di navi francesi, avvistate al largo, e cui gli intraprendenti fuggitivi avevano lanciato un accorato SOS. La popolazione era ormai allo stremo delle forze, ma sta di fatto che gli eroici ribelli del Mussa Dagh riuscirono a mettere in serie difficoltà i militari turchi, nonostante la disparità numerica e la limitata disponibilità di armi. 
Il primo a narrare in forma romanzata questa epopea fu lo scrittore ebreo praghese Franz Werfel che nel 1933 pubblicò I Quaranta giorni del Mussa Dagh, un poderoso volume che ha coraggiosamente introdotto il tema del genocidio armeno in un momento storico già di per sé molto drammatico. Di recente, tramite la Mondatori, ne è uscita una nuova edizione in italiano, con la prefazione di Antonia Arslan. 
Raccontare a dei lettori giovanissimi una vicenda che ha molti risvolti tragici, carichi di violenze inconcepibili, inseriti in un contesto storico complesso, non è impresa facile. Altrettanto complicato è rivelare le gravi ingiustizie commesse con un linguaggio e immagini che non turbino il lettore al punto da frenarne la volontà di continuare a leggere. L’autrice, esperta in letteratura per bambini e ragazzi, ha saputo in questa sua opera armonizzare il tutto, e certamente la chiave giusta è stata quella di far sì che i protagonisti siano un gruppo di ragazzini, bambini e preadolescenti. 
Amici tra loro, compagni di giochi e avventure spensierate, poco per volta capiscono che qualcosa di oscuro e molto grave sta avvenendo e che gli adulti non intendono subito rivelare. Ma quando la tragica verità viene a galla, non vogliono più esser trattati “da bambini,” ma fare la loro parte, per quanto sanno e possono, a sostegno della comunità. La storia è vista con i loro occhi giovanissimi, limpidi, ma non così ingenui e immaturi come i “grandi” immaginano. Diventano soprattutto coraggiose, velocissime staffette e svolgono quant’altro le inesauribili energie dell’età e una inaspettata inventiva offra loro.  Narek è il leader del gruppo, composto da Grigor, Hovo, Ruben, Petros, perché il più grande e maturo. A tredici anni ha già sperimentato su di sé cosa significhi essere perseguitato, in quanto armeno. A scuola l’emarginazione, ormai accettata, da parte del gruppo turco, con l’unica eccezione del fedele Yagmur, diventa però una forma di pesante bullismo, cui i docenti e il preside non pongono freni. Anzi anche i docenti diventano dei persecutori, infliggendo a quello studente modello sul piano del rendimento e della condotta una serie di umilianti, palesi ingiustizie. Molto attuale la situazione scolastica vissuta da Narek, preso di mira da compagni di classe violenti e prepotenti, perché diverso da loro, più povero, figlio di umili contadini, ma fin troppo bravo nei risultati invidiabili e difficilmente eguagliabili. Le stesse riflessioni, i desideri di Narek, possono esser compresi e condivisi da un suo coetaneo di oggi. Ecco perché, una vicenda avvenuta più di un secolo fa, in posto lontano del Medio Oriente difficile da individuare nella carta geografica, può risultare coinvolgente per dei ragazzi e ragazze di oggi, e il massimo risultato sarebbe che, dopo questa lettura, volessero sapere qualcosa di più sul primo genocidio del secolo scorso.

 

 

LA MEZZALUNA SULLA CROCE L’Islam di Erdoğan, l’Armenia e l’Europa
di Giulio Meotti 
Giubilei Regnani, Roma/Cesena 2021 

La conversione in moschea di Santa Sofia a Istanbul il 24 luglio 2020 è stato un grande evento mediatico ripreso dalle televisioni di mezzo mondo, su cui per qualche giorno si è ampiamente argomentato, non lesinando riprovazioni per lo smodato orgoglio esibito da Erdoğan per l’occasione. Risalente a una prima struttura del IV secolo e dedicata alla Sophia (la sapienza di Dio), assunse l’attuale struttura e divenne cattedrale cristiana nel 537; nel 989 subì enormi danni a seguito di un terremoto e il restauro fu condotto dall’architetto armeno Trdat che ne rafforzò la cupola, rimasta solida fino ad oggi; la cattedrale restò cristiana fino al 1453 quando fu trasformata in moschea dopo la conquista ottomana; sconsacrata nel 1931, divenne museo nel 1935 per volontà di Mustafa Kemal. Sostanzialmente è stata comunque considerata la maggiore cattedrale della cristianità in Oriente, conservandone immagini sacre di inestimabile valore. Ma l’evento del luglio scorso, che forse non a caso ha preceduto di un paio di mesi l’attacco turco-azero al Nagorno Karabakh, è solo la punta dell’iceberg di un progetto – meglio dire una trama – iniziato da tempo e che è passato inosservato a molti nel corso degli ultimi anni. Tale progetto si basa chiaramente su quella malata ideologia panturchista che a suo tempo ispirò le menti dei Giovani Turchi quando pianificarono e perpetrarono il genocidio armeno oltre un secolo fa. 
Giulio Meotti ci riferisce una lunga serie di dati concreti su cui ragionare e che appaiono a dir poco preoccupanti, se affiancati a molti messaggi lanciati dallo stesso premier turco. 
In Turchia, oltre alla Santa Sofia di Istanbul altre chiese, alcune con il medesimo nome, sono state recentemente convertite in moschee in diverse città storicamente importanti, tra cui Edirne, Trebisonda, Iznik, Bitlis, mentre complessi cristiani sono stati distrutti o dissacrati, come le chiese armene di Bursa e Kütahya. Ma la circostanza più abominevole è la posizione assunta dalle autorità turche in occasione degli assassini di sacerdoti cristiani cattolici – padre Luigi Padovese a Iskenderun e don Andrea Santoro a Trebisonda – e della piccola comunità evangelica di Malatya: i responsabili sono stati definiti “squilibrati,” “cellule impazzite” anche se hanno commesso i loro omicidi al grido di Allah Akbar. La polizia non ha inteso indagare oltre. Del resto la vita umana ha un valore relativo in un paese dove vengono sistematicamente violati i diritti umani, con giornalisti e intellettuali incarcerati per reati di opinione, una censura ottusa e schiacciante, una cancellazione di libertà fondamentali, come quella di abbandonare l’islam per abbracciare un altro credo: una proibizione non esplicitata su carta, ma concretizzata di fatto, nei modi più subdoli. 
Usciamo ora dai confini della Repubblica turca. Meno nota è la politica che da anni Erdoğan sta attuando in Europa, con il fanatico, megalomane obiettivo di diventare il nuovo sultano di una Grande Turchia, che allarghi i propri confini a dismisura, riconquistando gli antichi territori ottomani, soprattutto in Europa, che egli definisce un continente “malato” e di cui percepisce tutta l’attuale fragilità. Ma non si tratta di soli proclami rutilanti, che potrebbero comunque già allarmare di per sé, ma di dati di fatto, di numeri, che Giulio Meotti riferisce con accurata precisione.
Proviamo a elencarli in sintesi, facendo una importante premessa: in Europa risiedono 4 milioni di turchi che, nell’ottica di Erdoğan, se ben addestrati e fanatizzati diventeranno un esercito non armato per destabilizzare, islamizzare e conquistare i paesi che li ospitano. Per ottenere il loro consenso ideologico, il Governo turco sta investendo somme stratosferiche per la costruzione di moschee, centri studi islamici, strutture di aggregazione per i turchi emigrati che non si vuole si abbandonino a processi di assimilazione e acculturazione. 
I dati numerici parlano da soli: l’edificazione di 600 grandi moschee in Europa e la progettazione di molte altre, soprattutto in Francia, Germania, Paesi Bassi, Austria, Svizzera, Gran Bretagna, con l’invio di un crescente numero di imam; a esempio delle considerevoli cifre stanziate dalla Turchia in Europa, basti citare i 17 milioni di sterline per la progettazione della moschea di Cambridge; la costruzione a Strasburgo della scuola superiore Yunus Emre, un campus universitario con doppio curriculum (francese e islamico), finanziata da Ankara; la fondazione nel 2015 del Parti Egalité Justice, emanazione dell’AKP di Erdoğan; 2.500.000 euro di investimenti nei Balcani, per un rafforzamento dei rapporti con Bulgaria, Albania e Macedonia; l’intensificazione anche delle relazioni con le repubbliche asiatiche ex sovietiche di tradizionale fede islamica e originariamente turcofone; tra il 2009 e il 2018 le spese militari turche sono aumentate del 65% e la Turchia sta sostenendo i movimenti jidaisti. Meotti ci ricorda che nel 2014 questi gruppi hanno conquistato in Siria la città di Kessab, abitata da una numerosa comunità armena, discendente dei sopravvissuti al genocidio. Questa popolazione è stata costretta a fuggire alla volta di Latakia, lasciandosi alle spalle chiese bruciate, mura con graffiti anti-cristiani, tombe cristiane profanate.   
Risultano pertanto chiari, secondo Meotti due fattori: da un lato il forte timore, o l’ignavia, da parte dei leader europei e della UE nell’intervenire politicamente e diplomaticamente contro la prepotente ingerenza turca: costoro sembrano non prendere sul serio, o non voler sentire, certi messaggi sprezzanti e minacciosi del presidente turco, che ha tuonato frasi del tipo: “I minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri elmetti, le moschee le nostre caserme” mentre ai turchi della diaspora ha lanciato il seguente appello: “Fate cinque figli e il futuro dell’Europa sarà vostro.” Del resto la cruciale questione dei migranti è una delle più efficaci armi di ricatto con cui il neo sultano turco mette l’Europa con le spalle al muro, Frau Merkel per prima. Secondo fattore, la delicatissima situazione in cui si trova la fragile Armenia assieme al Nagorno Karabakh: oggi, come nel 1915, questo francobollo di terra, costituisce un ostacolo geopolitico, culturale, religioso alle mire espansionistiche panturche e panislamiche. Erdoğan, nella sua fanatica armenofobia, ha dichiarato che l’Armenia rappresenta un concreto pericolo per la Turchia e l’Islam. E in tutto questo contesto l’Europa e l’Occidente volgono lo sguardo altrove. 
“L’Armenia è poca cosa”: non essendo un paese ricco di materie prime, è “trascurabile e sacrificabile”, dice Meotti. La sua ricchezza sta in una cultura millenaria, in una radicata identità, sopravvissuta nei secoli, nonostante le diverse dominazioni straniere, ma evidentemente è troppo poco, anche per una nazione come l’Italia che è il maggior acquirente della TAP (Trans Adriatic Pipeline) di produzione azera. E così si spiega la vergognosa visita di una cospicua delegazione di parlamentari italiani per rendere omaggio al dittatore Aliyev, a seguito della recente vittoria in Karabakh. Poco conta che durante la “parata per la vittoria” il 12 novembre 2020 il presidente turco abbia evocato “la benedetta anima di Enver Pasha”, uno dei fautori del genocidio armeno, annunciando che “il Karabakh è ancora una volta un paese dell’Islam e ha riacquistato il suo posto all’ombra della Mezzaluna” grazie all’eroico contributo dell’esercito “islamico del Caucaso.” 
Il premio Nobel per la Pace Andrej Sacharov, ebbe a dire, rivolto a Gorbačëv: “Per l’Azerbaigian il Karabakh è una questione di ambizione; per l’Armenia è una questione di vita o di morte.” Erano gli anni ’80 del secolo scorso. Tale considerazione vale anche oggi, ma quasi nessuno sembra rendersene conto: non ne è capace o non vuole farlo.
Giulio Meotti, nella stesura di questo libro si è avvalso del contributo di diversi intellettuali non solo armeni, ma anche europei e turchi. Le postfazioni di Antonia Arslan e Siobhan Nash- Marshall, secondo punti di vista e competenze diverse, si soffermano sulla problematica armena e le conseguenze del recente conflitto per il Nagorno Karabakh (Artsakh) e il valore supremo della libertà di pensiero e di giudizio personale, arricchendo l’opera in modo molto singolare e profondo.


 

PALLOTTOLE  E  PETROLIO
di Emanuele Aliprandi 
Amazon Italia Logistica S.r.l. Torrazza Piemonte (TO) 2021

Nel 2010 Aliprandi ci ha fornito un ampio e ben strutturato lavoro sulla storia del Nagorno Karabakh (Artsakh) con il suo libro Le ragioni del Karabakh, già a suo tempo segnalato nella rassegna “Novità Librarie” del nostro sito di Italiarmenia. Ne risultò, fin da allora una analisi storica in cui emergono le inequivocabili origini armene di questo territorio sin da epoca precristiana, quando era inglobato nel vasto regno dominato da Tigran il Grande. Lo stesso territorio divenne cristiano, e la conversione è attestata dai molteplici monasteri e luoghi di culto che vi furono eretti nel corso dei secoli. In questa prima opera Aliprandi illustra anche l’annessione di questa parte di Caucaso all’Impero zarista, il conseguente passaggio all’Unione Sovietica e le scelte politiche di Stalin che determinarono un crescendo di istanze karabakhe all’autodeterminazione e difficoltà di convivenza tra le popolazioni di etnia armena e azera, o tatara.   
Quindi vi vengono esposte le diverse fasi in cui si è svolto il conflitto tra Nagorno Karabakh e Azerbaigian dal 1988 al 1994. Questo conflitto si concluse nel 1994 con un esito favorevole per la parte armeno-karabaka che ha occupato dei territori azeri cuscinetto al fine di salvaguardare un collegamento tra Nagorno Karabakh e Repubblica d’Armenia (corridoio di Laçin). Contestualmente, il Nagorno Karabakh si era auto proclamato repubblica indipendente con capitale Stepanakert. Si tratta di una repubblica presidenziale retta su base democratica, ufficialmente denominata Artsakh (il suo antico nome) dal 2017. 
Questa lunga premessa per giungere all’analisi, molto attenta e circostanziata che Aliprandi ha svolto in questo nuovo libro sulla situazione odierna, molto preoccupante e drammatica. 
Il 5 maggio 1994 le due parti firmarono un accordo di cessate il fuoco, cui ha fatto seguito uno stallo nelle trattative per la pace durato un trentennio. A nulla sono valsi i tentativi di mediazione diplomatica del Gruppo Minsk (Francia, Stati Uniti e Russia), dal momento in cui entrambe le parti non hanno superato la dicotomia dei due principi di “autodeterminazione dei popoli” e “intangibilità dei confini.” 
Ma questa sorta di lungo limbo ha visto un repentino sconvolgimento con l’attacco militare dell’Azerbaigian, (che ha sempre rivendicato i propri diritti sui territori occupati) scatenato il 27 settembre 2020 e conclusosi il 9 novembre 2020 con una cocente resa da parte armeno-karabakha. Gli azeri non si sono solo ripresi i territori rivendicati, ma ne hanno occupati altri. Diversamente dalla guerra degli anni ’90 in cui gli armeni avevano dato prova di determinazione e abilità strategiche maggiori rispetto all’avversario, in questo caso le forze si sono rivelate ben presto impari. L’Azerbaigian è stato fortemente supportato militarmente e politicamente dalla Turchia e ha potuto disporre di armi di nuova generazione, come i micidiali droni di importazione israeliana, che hanno colpito duramente obiettivi sia militari che civili. 
Aliprandi non solo fornisce una descrizione, settimana dopo settimana, dei combattimenti, ma con lucidità, obiettività e dovizia di particolari molto interessanti, riflette sulle cause della sconfitta armena e anche su come questa situazione poteva essere evitata. Rammenta anche che ci fu una guerra lampo, nel 2016, durata quattro giorni, iniziata il 1° aprile. E nell’agosto dello stesso anno in Turchia ci fu il cosiddetto golpe, repentinamente annientato da Erdoğan, che ne uscì rafforzato nel proprio autoritarismo. 
Da un lato Aliprandi punta il dito sull’Europa e sulle potenze occidentali che non sono intervenute tempestivamente per bloccare un attacco azero che, nonostante il coraggio e la patriottica determinazione armena, lasciava intuire fin dall’inizio una inequivocabile disparità di forze. Non a caso nel titolo si parla di “petrolio”: l’arma, assieme ai droni e altri strumenti bellici, in mano al dittatore Aliyev che, affiancato dal suo mentore/alleato turco, sta usando per mettere diversi paesi occidentali con le spalle al muro, costretti a fingere di non vedere e non sentire. Vergognoso che l’appello delirante e fanatico a “portare a termine l’opera dei padri” da parte dei due alleati Erdoğan e Aliyev, sbandieranti il loro atavico odio verso il popolo armeno, sia stato in massima parte ignorato. D’altro lato però l’autore, con rammarico, esprime la propria delusione sull’operato della leadership armena che sembra aver peccato di ingenuità, di un eccesso di fiducia che, nonostante tante avvisaglie, il precedente status quo potesse protrarsi all’infinito senza particolari rischi. Non esente da serie responsabilità è ritenuta anche l’intelligence armena, che non ha saputo individuare quanto stava sistematicamente avvenendo nel commercio d’armi in un Azerbaigian arricchitosi sempre di più nel corso degli ultimi anni.
A conclusione, Aliprandi formula una serie di ipotesi di soluzione all’attuale situazione di stallo e di provvisoria non belligeranza, imposta e regolata dall’onnipotente Russia, che ci si augura resti fedele agli impegni presi. Oggi restano oltre seimila famiglie di sfollati in Armenia, fuggiti da un Artsakh devastato, almeno 4000 caduti tra gli armeni, un patrimonio artistico minacciato, essendo caduto nelle mani di una classe politica che non ha rispetto per i fondamentali diritti umani, anche nei confronti dei propri cittadini.

 

 

Taner Akçam - KILLING ORDERS I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno a cura di Antonia Arslan
Guerini e Associati, Milano 2020 

Il visitatore che entra nel Museo del Genocidio, costruito seminterrato nella Collina delle Rondini a Erevan, oltre alle grandi foto che mostrano le vittime e gli sguardi attoniti dei deportati, associate a immagini d’artista dedicate a questo Grande Male, trova diverse bacheche che contengono documenti dell’epoca. 
Tra essi, illuminato da una gelida luce bianca, un telegramma di Talat Pasha, Primo Ministro ottomano, con cui esplicitamente, senza pietà, né dubbio alcuno, ordina di distruggere il popolo armeno, fino all’ultimo neonato. 
Il contenuto di questo e di altri telegrammi è stato citato da diversi autorevoli storici, non solo armeni, ma di altre nazionalità, a ulteriore riprova del progetto genocidario ordito dai vertici del Governo ottomano in carica nel 1915. Oltretutto, basterebbe analizzare attentatamene la ferrea successione logica degli eventi - retata del 24 aprile, arresto ed eliminazione dei maschi armeni adulti, leggi temporanee sugli espropri e “trasferimenti”, etc. - per comprendere l’innegabile intenzionalità di uccidere. 
Ma concentriamoci sui telegrammi, cui questa straordinaria ricerca di Taner Akçam è dedicata. I diversi governi repubblicani di Turchia da Kemal Atatürk ad Erdogan, si sono costantemente impegnati nel supportare la propria convinta linea negazionista, con diversi mezzi, tanto capziosi quanto subdoli.
Presto è diventato prioritario per loro dimostrare che i noti telegrammi di Talat sono dei falsi storici, creati dagli armeni a loro uso e consumo. A tal fine sono stati incaricati, già nei primi anni’80, due funzionari statali, Şinasi Orel e Süreyya Yuca, di produrre una ricerca che dimostrasse la non autenticità di tali documenti e la non esistenza di colui che li conservò, Naim Effendi, per consegnarli, a guerra finita, al giornalista armeno Aram Andonian. Si noti: parliamo di funzionari statali, non di storici di comprovata competenza. Forse li potremmo oggi definire dei “prestanome.”   
Purtroppo alle tesi sostenute da Orel e Yuca non hanno dato credito solo allineati accademici turchi, ma anche un ambiguo negazionista occidentale, Gunter Lewy (si veda Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Einaudi Torino, 2006, l’originale fu pubblicato negli USA nel 2005), il quale, tra l’altro, si permette di sostenere che le testimonianze raccolte dai coniugi Touryan Miller (si veda Survivors: An Oral History of Armenian Genocide, University of California Press, Berkley 1993; Survivors. Il Genocidio Armeno raccontato da chi allora era bambino, Guerini e Associati, Milano 2007) non sono da considerarsi attendibili, in quanto provenienti da persone ormai anziane, che rielaborano in modo non equilibrato fatti traumatizzanti avvenuti nella loro prima infanzia. 
La ricerca effettuata da Taner Akçam è stata accuratissima, rigorosa, diremmo senza esagerare, scientifica. Perizie calligrafiche, analisi della carta usata, confronti incrociati tra documenti diversi, compresa una mole di faldoni tratti dagli Archivi Ottomani, oggi accessibili. Il tutto svolto con limpida onestà di analisi, senza pregiudizi a monte. 
Anche chi abbia già letto e studiato abbastanza sul Genocidio Armeno, in questo libro troverà una lunga serie di preziose informazioni, di dati storici inediti, oltremodo interessanti, come quelli riguardanti l’operato di alcuni prefetti e governatori locali che, ricevuti gli ordini da Costantinopoli, ognuno in base al proprio sentire, agiva di conseguenza, con pedissequo esagerato zelo, o con voluta lentezza e sciatteria. 
Taner Akçam, storico turco che a suo tempo pagò con il carcere l’aver rivendicato il diritto alla libertà d’opinione, dedica in primis questa sua opera al “carissimo amico Hrant Dink, che credette nella riconciliazione tra gli armeni e il popolo turco sui pilastri nella Verità e della Giustizia.”   
Egli ne ha raccolto con fedeltà, convinzione e coraggio l’eredità, continuando a perseguire i medesimi obiettivi, e noi gliene siamo profondamente grati.

 

 

L’Armenia perduta. Viaggio nella memoria di un popolo
di Aldo Ferrari 
Prefazione di Antonia Arslan
Salerno Editrice, Roma 2019

Un genocidio, affinché sia completo, dal punto di vista dei perpetratori, non deve limitarsi alla cancellazione delle vite umane, ma deve anche azzerarne la cultura. Prima gli uomini, le donne, i bambini, poi, le opere d’arte, l’architettura, le biblioteche, e così via. In tal modo viene distrutta, negata la memoria delle vittime, la testimonianza che un tempo, non molto lontano, le comunità sterminate erano parte integrante di un territorio, dove vivevano da generazioni. 
Dopo i massacri, a causa dei quali le acque dell’Eufrate si erano tinte di rosso, è stato avviato il “genocidio bianco”, ovvero il genocidio culturale. In modo molto pertinente, Aldo Ferrari ci rammenta che questo concetto fu introdotto già nel 1947 da Raphael Lemkin, il noto giurista ebreo polacco che per primo coniò il termine di “genocidio.” Lemkin infatti asserisce: “Un genocidio culturale può essere compiuto prevalentemente nei campi religioso e culturale, distruggendo istituzioni e oggetti attraverso i quali la vita spirituale di un gruppo umano trova la sua espressione, quali luoghi e oggetti di culto, scuole, tesori d’arte e cultura.” 
Tale è il tema di questo prezioso libro, risultato di una accuratissima ricerca bibliografica e di un lungo, difficile, penoso viaggio in quella che gli Armeni chiamano “Armenia occidentale,” ma che di fatto oggi è la Turchia orientale. Aldo Ferrari si è recato in Turchia, nei luoghi che prima del 1915 erano densamente abitati da Armeni, con l’obiettivo di verificare quante tracce sono rimaste della millenaria presenza armena in quei territori. Da approfondito studioso dell’Armenia quale egli è, deve constatare, con profonda amarezza, che è rimasto ben poco. “Tutto finito, tutto perduto,” dice Antonia Arslan nella prefazione, poiché si è compiuta una “scientifica ed accuratissima eliminazione di ogni traccia dell’esistenza degli Armeni.” 
Quello che colpisce è soprattutto la falsificazione storica nella cartellonistica, la sistematica rimozione dei toponimi armeni, la distruzione di antiche chiese o la loro trasformazione in stalle, magazzini o moschee, la frantumazione di preziosi khatchkar, simboli inequivocabili della religiosità armena, ed infine il vandalismo, anche recentissimo, operato dai cercatori dei “tesori armeni.” 
Di fatto qualcosa, molto poco, è rimasto. Spicca la Chiesa di Santa Croce nell’isola di Achtamar, lago di Van, che è stata restaurata per volontà governativa. Le ragioni di tale scelta non sono chiarissime, ma l’opera per la sua bellezza artistica attira molti turisti. 
In generale il bilancio è desolante e lascia spazio alle previsioni più pessimistiche. 
In questa opera l’autore si sofferma in particolare su cinque luoghi fisici o dello spirito, simboli dell’identità armena e che appartengono a quello che egli definisce “Paradiso perduto”: il monte Ararat, Avarayr, dove si combattè una storica battaglia, Van, Ani e Kars. Di alcuni forse il lettore conosce il nome e la collocazione geografica. Le ragioni della loro importanza nella storia e nelle menti di generazioni di armeni non sono generalmente note: ci vengono qui spiegate in modo chiaro e ricco di particolari stimolanti.

 

 

Dolcissimo amore dagli occhi grandi
di Sergio Zerunian 
Introduzione di Antonia Arslan
Atlantide, Latina 2018

L’autore di questo romanzo imperniato sulla storia della propria famiglia, è uno di quei figli della diaspora che sono, e si sentono, 100% armeni e 100% italiani. Armeno da parte di padre, italiano da parte materna, ripercorre qui, con un’accurata e amorevole ricostruzione, la storia di due generazioni, partendo dal 1894 per giungere al 1955.
Due storie parallele, che per diverso tempo, si sono compiute a migliaia di chilometri di distanza, in paesi differenti per lingua, politica e cultura, ma i cui protagonisti nutrivano gli stessi valori morali e religiosi. La prima si svolge a Malatya in Anatolia, l’altra in Italia centrale, a Maenza, sui Monti Lepini. Mentre a Malatya il bisnonno armeno veniva orrendamente assassinato dalle squadracce al soldo e agli ordini del Sultano Rosso, in Italia la vita scorreva certamente più serena, pur nelle fatiche e ristrettezze economiche, per coloro che, come i bisnonni italiani, vivevano di agricoltura e soprattutto della produzione delle olive.
Di lì ad alcuni anni, incontriamo i nonni armeni Zerun e Veronica, e gli italiani, Ferdinando e Antonia. Le rispettive vicende sono collocate in una più ampia storia collettiva, di cui l’autore ci fornisce due spaccati forse poco noti e parimenti interessanti. Il periodo è quello degli anni ’20.
Solitamente quando si tratta il tema del genocidio armeno ci si sofferma su quanto avvenne negli anni 1915-16, periodo in cui il progetto dei Giovani Turchi fu in massima parte realizzato con oltre un milione di vittime. Ma non tutti sanno che all’epoca alcuni sudditi armeni furono scientemente risparmiati, per il tempo ritenuto necessario dalle autorità governative. Fabbri, sarti, calzolai, orologiai, artigiani che erano gli unici in grado di svolgere lavori di pubblica utilità, ebbero per qualche tempo – i più fortunati per sempre – salva la vita. Lo stesso destino toccò a Zerun Zerunian, che possedeva una ben avviata fabbrica di tappeti, dove lavoravano molte maestranze turche e curde. Fintantoché la presenza del proprietario fu indispensabile, essendo l’unico detentore delle tecniche di tessitura, la famiglia visse nell’illusione di non cadere vittima di una esecuzione sommaria, al pari di tanti concittadini, parenti e amici. Ma nel 1924 le autorità della nuova Repubblica Turca ritennero che l’attività della fabbrica potesse procedere autonomamente, nel progetto di consegnare l’economia nazionale in mani esclusivamente turche. Zerun viene quindi assassinato con estrema ferocia sotto gli occhi della moglie Veronica e dei due piccoli figli, Nazareth e Avedis. Alla giovane vedova non resta che cercare rifugio in Italia, dove viene accolta da un fratello maggiore, Sarkis-Sergio, che aveva lasciato il paese natale all’epoca dei massacri hamidiani. Il lungo viaggio verso la salvezza, grazie all’aiuto di un cammelliere turco prima, e di due missionarie della Croce Rossa poi, è tutto da leggere. 
In Italia, nel frattempo, al pari di molti italiani, nonno Fernando, pur non essendosi mai fatto troppo abbagliare dalla retorica di regime fascista, nel 1927 decide di lavorare alla bonifica della Pianura Pontina, grazie alla prospettiva di uno stipendio statale sicuro ed economicamente soddisfacente. Il tema dell’Agro Pontino, se andiamo a riguardare tanti nostri testi scolastici di storia, è spesso liquidato in modo sbrigativo, evidenziando soprattutto il fatto che l’intera operazione ha implicato il trasferimento massiccio di lavoratori dal nord-est, all’epoca povero, della penisola. Pertanto, alcuni studenti potrebbero essere indotti a pensare che «forse questa è stata una delle poche cose buone fatte dal fascismo». Ma Sergio Zeruninan ci illustra ampiamente – e lo aveva capito anche nonno Fernando – quale irreparabile, enorme scempio ambientale, quale violenza all’habitat di tanta fauna autoctona sia stato commesso con quella faraonica opera, realizzata “perché secondo il regime l’uomo ha la capacità e l’investitura divina per dominare la Natura.” Va qui sottolineato che il nostro autore è un biologo, esperto in zoologia e docente universitario di ecologia. Pertanto le sue considerazioni poggiano su conoscenze e competenze specifiche. Anzi, a tal proposito, un suo ulteriore approfondimento su questa pagina di storia poco nota, è davvero auspicabile.
A conclusione di questo romanzo familiare, assistiamo alla celebrazione del matrimonio di Nazareth e Angelica, genitori di Sergio, in una Roma in cui la vita scorre serena, dopo tante fatiche, lutti, peregrinazioni. Lo spirito con cui la nuova famiglia guarda al futuro può essere rispecchiato nella lettera che mamma Angelica scrive al suo piccolo Sergio appena nato. In essa esprime la certezza che suo figlio crescerà in un mondo in cui potrà godere “dei diritti che dovrebbe godere ogni bambino”, in un tempo in cui non sarà costretto a vedere “né guerre, né persecuzioni di natura politica o religiosa.” 
Un libro dalla prosa fluida, ricco di informazioni storiche ben inserite, chiare e precise, la cui lettura sicuramente ben si adatta sia al mondo studentesco, che a un pubblico di lettori interessato al misconosciuto universo armeno.


 

Il bambino e i venti d’Armenia   
di Arthur Alexanian 
Ibicus-Uliveri, Empoli (FI) 2017

Arthur Alexanian è figlio di Boghos e Serpouhi, entrambi armeni originari di Bandirma, in Turchia; entrambi fuggiti a breve distanza di tempo l’uno dall’altra dalla terra natale, per avere salva la vita. Boghos decide di disertare, per ragioni di principio, dall’esercito ottomano, Serpouhi abbandona tutto nel 1922, scampando agli ultimi massacri orchestrati dalle autorità turche contro armeni e greci. Come era costume tra gli armeni e i mediorientali del tempo, il matrimonio tra i due giovani fu deciso dalle rispettive famiglie, ma sembra sia stato comunque felice e coronato dalla nascita di diversi figli. 
Arthur è nato a Grenoble, luogo dove all’epoca risiedeva una numerosa comunità della diaspora armena, e cresce francofono, pur sentendo sempre parlare l’armeno in casa, frammezzato da qualche parola di turco, quando gli adulti non vogliono farsi capire dai bambini. A undici anni viene catapultato, suo malgrado, all’ambito e prestigioso collegio armeno Moorat-Raphael, grazie anche alla mediazione di uno zio mechitarista, padre Cirillo. 
Letti così questi cenni biografici appaiono quelli tipici di un armeno della diaspora che solitamente è convinto ed orgoglioso assertore della propria armenità, senza sostanziali tentennamenti, pur sentendo comunque di appartenere in egual misura a due mondi – il Paese Perduto e quello di nascita e residenza. Ma per l’autore di questo libro sofferto, lento, meditato parola per parola, coraggioso, introspettivo e liberatorio, l’armenità è stata una conquista tarda,  faticosa, cui per lungo tempo ha cercato di sottrarsi, inutilmente.
Per tanti anni Arthur ha preferito sentirsi ed essere cittadino del mondo, vivendo, per ragioni di lavoro, negli Stati Uniti, in Canada, nel Nord Africa ed infine in Italia, dove ha messo radici. Ma nel 1988 si reca per la prima volta, un po’ riluttante, in “quella specie di patria” che è l’Armenia sovietica. Qui scopre di sentirsi inspiegabilmente in un luogo familiare, di esser circondato da qualcosa che già conosceva in un angolo nascosto della propria psiche. Inizia un lungo percorso che lo conduce al “risveglio dell’armenità”. Per cercar di capire le ragioni che hanno reso tale percorso così lungo ed irto di ostacoli, l’autore ci rende partecipi di momenti e periodi salienti della propria vita. Innanzi tutto in famiglia ha sempre regnato il silenzio sul passato: la sua è una generazione che, per timore, per rispetto ed obbedienza, non poneva domande, perché capiva che non era loro concesso. Le storie della nonna materna, di sua madre adolescente, del padre quando fuggì in Francia, di come la nonna e la madre approdarono a Venezia, sono state ricostruite a posteriori, attraverso lo studio di lettere, foto, documenti. Nulla era stato raccontato direttamente ai figli. E poi ci sono quegli anni vissuti lontano da casa, a Venezia, in quel collegio dove gli sono stati trasmesse conoscenze e cultura fondamentali, ma dove ha anche imparato a “obbedire per paura” a dei preti “vestiti di nero”: era troppo piccolo allora per accettare “quel luogo di reclusione e sofferenza”. Ci son voluti anni perché riuscisse a ricordarlo anche come luogo di “aggregazione e solidarietà”, dove operavano anche figure buone e sensibili, come l’inserviente di cucina Placido o padre Sahag, tragicamente scomparso in una fredda notte di nebbia. 
Queste, e certamente molte altre, sono le ragioni che hanno reso lungo e lento il percorso verso l’armenità, vissuta oggi in modo sereno dal nostro autore. Per decenni i ricordi erano stati consciamente, o inconsciamente, imprigionati in un cassetto buio. Poi è venuto il momento di tirarli fuori, perché “i ricordi non sono un semplice ritorno al passato, probabilmente costituiscono la nostra identità.”

 

 

I PECCATI DEI PADRI Negazionismo turco e genocidio armeno
di Siobhan Nash-Marshall 
Nota introduttiva di Antonia Arslan
Guerini e Associati, Milano 2018

 “Le mani della filosofia sono figurativamente sporche di sangue” è quanto asserisce l’autrice nella prefazione a questo suo interessantissimo lavoro di ricerca. Il riferimento attiene innanzi tutto al genocidio armeno, ma la considerazione è estesa anche ad altri genocidi perpetrati nel XX secolo, Shoah in particolare. 
Se una simile affermazione fosse uscita dalla penna di un qualsivoglia opinionista i cui scritti sono spesso ospitati dai più diffusi organi di stampa, la potremmo considerare nè più, nè meno che una frase ad effetto, ma se è pronunciata da una docente di filosofia, che opera in una prestigiosa università americana ed è autrice di libri ed articoli accademici su temi filosofici, la faccenda assume tutt’altro aspetto. È innanzi tutto un atto di coraggio: coraggio intellettuale, poiché si presuppone che abbia lasciato interdetti alcuni storici o studiosi di filosofia, poco propensi ad attribuire a pensatori di vario indirizzo, responsabilità tanto gravi. L’autrice, dopo un’ampia premessa in cui fa riferimento ai genocidi del XX secolo e alle correnti filosofiche che stanno a monte degli stessi, si concentra sul genocidio armeno. Evidenzia quindi gli elementi ideologici e filosofici su cui poggiano gli obiettivi e le scelte politiche del Comitato Unione e Progresso, meglio noto come Partito dei Giovani Turchi. Il loro primo obiettivo era l’edificazione di uno Stato-nazione potente, vasto, moderno ed etnicamente omogeneo: in sostanza la creazione di un vatan (termine con cui si intende il luogo d’origine e residenza di una comunità) esclusivamente turco.
Tra le figure che hanno elaborato il pensiero panturco, accanto al più noto Ziya Gökalp, ci imbattiamo qui in una complessa figura femminile: Halide Edib Adivar. Scrittrice, educatrice, personaggio politico, si guadagnò l’altisonante appellativo di “Madre dei Turchi”. Le pagine dedicate a questa paladina del panturanesimo, al suo accanito impegno nel costruire una teoria che avvalorasse la primogenitura della civiltà turca nelle terre anatoliche, sono di estremo interesse. Disarmante è la spudoratezza con cui questa intellettuale turca asseriva che Gomitas Vartaped, il grande etnomusicologo armeno, fosse di origini turche e che si fosse limitato a tradurre in armeno un patrimonio folkloristico turco.
Altra rilevante questione qui trattata è quella delle relazioni tra Mustafa Kemal e le autorità bolsceviche da poco salite al potere: una sorta di mutuo soccorso in campo economico e strategico, le cui basi furono fissate, prima dell’ufficialità, in incontri segreti avvenuti in Germania tra i transfughi Enver e Talaat e fedeli emissari di Lenin. 
Soffermiamoci quindi, necessariamente, sul sottotitolo a questo libro, in cui si evidenzia l’annoso, irrisolto problema del negazionismo turco. Il negazionismo è qui visto come un prolungamento del Grande Male armeno. “Negare un genocidio è già in sé un atto genocidario” è quanto si legge fin dal primo capitolo. Anche in tal caso non ci troviamo dinnanzi ad una dichiarazione forte, ad una mera opinione personale dell’autrice. Tale asserzione è supportata da una serie di documenti probatori; vengono anche indagate le ragioni per cui l’odierna Repubblica di Turchia continua a restare ostinatamente abbarbicata alla tesi negazionista. Il riconoscimento metterebbe, secondo Siobhan Nash-Marshall, in pericolo l’attuale Stato-nazione, che fu edificato da Atatürk sulle macerie della nazione armena e grazie ai beni confiscati agli armeni oltre un secolo fa. È una questione che investe la psicologia collettiva di un popolo, cui è stata inculcata la paura dell’altro, del potenziale nemico interno o esterno che sia. Non si tratta di semplici ipotesi, altrimenti come spiegare le ragioni per cui, nel non lontano 2006 il Consiglio Nazionale Turco per la Sicurezza ha deciso di secretare i documenti catastali del 1915, poiché - nell’ottica governativa – minerebbero alla sicurezza nazionale?
Concludendo, questo libro ci fornisce una vasta documentazione, in parte del tutto inedita, sulla storia del genocidio armeno, unitamente ad un punto di vista diverso e stimolante. Il tutto espresso, nonostante la complessità dei contenuti e il rigore scientifico, in una prosa fluida, chiara ed accessibile anche ad un lettore non necessariamente competente in ambito filosofico.

 

 

La bellezza sia con te 
di Antonia Arslan 
Rizzoli, Milano 2018 

Un titolo che è un augurio. Un augurio speciale, diverso dagli usuali richiami alla pace, alla salute, alla felicità. In questa “bellezza” si racchiudono tante cose assieme: quelle che ci possono conferire la bellezza interiore, nutrita dall’amore per gli altri e per un’esistenza, che abbiamo ricevuto in dono.    Questo libro contiene tanti “mondi” e tanti valori, che appartengono alla sfera spirituale e culturale dell’autrice. Il tutto espresso attraverso un alternarsi di prosa e poesia: ritroviamo esperienze, ricordi, incontri personali fatti “nel vasto mondo” ed incontri letterari. Elementi preziosi, che hanno forgiato non solo la formazione culturale di Antonia, ma anche la sua graduale e crescente consapevolezza della propria armenità; e non ultimo, forse, il suo bisogno di scrivere e la gioia nel farlo. 
Non è facile riassumere tutte le componenti di questa opera avvincente e variegata. Proviamo ad evidenziarne alcune, partendo dall’amore per il libro. Questo è un amore che le è stato trasmesso in famiglia. I genitori, assidui lettori, sono stati i primi maestri, in tal senso. Inoltre, ricordiamoci che il culto del libro fa parte del DNA del popolo armeno, ed Antonia né è un chiaro esempio. Restando in questa sfera, apprendiamo quali furono, tra i tanti, gli autori molto amati dall’autrice. Ci sono nomi illustri, molto noti, come Thomas Mann, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Matilde Serao, Anna Achmatova, affiancati ad altri sicuramente meno famosi – quanti hanno letto Evelyn Waugh? – ma non per questo meno significativi. Di qui uno stimolo a ricercarne le opere, per conoscerli. E poi non poteva esser tralasciato Daniel Varujan, la pietra miliare per ogni armeno. 
Altro tema irrinunciabile la famiglia, a partire da nonno Yerwant, il pilastro. Ma non c’è solo lui, che è protagonista di un intero capitolo. Vengono descritte tante consuetudini di famiglia, i ricordi infantili e della prima giovinezza. I viaggi di ieri e di oggi: non solo nei rassicuranti Stati Uniti o nel coinvolgente Caucaso, ma anche in Libano – dove oggi gli armeni resistono, nonostante il pericolo sia “dietro l’angolo”, e poi c’è Aleppo. “La città sta morendo”, constata oggi tristemente l’autrice, dopo aver rievocato una Aleppo d’altri tempi, che visitò giovanissima, ospite degli zii mediorientali ed allegre cugine. Tutto era affascinante e sereno; Antonia ne rivede genti e colori e rammenta gli aromi. Ormai sappiamo che solitamente non impiega nessun aggettivo, nessuna parola senza che non siano stati scelti con una cura speciale, con attenzione al significato recondito che essi racchiudono; colpisce pertanto che, quando si sofferma sull’intenso profumo dei gelsomini, ci ricordi che era “intossicante”, e segnale “a volte di decomposizione…” Quasi a simboleggiare un luogo da cui oggi sono fuggiti tutti, perché lo sfacelo è ovunque. 
Antonia non si sofferma solo sul destino del popolo armeno. Ci parla a più riprese dei greci, popolo molto amato cui è intimamente legata; ci troviamo dinnanzi alla tragedia delle foibe, con un altro popolo in fuga, e alla follia annientatrice del gulag. 
Le storie personali si alternano ai racconti di fantasia, i cui protagonisti sono spesso bambini e poetiche figure femminili. 
Infine deve esser citato il lungo racconto che vede protagonisti i Re Magi, colti nella loro umanissima fragilità e nella fatica, che il loro ruolo nella Storia comporta. Antonia ha scelto di legare i loro destini all’Armenia, in modo imprevisto, e tutto da scoprire. 
Non mancano alcune poesie. Versi dedicati a creature universali – come la bimba sparita nel disastro del Vajont - o altre vicinissime e reali, come il fratello Edoardo, che non è più su questa terra, ma pur sempre presente e vicino, assieme a molti altri. Perché, se vogliamo cercare un filo conduttore in questo libro pieno di sfaccettature, è quello della Fede, con cui l’autrice guarda alla vita, al destino, con serenità e senso di pace: un messaggio per ciascuno di noi, che leggiamo, rigo dopo rigo.

 

 

L’albicocco, la vite, il melograno
A piedi attraverso l’Armenia
di Pierpaolo Faggi
Introduzione di Antonia Arslan
Guerini e Associati, Milano 2017 

Pierpaolo Faggi si è rimesso in cammino, nella sua Armenia, per esplorare nuove strade e ripercorrerne alcune già note, ma che gli riservano immancabilmente qualcosa di nuovo, celato dietro l’angolo. Dopo la prima esperienza raccontata in Armenia di strada, ci offre qui un resoconto delle emozioni, esperienze, riflessioni vissute nel luglio-agosto del 2016. 
Innanzi tutto - potrà sembrare un po’ banale dirlo – un plauso alla determinazione nell’affrontare il caldo torrido che investe l’Armenia nei mesi estivi. Una calura che gli strappa a volte qualche umana imprecazione, ma che lo segue costantemente nel suo camminare, quasi fosse un, non sempre gradito, compagno di strada. Ma Paveljan, come lo chiamano affettuosamente i suoi amici armeni, mischiando armoniosamente il russo con la lingua madre, è ormai troppo legato a questa terra per lasciarsi trattenere da un semplice “vento costante, teso, rovente” che in pochi minuti trasforma il verde brillante “in un grigiastro sabbioso.”   
Ormai non è più un odar, un forestiero, agli occhi di Somo, David, Musheg ed altri vecchi amici, con cui comunica in modo essenziale, ma in un linguaggio fatto di una comprensione umana  scevra da equivoci di sorta; del resto gli armeni sono gente “di poche parole”, per indole, “ ma messe giù in modo molto efficace.” 
Pierpaolo Faggi è per la maggior parte del tempo immerso in una natura incontaminata, di sublime bellezza, in cui luce e colori ci rimandano a certi quadri del celebre artista Martiros Sarian. Ma in Armenia c’è anche dell’altro, di tutt’altro taglio estetico. Anche in questo secondo peregrinare, l’autore ritorna nelle periferie nascoste, dove si imbatte nello “sfasciume paleoindustriale” delle fabbriche dimesse, dei palazzoni d’epoca sovietica ormai abbandonati: descrizioni che potrebbero fungere da sapienti didascalie alle foto di Norayr Kasper, esposte in molte città occidentali. 
Nel corso di questa seconda permanenza in Armenia il nostro viandante può sempre contare sulla spontanea solidarietà ed ospitalità di molte persone incontrate lungo il cammino, ma si imbatte anche in qualche realtà poco piacevole. Sperimenta l’arroganza e l’ottusità di giovanissime guardie russe di frontiera e, quel che è peggio, l’atteggiamento minaccioso e prepotente di un potentato locale, un tipo losco, un misto tra un ex KGB e un esponente della mafia. Dinnanzi a quest’ultimo si sente disarmato ed incerto sul da farsi, specie se c’è di mezzo un amico. Con i soldatini russi è più facile farsi valere, anche perché l’Ararat, con la sua possente mole è lì, proprio sopra di lui, a dargli “una certa spavalda sicurezza.” Lo protegge, lo abbraccia, come una vera Grande Madre: Paveljan, al pari del popolo d’Armenia, ne percepisce la presenza, maestosa, rassicurante, anche nel buio pesto di una notte senza luna, o quando è nascosto da una dispettosa coltre di nubi. Anch’egli è convinto che la Montagna sia lì per “vigilare su tutti noi”.
Ecco perché ormai, Pierpaolo Faggi è uno di loro e l’Armenia sarà una seconda casa, dove molte porte resteranno per lui sempre aperte.

 

 

Benedici questa croce di spighe…
Antologia di scrittori armeni vittime del Genocidio  

A cura della Congregazione Armena Mechitarista  
Invito alla lettura di Antonia Arslan
Ares Ed. Milano 2017

Questa antologia è frutto di un lungo, accurato ed importantissimo lavoro, che ci offre la traduzione in italiano di opere, in versi e in prosa, di dodici autori armeni, molto diversi tra loro per formazione, interessi, stili di scrittura, ma accomunati da un profondo amore per la propria patria e dallo stesso tragico destino.
Sono tutti morti nel 1915, e la maggior parte di loro sono caduti nella subdola trappola con cui furono catturati gli intellettuali armeni di Costantinopoli nella fatale retata del 24 aprile. 
Fatta eccezione per i versi di Daniel Varujan, la cui poetica è già da tempo conosciuta ed apprezzata in Italia, gli altri testi – poesie, racconti, novelle, fiabe, cronache, epistolari – sono tutti inediti.
Questi scritti aprono uno squarcio prezioso nel vasto universo, ancora inesplorato, della letteratura armena.

 

 

IL PAESE PERDUTO A cent’anni dal genocidio armeno
A cura di Antonia Arslan, Francesco Berti e Paolo De Stefani
Guerini e Associati, Milano 2017

Nel marzo 2015 si è svolto a Padova un convegno internazionale “di rara intensità e partecipazione”, come sottolinea Antonia Arslan nello scritto introduttivo, che ha “il merito di fare il punto sulle ricerche a proposito della tragedia armena a cent’anni dal suo inizio, facendo interagire ricercatori da tutto il mondo, che compongono un affresco complessivo vasto ed esauriente, che offre molte stimolanti prospettive e diverse nuove angolature di conoscenza e riflessione.” 
Oltre all’Italia, gli altri paesi di provenienza dei relatori sono l’Armenia, la Germania, gli Stati Uniti, la Francia, la Turchia: ciascun contributo è tradotto in italiano, fatto non scontato quando vengono pubblicati gli atti di un convegno internazionale.
Tra i diversi relatori, tutti di indiscussa autorevolezza, uno merita di essere citato in nodo particolare, per il coraggio politico, civile, intellettuale dimostrato: Halil Berktay, docente di storia all’Università Sabancı di Istanbul. Questo studioso da anni promuove il dialogo tra turchi ed armeni, occupandosi della “questione armena” ed operando affinché il tabù del genocidio venga superato nelle menti dei suoi concittadini e nella politica dello Stato. Il suo intervento padovano è incentrato sulla genesi del genocidio, ma soprattutto sulle ragioni e le diverse sfaccettature del negazionismo, una “trappola” nella quale la Turchia sembra essere sempre più irrimediabilmente invischiata.

 


LETTERE DA YEREVAN
di Giorgio Macor
Neos Edizioni, Torino 2017

Kirkan e Kevork sono da ragazzi due “amici per la pelle”, ma sono l’uno l’esatto contrario dell’altro.
Kevork, di famiglia ricca con millantate ascendenze aristocratiche, è timido, riflessivo, remissivo in famiglia, unico maschio circondato da svolazzanti sorelle. Non sa prendere iniziative audaci, forse manca della necessaria autostima.
Kirkan è figlio di un solido commerciante di più umili origini. Esuberante, ambizioso, sognatore, sicuro di sé, ha la personalità del leader carismatico.
Nonostante le diversità i due K sentono di essere profondamente uniti e solidali.
A completare il quadro Kirkan ha una sorella, la bella Maral, dagli occhi di smeraldo. Kevork e Maral si amano perdutamente e, nonostante i genitori del ragazzo non vedano di buon occhio la loro storia, sognano una futura felice vita assieme.
Fin qui il racconto potrebbe procedere con l’andamento e le prove tipiche del “C’era e non c’era” delle fiabe armene. Ma la vicenda prende subito tutt’altra piega. 
Siamo nel 1949 e molti armeni della diaspora si fanno abbagliare dal richiamo della Nuova Patria Armena, di cui l’onnipotente Stalin apre momentaneamente le porte. Ma in pratica, nessuno sembra sapere quale sia il calcolo o l’insipienza di questa mossa politica.
I due amici, ormai giovani uomini, prenderanno decisioni diverse, in base ad indole e alle inclinazioni politiche. Kirkan parte entusiasta, trascinando con sé molti connazionali, tutta la famiglia, sorella compresa. Kevork rimane, con la promessa – mai mantenuta – di raggiungerli presto, il che significa riunirsi a Maral per sempre.
La realtà dell’Armenia Sovietica si rivela da subito più difficile delle più pessimistiche previsioni. Yerevan è una città grigia, inospitale, gelida, abitata da gente carica di problemi, che inizialmente percepisce i nuovi arrivati come scomodi “fratellastri”. Ma l’inimmaginabile si verifica quando per un nonnulla si viene inghiottiti nella spirale del Gulag. 
Con le illusioni svaniscono anche i legami tenuti caparbiamente in vita da un amore epistolare, consumato solo in una dimensione onirica. Maral, l’eroina dell’intera vicenda, e Kevork si dovranno arrendere, seguendo tranquille strade diverse.
I pacchi di lettere, inviati da Yerevan, vengono, dopo tanti anni, ritrovati da Gregorio Krikor, figlio di Kevork. E questi decide di partire, alla volta dell’Armenia di oggi, sulle tracce di Maral, sentendola parte, sia pur non biologica, della sua famiglia. A fargli da guida sarà Garine, dagli occhi di smeraldo.

 

 

KHODORCIUR 100 anni dopo
di Raffaele Gianighian 
a cura di Vartan Gianighian
(Amazon Distribution, Liepzig, Germany)

Forse non siamo in molti ad aver avuto la fortuna di leggere, nei primi anni ’90 KHODORCIUR Viaggio di un pellegrino alla ricerca della sua Patria, all’epoca edito in un numero limitato di copie, oggi preziose, dalla Tipo-Litografia Armena di San Lazzaro, in cui Raffaele Gianighian, sopravvissuto al genocidio del 1915, ripercorre gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza e racconta di come e quando è approdato in Italia. È questo un racconto tutto in prima persona, fatto a ritroso, perché parte dal viaggio-pellegrinaggio che Raffaele, ormai settantenne compie nella sua Patria perduta. Qui desidera ritrovare i luoghi dove è nato, dove ha transitato durante la deportazione, la tomba della madre e di altre persone care.
Il figlio Vartan, similmente ad altri figli di sopravvissuti, avrebbe voluto lasciar chiuso, dimenticato in una angolo buio, questo capitolo della storia di famiglia, ostinandosi a far prevalere la sua metà italiana, per parte di madre e per nascita in Italia. Ma un destino non del tutto casuale lo porta, nel 2010, a ripercorrere il viaggio-pellegrinaggio che suo padre compì nel 1977. Straordinariamente, forse miracolosamente, ritrova, nonostante la perseverante volontà distruttrice dell’uomo, molti luoghi descritti dal padre e un cimitero di fondamentale importanza. Ritrova anche, contro ogni aspettativa, piccoli ma significativi gesti di umana solidarietà da parte di abitanti del posto – turchi, forse curdi o “resti della spada”- che collaborano, che non si mostrano ostili o istintivamente diffidenti.
Questo nuovo libro, cui Vartan si attribuisce ovviamente solo la “cura”, amplia e completa i contenuti del primo, con approfondimenti, note esplicative, e non ultimo, si avvale anche di scritti inediti del padre ritrovati di ritorno dal suo viaggio. 
Raphael, Raffig, sopravvisse anche grazie a dei turchi e curdi giusti, a partire da “nonno Yusuf”, che lo accolse; nel far ciò volle che si chiamasse Abdullah e si facesse islamico, ma non con l’intento di esercitare un sopruso sul bambino. Era infatti sinceramente convinto che quella fosse l’unica via di salvezza per Raffig. Vartan infatti afferma che il padre non pronunciò mai parole di odio, di risentimento, verso il popolo turco o curdo, ma attribuì la responsabilità di quanto avvenuto solo ed esclusivamente al Governo ottomano. Diversamente per lui, cresciuto nella conoscenza storica e familiare dei fatti, psicologicamente provato dal negazionismo, i sentimenti erano sempre stati più complessi. Ma una volta giunto a Khodorciur, matura gradualmente la percezione di esser giunto nella sua nuova antica Patria, e mentre siede assieme agli altri membri della comitiva, riuniti alla sera, sente di essersi finalmente “liberato dalla trappola del risentimento” e ha la netta “percezione di avere qualcuno o qualcosa vicino” a sé.
Una frase che ci riporta ad una struggente e serena immagine in cui Raffig, seduto, in una pausa della deportazione, accanto al padre Garabed, scrive: “Sono a fianco di mio padre, vedo sorridere la sua nostalgia”.

 

 

Il genocidio degli yazidi
L’Isis e la persecuzione degli “adoratori del diavolo”
di Simone Zoppellaro
Prefazione di Riccardo Noury
Guerini e Associati, Milano 2017

Simone Zoppellaro, giornalista esperto di Medio Oriente ed autore di Armenia oggi (Guerini e Associati), ci offre con questo importante lavoro un resoconto dettagliato e partecipe delle persecuzioni e stragi subite dalla minoranza yazida per mano dell’Isis poco più di tre anni or sono: nello specifico, si tratta di un vero e proprio genocidio, iniziato il 3 agosto 2014 e non ancora terminato. 
Il termine genocidio non è qui usato con leggerezza - lo stesso Zappellaro, coraggiosamente, asserisce che oggi se ne abusa troppo spesso, dimenticando la precisa accezione con cui Raphael Lemkin lo coniò per riferirsi al Grande Male armeno e alla Shoah - ma viene impiegato con precisa cognizione di causa. Non ha dubbi in tal senso anche Riccardo Noury, autorevole portavoce di Amnesty International, quando dichiara che “fa bene Zoppellaro […] a chiamare le cose con il loro nome, senza alcuna esagerazione, ma richiamandosi al dettato del diritto internazionale.” Infatti, in un’investigazione su tali eventi, condotta dalle Nazioni Unite e pubblicata nel 2016, la parola genocidio viene utilizzata, come acutamente riscontra l’autore, ben 97 volte in 40 pagine. 
Sugli yazidi, popolazione pressoché sconosciuta, stanziatasi storicamente in Irak, Siria, Iran, Turchia, Armenia, Georgia, ci viene qui fornito un quadro conoscitivo succinto, ma esauriente, da cui si evince che si tratta di una etnia minoritaria, portatrice di una fede antica, che si rifà al sufismo e che ha nel complesso templare di Lalish, il proprio principale centro spirituale. Nell’immaginario collettivo sono noti come “adoratori del diavolo”, anche se tale definizione non corrisponde minimamente alla realtà ed è sempre stata presa a pretesto per diverse le persecuzioni subite in passato da questo popolo. Nulla comunque di paragonabile, per efferatezza e freddo calcolo, a quanto è stato inflitto agli yazidi residenti nel Sinjar nel nord dell’Irak, dai fanatici dell’Isis. Nell’arco di pochi giorni, fermamente convinti di avere di fronte una minoranza di “infedeli” indegna di vivere, i guerriglieri di Al Baghdadi, hanno messo in atto un copione tristemente noto: agli uomini è stato intimato di scegliere tra l’abiura e conversione all’islam o la morte; le donne sono state deportate, sistematicamente stuprate, vendute come schiave; stessa sorte è stata riservata alle bambine, mentre molti maschietti sono stati usati come kamikaze. Nell’arco di pochi giorni si stima siano stati uccisi oltre tremila yazidi, e altri settemila sono stati fatti prigionieri. Molti antichi luoghi di culto sono stati distrutti, con l’obiettivo di annientare un popolo con tutto il suo patrimonio culturale. Un patrimonio che appartiene ad un piccolo popolo, ma tenace e che non ha mai inteso farsi assimilare. 
Per Zoppellaro le analogie con il genocidio armeno appaiono evidenti, in più punti, pur trattandosi di due popoli diversi sul piano della fede religiosa e del patrimonio culturale. E i due popoli conoscono bene le sorti e la storia l’uno e dell’altro. Infatti, uno dei massimi esponenti della diaspora yazida residente in Germania, Hussein Hasun, in una intervista si dice consapevole che la sua gente sta subendo quanto hanno sofferto gli armeni un secolo fa e, pessimisticamente, prevede che quello yazida sarà un altro genocidio a lungo ignorato e non riconosciuto dalla comunità internazionale. Inoltre i destini degli armeni e degli yazidi si sono più volte incrociati: un secolo fa, sul monte Sinjar, dove si sono compiuti gli orrori voluti dall’Isis, trovarono rifugio migliaia di cristiani, in larga maggioranza armeni, braccati dall’Organizzazione Speciale ed ospitati dalle popolazioni yazide. Oggi in Armenia vivono all’incirca 30.000 yazidi, scampati a diverse ondate persecutorie. A pochi chilometri da Erevan, ad Aknalich, è in fase di costruzione un tempio yazida. 
“Che senso ha attribuire tanta importanza al ricordo e alla commemorazione dei crimini del Novecento se restiamo passivi di fronte a quelli del nostro tempo?” Considerazione quanto mai giusta, questa formulata da Zoppellaro. È evidente infatti che con la sola eccezione della Germania, che sta dando ospitalità a molti profughi e sopravvissuti, l’Occidente sembra oggi, come ieri, voltare la testa dall’altra parte: complici una stampa ed una classe politica che preferiscono dimenticare in fretta. Auspichiamo quindi che questo libro venga letto da molti e contribuisca a non lasciare soli gli yazidi, così come furono lasciati soli gli armeni.

 

 

La Santa Sede e lo Sterminio degli Armeni nell’Impero Ottomano
Dai documenti dell’Archivio Segreto Vaticano e dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato
di Valentina Vartui Karakhanian e Omar Viganò
Prefazione di Antonia Arslan
Ed. Guerini e Associati, Milano 2016

Mentre le stragi e le deportazioni delle minoranze cristiane d’Anatolia erano in atto durante il primo conflitto mondiale, molte furono le testimonianze e documentazioni trasmesse ai rispettivi governi da diplomatici, membri del clero, professionisti occidentali, al fine di bloccare la macchina genocidaria. Basti pensare al noto Blue Book del Visconte Bryce e dello storico Toynbee, le denunce mezzo stampa del console italiano Giacomo Gorrini, i coraggiosi interventi del Pastore Johannes Lepsius. Alcuni dispacci poterono giungere a destinazione perché la Santa Sede - nazione neutrale – funse da tramite, consentendo in alcuni casi di eludere le maglie della censura politica.  
Ma il ruolo giocato dallo Stato del Vaticano fu molto più significativo ed in alcune fasi determinante da un punto di vista politico, diplomatico e umanitario. Questo prezioso libro ci consente, per la prima volta, di accedere ad una vasta mole di documenti che attestano la fitta rete di comunicazioni tra la Santa Sede e delegati apostolici, vescovi, missionari, ma anche laici e diplomatici, che denunciavano la gravità della situazione, invocavano l’intervento del Santo Padre o concertavano piani diplomatici d’intervento, al fine di salvare le popolazioni armene, sire, caldee, maronite perseguitate.  
Il principale artefice di questa fattiva azione diplomatica, durante tutti gli anni della guerra, fu il Nunzio Apostolico di stanza a Costantinopoli, Angelo Maria Dolci. Giunto nella capitale ottomana, dopo un lungo e travagliato viaggio, il 1 dicembre 1914, si trovò subito ad affrontare una situazione complessa, essendo posto in una consuetudinaria posizione di inferiorità dagli omologhi francesi, ed avendo subito toccato con mano un atteggiamento ostile da parte germanica. Nonostante le premesse scoraggianti, monsignor Dolci dà subito prova di determinazione, chiarezza d’intenti e spiccate qualità diplomatiche, nel condurre le proprie trattative. L’intuito nel comprendere le personalità dei potenti interlocutori, una cultura che abbraccia anche gli usi, le tradizioni, la mentalità del popolo turco, gli sono stati di aiuto, in situazioni particolarmente scoraggianti. Basti pensare alla paziente e sapiente trattativa condotta per consegnare, il 27 ottobre 1915, proprio nelle mani del sultano Maometto V, e non in quelle di un improbabile intermediario, la lettera autografa di Papa Benedetto XV, in cui il Pontefice faceva appello al senso di giustizia ed umanità del sovrano, affinché intervenisse per far cessare le stragi e le deportazioni dei cristiani e degli armeni in particolare. Lettera che sortì, almeno in parte l’effetto sperato, soprattutto a beneficio degli armeni cattolici.
Le numerose missive che monsignor Dolci invia alla Segreteria di Stato e ad altre autorità ecclesiali, sono un’interessante lettura, non solo dal punto di vista storico specifico, ma offrono uno spaccato degli ambienti statali ottomani, dall’abbigliamento, al cerimoniale e alle croniche inevitabili lungaggini. In alcune missive, non mancano alcuni spunti ironici, osservazioni salaci sui comportamenti, sul modo di esprimersi “alla turca”, ovvero sulle mezze verità, che avevano lo scopo di nascondere quanto avveniva dietro le quinte, ma che a Angelo Maria Dolci non sfuggivano di certo.
I due autori collocano la vasta documentazione qui selezionata in ordine cronologico, dal 1915 fino alla fine della guerra, fornendo alcune fondamentali informazioni sul contesto storico e politico in cui il carteggio fu intrecciato. La rivelazione di queste carte, rimaste fino a pochi mesi fa chiuse negli archivi vaticani, non solo rappresenta un’ulteriore elemento di  prova del genocidio armeno voluto dal Governo Ottomano, ma permette di conoscere l’ampia opera svolta dalla Chiesa di Roma a favore delle popolazioni perseguitate. Tra i diversi dati, apprendiamo che alla prima lettera del Pontefice al Sultano, ne seguirono altre due, e che Benedetto XV, a guerra conclusa, rivolse un appello anche al Presidente americano Wilson, affinché perorasse la causa di uno Stato Armeno indipendente. Tutti fattori, che ci fanno comprendere ancora meglio, le ragioni per cui Papa Benedetto XV è stato proclamato Giusto per gli Armeni, e il suo nome è impresso nel Muro della Memoria , sulla Collina delle Rondini a Erevan.


 

LETTERA A UNA RAGAZZA IN TURCHIA
di Antonia  Arslan
Ed. Rizzoli, Milano 2016

Sono momenti bui questi, per la Turchia, momenti di sconcerto e grave preoccupazione per chi crede che libertà e democrazia siano beni irrinunciabili, per ogni popolo, per ogni essere umano. Come può vivere questi momenti una ragazza turca di oggi, che vede erodersi, giorno dopo giorno, una serie di diritti, di certezze che aveva dato per scontate? Dove trovare la forza e la guida per lottare contro il corso imposto agli eventi?
Antonia Arslan rivolge idealmente a lei questa sua nuova opera: un’opera preziosa, come un’antica filigrana, in cui ogni minimo particolare – ogni parola, ogni segno d’interpunzione – sono scelti con cura, mai casuali, mai sostituibili. Questa ragazza turca è ignara del passato della sua patria, ma non è responsabile di tale ignoranza: per generazioni “la ferrea cupola ufficiale della menzogna di Stato” ha impedito che la verità venisse a galla. Antonia allora la prende per mano e con ricchezza di particolari, con parole chiare e mai rancorose, le svela una pagina di storia sconosciuta, probabilmente sconvolgente, ma l’intento non è quello di turbarla: l’intento è di infonderle una forza, una consapevolezza ed un coraggio nuovi. “Trovare le ragioni e la forza per sopravvivere” è un obiettivo molto difficile, e gli esempi lasciati dalle storie di Hannah, Iskuhi e  Noemi – tre donne di Turchia, tre donne armene – sono le guide da seguire. Perché ebbero coraggio, capacità di sognare e coerenza.  
Non sono personaggi di fantasia: Hannah, sopravvissuta alle deportazioni, divenne, grazie ad una positività mentale e ad una tenacia senza eguali, una grande imprenditrice negli Stati Uniti; la bisnonna Iskuhi sognava di creare tante scuole per i bambini armeni, ma morì giovanissima di parto, senza poter crescere nemmeno i propri figli; la bella Noemi non si piegò alle offerte di protezione, lugubri e velenose del bugiardo Sahib e piuttosto che cedergli, preferì lasciarsi sparire nel mare di Trebisonda.
Lettera a una ragazza in Turchia riallaccia un discorso iniziato nel 2004, con La masseria delle allodole, continuato nel 2009, con La strada di Smirne e nel 2015 con Il rumore delle perle di legno. La storia della famiglia Arslanian, continua ad essere scavata, scoperta e rivelata, senza però  restare chiusa nel suo piccolo guscio, ma essendo parte di quel popolo che edificò fragili regni e solide chiese di cristallo. A far nascere questo libro, come avvenne per La masseria delle allodole, sono state quelle “anime perdute” che, arrivando “da tutte le parti”, si sono presentate ad Antonia, “senza pregare, senza minacciare, solo mostrandosi”, e hanno chiesto di essere ricordate,  posando sulle sue spalle il “peso inflessibile del popolo scomparso.” Ma chissà quante lettere, quanti documenti, quante vecchie foto, quanti bigliettini apparentemente insignificanti, sono ancora sepolti nel fondo di qualche antico mobile…per far luce su altre vicende.
Anche qui, come ne La masseria l’ultima pagina si chiude con le parole “…ma questa è un’altra storia.” Parole non casuali. Allora arrivò, di lì a non molto La strada di Smirne. Ora noi attendiamo, augurandoci che questa felice chiosa finale ci regali presto una nuova opera, per stupirci e farci riflettere.

 

 

I DISOBBEDIENTI Viaggio tra i giusti ottomani del genocidio armeno
di Pietro Kuciukian
Prefazione di Marcello Flores 
Edizione Guerini e Associati, Milano, 2016

Nel suo precedente libro Voci nel deserto (Ed. Guerini e Associati, 2000), Pietro Kuciukian ci ha fornito un quadro molto esaustivo su coloro che egli definisce “testimoni attivi”del genocidio armeno: si tratta, nella maggior parte dei casi, di occidentali presenti sul posto al momento delle stragi e delle deportazioni, che hanno cercato di intervenire in soccorso dei perseguitati e hanno denunciato al mondo quanto stava avvenendo. Diplomatici, missionari, intellettuali: tra i più noti  l’ambasciatore statunitense Morgenthau, il console italiano Gorrini, la missionaria danese Karen Jeppe e l’intellettuale tedesco Armin Wegner, il più conosciuto ed amato, per aver fornito in tempo reale la più vasta documentazione fotografica sui campi di detenzione e sulle deportazioni.
Qui invece abbiamo tra le mani una ricerca su turchi, curdi, arabi di fede islamica, che in misura e  modalità diverse, cercarono di bloccare la macchina genocidaria e prestarono soccorso ai perseguitati. Quest’opera è doppiamente importante, in quanto non solo fornisce ulteriori dettagli storici sull’intera vicenda, ma fa emergere un dato fondamentale: non tutti i funzionari dello Stato ottomano approvavano le disposizioni emanate dall’alto, e non tutta la popolazione civile si lasciò manipolare dalla virulenta propaganda antiarmena messa in atto dal Governo. I “disobbedienti” di cui parla l’autore furono sindaci, prefetti ed altri ufficiali governativi che non eseguirono gli ordini di deportazione, che crearono, ove possibile, condizioni di sopravvivenza più accettabili agli internati nei campi, che escogitarono astuti pretesti per intralciare l’iter prefissato. Alcuni pagarono con la vita la propria disobbedienza, altri furono destituiti, trasferiti e comunque messi alla gogna come sudditi infedeli e nemici dello Stato. A singoli individui - come ad esempio il sindaco di Malatya Mustafa Ağa Azizoğlu o il kaimakan di Diyarbakir Rachid Bey -  si aggiungono semplici gendarmi, tanti anonimi cittadini ed intere comunità, come avvenuto a Konya, Varto, Sivas. È necessario rammentare che il Ministero degli Interni aveva emanato precise ordinanze con cui si proibiva di prestare aiuto agli armeni ed ogni atto in tal senso sarebbe stato punito con la fucilazione: dato reso ampiamente noto alla cittadinanza attraverso i banditori locali, e non solo con avvisi scritti. Chiaramente in nessun caso fu possibile bloccare totalmente gli atti criminosi, le violenze e la deportazione, ma si verificarono molti significativi salvataggi.
Questo libro è il risultato di una lunga, accurata e non facile ricerca, che si è svolta su due fronti: al lavoro d’archivio e bibliografico, si è aggiunto – com’è nello stile di Kuciukian – un lavoro svolto sul posto. In sella dell’immancabile motocicletta ed accompagnato dalla coraggiosa consorte, ha percorso migliaia di chilometri in Turchia, visitando quelli che un secolo prima erano stati i luoghi dei massacri, dove erano transitate le carovane della morte o dove un tempo erano vissute molte prospere comunità armene. Ci sono stati talvolta momenti poco piacevoli, nel corso di questo “viaggio nella memoria”, come lo definisce l’autore. Momenti di pericolo e paura, per l’aperta, minacciosa ostilità degli abitanti, che chiaramente non gradivano questi “intrusi”che ponevano strane, inopportune domande. Ma ci furono anche momenti in cui i due viaggiatori furono accolti con “disinteressata amicizia”, pur essendo stati chiaramente identificati come armeni.
I nomi qui riportati sono davvero molti, almeno 150, ognuno con il proprio contributo e le ragioni che li hanno portati a scegliere, in libertà di coscienza, da che parte stare. Queste storie non sono importanti solo per gli armeni, ma dovrebbero esser rese note anche a quell’opinione pubblica turca che continua ad essere fedele al negazionismo ufficiale. Se si apprende che un numero così considerevole di turchi ottomani dissentì allora, in nome di principi etici, umanitari e religiosi, ritenendo che quanto stava avvenendo fosse contrario ai dettami del Corano, l’intera questione potrebbe esser rivista con maggior serenità dai turchi di oggi. Si scopre infatti che non esiste un unico punto di vista su questa pagina di storia - il punto di vista armeno, occidentale e cristiano,- ma un punto di vista ignorato fino a poco tempo fa: quello di molti cittadini ottomani non armeni, un punto di vista autorevole, su cui non si deve permettere che cali l’oblio o che sia considerato non degno di rispetto e valore storico, perché sbrigativamente attribuito a traditori, sudditi infedeli o schegge impazzite.

 

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RACCONTAMI DEI FIORI DI GELSO
di Aline Ohanesian
Garzanti Ed. Milano 2016

Il titolo originale di questo coinvolgente romanzo, non privo di un’aura di mistero e di talune rivelazioni ad effetto, è Orhan’s Inheritance, ovvero “L’eredità di Ohran”: ed è attorno alla parola eredità che può esser costruita la chiave di lettura di questa articolata vicenda. Potremmo scriverla al centro di una di quelle mappe concettuali tanto usate dagli studenti di oggi e porre, alla fine dei diversi raggi che da essa dipartono, una serie di tasselli concatenati, da un unico filo che inizia nel 1915 in Anatolia e termina nel 1990, in Turchia e in California.
Eredità è inizialmente quella materiale, le proprietà che un nonno trasmette, per volontà testamentarie, al nipote prediletto, ma anche ad una sconosciuta, di cui nessuno in famiglia sembra aver mai sentito parlare. Inizia da parte del giovane Orhan la ricerca di questa misteriosa e scomoda beneficiaria. Una ricerca che da una ristretta faccenda di famiglia, si allarga alla storia di due popoli, l’armeno e il turco. Orhan, pur essendo un turco tutt’altro che schierato con il potere centrale dello Stato – ha subito il carcere duro e la tortura per ragioni politiche – prova la ritrosia comune ai suoi concittadini e coetanei, nell’affrontare la questione del genocidio armeno. Nel doverne, suo malgrado, parlare mentre si trova negli Stati Uniti, dice di non saperne nulla, se non che “in guerra accadono brutte cose.” Del resto per lui, le situazioni che hanno determinato lo sterminio degli armeni di Turchia sono, come dice l’autrice, “una nota sperduta a piè pagina nella storia della fondazione della Repubblica.” Eredità diviene quindi la scoperta di un passato remoto, per il giovane, un passato tragico al di là di ogni immaginazione, e che, per quanto lontano, egli capisce appartenergli, in una qualche misura.
Per l’anziana Seda-Lucine invece eredità è un peso insostenibile, che non è riuscita a scrollarsi di dosso, per quanto abbia caparbiamente lottato, nel corso di una lunga vita; quando finalmente s’era illusa di esserci riuscita, ecco che il passato riemerge, attraverso questo sconosciuto, ignaro giovanotto turco, e tutto si ripresenta, come se fosse ieri, lucidissimo, indelebile, come il profumo avvolgente, emanato dai fiori di un secolare grande albero di gelso, simbolo dell’antica felicità perduta. Seda-Lucine è “un resto della spada”, che deve gestire la sua armenità in quanto parte della diaspora statunitense, coniugandola con un netto, ostinato rifiuto di testimoniare, di raccontare.
Infine troviamo un’altra eredità, forse la più inattesa: il segreto lungamente ed abilmente nascosto di un’anziana turca, che salvò una giovane armena perseguitata, tenendola nascosta per tutti gli anni della guerra e rischiando per questo la vita, ogni giorno.  
Alla fine di questa storia nessuno dei personaggi è più lo stesso di prima: tutti son dovuti venire a patti con una verità rivelata, da cui non si può sfuggire, una verità che dona però loro una pace interiore e una capacità di scelta nuove.

 


ARMENIA OGGI Drammi e sfide in una nazione vivente
di Simone Zoppellaro
Prefazione di Antonia Arslan
Ed. Guerini e Associati, Milano 2016

L’autore, corrispondente dall’Armenia per l’Osservatorio Balcani e Caucaso, ha vissuto il primo impatto con la realtà armena durante i lunghi soggiorni di studio e professionali in Iran e Siria. Di entrambi i Paesi ci fornisce succinte, ma molto interessanti ed efficaci documentazioni, soprattutto inerenti le rispettive comunità diasporiche armene ivi residenti. Circa la Siria, il quadro è relativo agli anni e mesi immediatamente precedenti lo scoppio del conflitto che sta sistematicamente devastando quella terra, e che tra gli armeni ha provocato decine di migliaia di profughi, di cui 20.000 si sono rifugiati proprio nella piccola Repubblica d’Armenia.
Zoppellaro, una volta arrivato in Armenia, al pari di molti altri, intellettuali e gente comune, afferma: “La fascinazione per quel mondo non mi ha più lasciato, segnando per sempre la mia vita.” Una fascinazione, nel suo caso, dovuta al fatto che si tratta di un Paese che ha “resistito in parte alla mutazione antropologica che ha stravolto per sempre il volto dell’Europa. La cultura di quei luoghi è ancora fatta d’aria, di pietre e tempo.” Ma fascinazione non significa per questo acuto osservatore, non vedere con amarezza i gravi problemi che attanagliano il quotidiano del comune cittadino armeno . L’Armenia, secondo Zoppellaro, è una terra percorsa dall’ “inestinguibile canto della miseria”, ma con un popolo dotato di un’incredibile forza interiore, che ne fa “una nazione povera ma colta, stanca ma invincibile”; è altresì un Paese dominato “dallo strapotere di un ristretto numero di famiglie”, quegli oligarchi che si sono impunemente impossessati delle sue limitate risorse, lasciando al resto della popolazione solo poche briciole. Il giornalista non usa mezzi termini nemmeno quando evidenzia la deriva, a suo parere, sempre più autoritaria assunta dal governo, soprattutto nel reprimere proteste popolari, come quella inscenata per l’aumento ingiustificato e consistente delle tariffe elettriche.
C’è lucidità, chiarezza e passione in queste pagine, che ci forniscono uno spaccato dell’Armenia attuale, con squarci inediti, come quelli sulle celebrazioni per il centenario del genocidio, viste dal cuore della piazza, stando tra la gente, e non mediate attraverso l’occhio asettico di internet o di un’agenzia di stampa.
Speriamo che Simone Zoppellaro continui a raccontarci, tappa dopo tappa, la sua Armenia, che è l’Armenia di quegli armeni, che incontriamo tutti i giorni, negli angoli di questo Paese dal fascino irripetibile.

 

 

LA RAGAZZA DEL MAR NERO
La tragedia dei greci del Ponto
di Maria Tatsos
Edizioni Paoline, Milano 2016  

Sul genocidio armeno del 1915 in questi ultimi anni si è scritto parecchio: saggi storici, diari, testimonianze, opere letterarie. Fonti diverse, adatte a diversi tipi di lettori. Dei greci del Ponto si sa ancora poco o nulla, eppure il loro tragico destino fu molto simile a quello degli armeni. Residenti sin dall’epoca precristiana in una regione del nord dell’Anatolia prospiciente il Mar Nero, subirono le stesse persecuzioni prima da parte dei Giovani Turchi nel 1917, e successivamente per volere di Mustafa Kemal negli anni 1921-1922.
Ad aprire un varco verso questa strada ancora inesplorata giunge questo bel libro di Maria Tatsos, una giornalista italo-greca, che in età ormai adulta scopre le vere origini della propria famiglia e svolge un’accurata ed amorevole ricerca sulla “grande storia” dei greci del Ponto e su quella tutta privata dei propri nonni e bisnonni, approdati in Grecia, in qualità di profughi negli anni ’20.
“Noi siamo di Ordu, in Turchia….quella era la nostra patria,” aveva tentato di dirle un giorno sommessamente nonna Eratò (la ragazza cui il titolo si ispira), rievocandone le bellezze naturali con incolmabile nostalgia; ma allora Maria era troppo giovane e distratta, per prestare sufficiente ascolto a queste poche parole. Poi, alla soglia dei cinquant’anni, quando purtroppo quasi tutti i protagonisti di questa sua storia di famiglia non ci sono più, per lei è venuto il momento del fare memoria.
C’è un inesorabile parallelismo tra il destino degli armeni e quello dei greci del Ponto: due minoranze all’interno dell’Impero ottomano che, dopo la positiva parentesi dei millet, cadono vittime di politiche ultranazionaliste, di interessi economici interni statali, di bramosie di possesso da parte di cittadini comuni, di una propaganda ostile che fa leva sull’intolleranza religiosa e su antichi rancori. Anche le fasi secondo cui i due genocidi vengono attuati sono le stesse: eliminazione degli intellettuali, arresto degli uomini validi per impiegarli in battaglioni di lavoro nei quali vengono prosciugati fino all’ultima goccia di forza, deportazione delle donne e dei bambini, le conversioni indotte per avere salva la vita, le razzie e l’esproprio forzato dei beni dei deportati, le lunghe marce senza acqua né cibo, le stragi in massa di interi villaggi, l’accusa di essere complici del nemico russo.
Eratò, il marito Nikos e il piccolo Christòs, assieme ad un consistente nucleo familiare, sono stati davvero fortunati, poiché hanno trovato, nel corso della loro dolorosa esperienza, dei turchi buoni, degli amici veri che non li hanno traditi per pochi denari, dei funzionari e gendarmi “giusti”, grazie ai quali si sono salvati e non hanno subito le brutali violenze riservate a tanti altri loro connazionali.
Se Maria Tatsos non ha saputo nulla per tanto tempo, dipende anche dal volontario riserbo, dal silenzio che molti greci del Ponto stabilitisi in Grecia si sono autoimposto: molti profughi preferirono, al pari di tanti sopravvissuti armeni, non menzionare i traumi subiti e la natia terra perduta, nemmeno con figli e nipoti.
Oggi è diverso: nel 1994 il Parlamento greco ha istituito la “Giornata della memoria per il genocidio dei greci del Ponto”, che viene celebrata il 19 maggio, e negli Stati dove la diaspora è più numerosa – USA, Canada, Australia e Germania – si organizzano eventi culturali, convegni e viaggi della memoria. L’importante è che anche questo non rischi di essere, agli occhi del mondo, un altro genocidio dimenticato, sconosciuto e soprattutto negato.

 

 

 

HAIGAZ CHIAMAVA  . “MIKAEL…MIKAEL…”
Armenia 1915 – Una testimonianza
di Michel Mikaelian
A cura di Alessandro Litta Modignani – Postfazione di David Meghnagi

Mikael nel 1915 ha circa 13 anni, si sente e si definisce ancora “un bambino.” Vive la felice condizione di figlio amato e protetto nel guscio di in una numerosa, benestante e colta famiglia armena; frequenta con profitto e grandi progetti futuri un prestigioso collegio americano. È comunque un ragazzo semplice – la madre gli raccomanda la “modestia” coniugata con l’impegno costante nel migliorarsi –  è innamorato non solo dello studio, ma anche del sereno mondo rurale, dove trascorre lunghe parentesi estive.
Tutto questo universo però, in un frammento di tempo, viene spezzato, annientato per sempre. Prima è un preavviso: “Noi armeni siamo troppo fiduciosi ed ingenui”, gli dice un vecchio saggio, amato e stimato in tutta la comunità, cercando di far comprendere alla sua giovane mente che invidia, cupidigia, un odio atavico subdolamente malcelato, stanno per arrecare agli armeni nuovi lutti, stragi e distruzioni. Mikael non vuole credere che tanti vicini ed amici turchi possano trasformarsi in carnefici, ma qualcosa comincia a tormentarlo: un malessere psicologico che oggi definiremmo melanconia preadolescenziale. Ma c’è poco tempo per il ripiegarsi su se stessi: la realtà si presenta presto, concreta ed implacabile, come il vecchio saggio aveva previsto.
Il racconto che qui Mikael ci offre, in prima persona, è quello del genocidio del suo popolo e della distruzione della sua famiglia, scanditi tappa dopo tappa: prima gli arresti e la soppressione degli uomini, poi le razzie nelle abitazioni, lo sgomento e la paura che blocca ogni capacità di agire con lucidità per cercare una via di fuga, ed infine gli ordini di deportazione, cui non ci si può sottrarre.  
Mikael ormai non pensa più, non agisce più da bambino. Sotto i suoi occhi si consumano tutti gli orrori che tanti sopravvissuti hanno testimoniato: stupri, suicidi di donne disperate e rese folli dalle violenze subite, rapimenti e il fiume di disperati che muoiono “di tutte le morti del mondo”, come  Armin Wegner ebbe a dire. Il nucleo familiare di Mikael si assottiglia, via via che la marcia procede; si consuma la morte della madre, dopo atroci sofferenze, ma questa era già scritta; si consuma anche il momento che suggerisce il titolo di questo libro. Un momento cui dopo tanti anni Mikael non sa dare una spiegazione razionale, una spiegazione che lo aiuti a perdonare quel “se stesso – bambino”, orfano, stremato, inebetito dalla sete e dalla fame, in cammino da mesi. Erano rimasti solo lui, una vecchia zia, e il fratellino di due anni, Haigaz: fino a poco prima Mikael lo aveva protetto con tutte le sue forze, con tanto amore e determinazione, e poi, improvvisamente lo abbandona, implorante lungo la strada, “senza pietà.” “Io non capisco, proprio non capisco cosa sia potuto accadere dentro di me in quel preciso istante…” Mikael lo definisce un “accadimento unico”, ma noi sappiamo che unico non fu, ce ne furono molte, di decisioni estreme, umanamente non concepibili, durante le marce della morte. Madri che abbandonavano i loro piccoli lungo la via, sentendosi ormai vicine alla fine, e sperando che qualcuno li raccogliesse; madri che si gettavano nei fiumi con i bambini tra le braccia. Ma Mikael sembra ignorare tutto ciò, e comunque non saprà mai togliersi di dosso il senso di colpa per quel gesto devastante.
La vicenda di Mikael ripercorre quella di tanti sopravvissuti: dopo la deportazione, la salvezza a prezzo della schiavitù presso famiglie curde e tuche, la liberazione, il ricongiungimento miracoloso con parenti che si credevano perduti per sempre, la creazione di una vita nuova. Una vita che a Mikael ha riservato periodi di benessere, serenità, prestigio ed altri in cui è stato costretto a ripartire da zero, con forza e con quel saggio distacco dai beni materiali che forse solo chi ha tanto sofferto sa avere.

 

 

ARMENIA DI STRADA
di Pierpaolo Faggi
Ed. Cleup, Padova 2014

Visitare l’Armenia e restare intrappolati dalle diverse suggestioni del paesaggio, dal calore umano del suo popolo, dalle “pietre urlanti” e dalle pietre “cesellate a merletto”, dai monasteri abbarbicati sui monti….è cosa facile, ed ormai esperienza sempre più diffusa – specie se si è in genere inseriti in efficienti tour organizzati. Ma camminare l’Armenia è tutt’altra questione. Con questa bizzarra “licenza letteraria-grammaticale”, fin dalle prime pagine, l’autore ci lascia intendere che la sua non è stata una semplice impresa atletica – un trekking sul lungo percorso in solitaria – ma un percorso dentro ad una realtà, ed un percorso dentro se stesso. Un percorso fatto in un luogo dove “le storie complicate sono normali e vengono vissute come semplici”, dove gli incontri lasciano il segno, dove l’accoglienza è un rito, frugale e solenne.
E così, passo dopo passo, salita dopo salita, imprecazione dopo imprecazione, il nostro entra in un mondo con cui a volte litiga, ma più spesso dialoga con sagacia, profondo rispetto, curiosità, voglia di capire. Pagine e momenti di scoraggiamento, sconforto, melanconia, sono supportate da tante in cui l’ironia, e soprattutto l’auto ironia la fanno da padrone, come quando ci fa la divertente cronaca del suo essersi perso nel bosco e del salvataggio dei provvidenziali pompieri.  
Pierpaolo Faggi ha camminato la sua Armenia, e ce l’ha raccontata, con tante immagini originali, con parole curiose ed insolite, con neologismi di sua invenzione (forse): con questo suo piccolo, profondo ed accurato libro, arricchito dalle illustrazioni da egli stesso create, ha accresciuto la voglia di tornare in Armenia a chi c’è già stato, e certamente ha acceso il desiderio di andarci a chi ancora non la conosce.

 

 

1915: GENOCIDIO ARMENO
di Hasan Cemal  
Prefazione di Antonia Arslan
Guerini e Associati Ed. Milano 2015

Non deve esser stato facile portarsi addosso un cognome tanto ingombrante, storicamente e politicamente parlando. Un nonno osannato dai più, vituperato, sia pur sottovoce, da altri, una figura trasformata in eroe e martire della nazione turca, essendo caduto vittima di un attentato pianificato con cura dal gruppo Nemesis.
Hasan Cemal è nipote di Cemal Pasha, Ministro della Guerra nel 1915 nell’Impero ottomano, uno dei triumviri – assieme a Talaat ed Enver – che progettarono e perpetrarono il genocidio degli armeni d’Anatolia.  
Nato nel 1944, Hasan è inevitabilmente cresciuto con un’immagine mitizzata, in famiglia ed in patria, del nonno paterno. Studia Scienze Politiche all’Università di Ankara e dopo la laurea intraprende una brillante carriera di giornalista. Come è ovvio la questione armena non gli è mai stata estranea, sia sul piano personale che professionale. Ad un certo punto però “il 1915” diviene un interrogativo sempre più pressante, cui non sa e non intende sottrarsi. 
In questo libro molto coraggioso e ricco di materiale inedito, Hasan Cemal, in una sorta di autoanalisi, ripercorre le tappe della propria ricerca sulla verità storica, una verità ostinatamente nascosta dalla Repubblica turca, che ha sempre “fatto vivere tutto il suo popolo nella menzogna”: è stato questo un percorso lento, graduale, non privo di sofferenza interiore, irto di difficoltà, che gli ha causato durissime accuse di tradimento da parte dei connazionali. 
Hasan Cemal rilegge con lucido distacco alcune sue pagine di diario, articoli che scrisse per le principali testate di cui è stato redattore, riporta anche articoli di altri colleghi ed intellettuali e lettere personali ricevute.
Fondamentali si sono rivelati diversi incontri. Alcuni con sconosciuti, come quello con Anton Zor, ultimo abitante armeno del quartiere gavur di Diyarbakir, con cui parla a lungo, nei pressi della chiesa diroccata di Surp Giragas che “stava in uno stato di solitudine”, come il suo unico, sfiduciato frequentatore. Era il 2001. Da allora altri incontri si susseguono, sempre più significativi: Orhan Pamuk, Halil Berktay, Elif Şafak, Fethiye Çetin – per citarne alcuni tra i più noti – ed infine, Taner Akçam, e colui cui questo libro è dedicato: Hrant Dink, il “fratello Hrant”. A proposito di questi ultimi due afferma: “Per quanto riguarda il 1915 Hrant ha aperto la serratura del mio cuore, Taner Akçam quella della mia mente.”
L’assassinio di Hrant Dink crea in Hasan Cemal uno sconforto ed un vuoto profondi, ma l’onestà morale, intellettuale e politica dell’amico fraterno, che ritiene esser stato vittima di uno Stato in cui “gli assassini vengono trattati come eroi e sono protetti da poteri occulti”, lo porta a continuare la via che Hrant  aveva intrapreso ed indicato. Di qui un susseguirsi di scelte determinanti: le posizioni ufficiali assunte, attraverso diversi articoli, contro le autorità, la magistratura, la polizia che volutamente non cercano i mandanti dell’omicidio dello scomodo direttore di Agos; l’essere tra i firmatari della petizione on line con cui trecento intellettuali turchi esprimono partecipazione al dolore del popolo armeno e chiedono perdono per quanto questo ha subito nel 1915; il viaggio a Erevan, ad un anno dalla morte dell’amico Hrant. Un viaggio che vede due momenti ugualmente salienti: la visita al Monumento al Genocidio, ove Hasan Cemal posa i garofani bianchi, presso la fiamma perenne, in ricordo di Hrant, e l’incontro, sereno, pacato con il nipote di uno degli attentatori che uccisero suo nonno, a Tbilisi, nel lontano 1922. Non è stato questo un viaggio strettamente privato, è bene precisarlo. Hasan Cemal era inserito in un gruppo di giornalisti turchi che si recavano nella capitale armena al seguito del presidente Gül in occasione della celebre partita di calcio Turchia-Armenia. E la scelta di recarsi alla Collina delle Rondini non fu né immediata, né facile.  
Infine un altro viaggio, quasi a suggellare un legame più ampio e profondo con il popolo armeno, un viaggio in cui affronta un esame con se stesso, prima ancora che di fronte ad un uditorio che sembra temere più di ogni altro: si reca alla University of California di Los Angeles, dove deve tenere una conferenza alla comunità armena della diaspora statunitense. Teme di non essere creduto, nella sua sincerità, nelle buone intenzioni, teme, paradossalmente di usare la parola “genocidio”, quasi dalle sue labbra fosse sentita come una profanazione: è il 2011. Poi la usa, quella fatidica parola che nessun presidente USA ha mai osato pronunciare, e non solo si sente calorosamente accolto, ma qualcuno gli chiede con preoccupazione: “Ha usato quattro volte la parola genocidio. Non ha paura?” Evidentemente Hasan Cemal non ha paura, altrimenti farebbe il gioco di “coloro che hanno fatto vivere nelle tenebre” generazioni di turchi, di “coloro che vogliono che continui nel Paese la paura della verità. Poiché lo sanno benissimo: la verità rende libera la gente.” Hasan Cemal con questo libro sta lottando per la libertà e la democrazia nel suo Paese.

 

 

MAYRIG
di Henri Verneuil 
Traduzione di Letizia Leonardi
Divinafollia Edizioni, Caravaggio (BG) 2015

Chi ha avuto la fortuna di vedere i due bellissimi film  Mayrig e Quella strada chiamata paradiso (588 rue Paradis in originale) diretti dallo stesso Verneuil e purtroppo mai messi in circuito per ragioni imperscrutabili nelle sale italiane, con rinnovata emozione, rivivrà attraverso le pagine di questo romanzo autobiografico molti dei momenti salienti di entrambi i cortometraggi. La pagina scritta però ci offre molte riflessioni, memorie riemerse da un passato remoto, ma palpabile, digressioni, da parte dell’io narrante, che nello spazio del mezzo cinematografico non avrebbero potuto trovare opportuna collocazione.
Henri Verneuil è il nome d’arte di Achod Malakian, nato a Rodosto in Turchia nel 1920 ed approdato a Marsiglia con la famiglia – i genitori e due zie nubili – all’età di quattro anni. La famiglia Malakian, un tempo più che benestante, dopo l’immane tragedia del genocidio cui ha avuto la fortuna di sopravvivere, deve comunque lasciarsi tutto alle spalle e cercar rifugio in un mondo nuovo, di cui conosce poco o nulla, salvo esser confortata dall’idea che sul posto c’era già una nutrita comunità armena di scampati, che li avevano preceduti. L’inserimento sarà un percorso lungo, sempre in salita, come quella lunga strada, rue Paradis appunto, dove alloggeranno a lungo, dopo l’arrivo, e che, contrariamente al nome bene augurante, non si era manifestata particolarmente accogliente. Ma quel piccolo microcosmo di apolidi che è la famiglia Malakian, affronta tutto con pacata determinazione nel chiedere non più di quanto non sia legittimamente dovuto, con gentilezza, senza mai piangersi addosso, e lavorando in modo indefesso e al meglio delle proprie capacità. Tanti episodi non propriamente piacevoli, in cui si vedono trattati con diffidenza come strani intrusi piovuti da un altro mondo, vengono vissuti e rievocati con intelligente ironia ed auto ironia. “Mayrig”, “mamma” in armeno, è la figura dominante: tanto dolce e delicata nel tratto, quanto determinata e forte nella volontà. Per certi aspetti il perno di questa famiglia che Achod/Henri ripetutamente descrive come un piccolo regno d’amore reciproco, in cui nessuno avrebbe potuto vivere senza l’altro.
Si diceva dell’inserimento nella nuova società francese. Il primo a percepirne la difficoltà seria, oggettiva, dolorosa è proprio il piccolo Achod, sistematicamente, scientemente emarginato a scuola, dai piccoli viziati compagni di classe, rampolli di famiglie agiate che avevano l’abitudine di guardare all’altro, al diverso, con frivola curiosità, nella migliore delle ipotesi, con malcelato fastidio nella maggior parte dei casi. Achod capisce subito, prima degli adulti la situazione, e sceglie la solitudine, ma non rancorosa o depressa, semplicemente vissuta con lo spirito del “non ti curar di loro, guarda e passa”. Sarà poi la sua intelligenza, le sue grandi doti a farne un adulto di successo, adulato meschinamente proprio da coloro che da piccolo lo avevano profondamente ferito con stupida superficialità, a consentirgli una rivincita su quel mondo che aveva tenuto per lunghi anni la sua famiglia ai margini. Ma è una rivincita solo morale, scevra da qualsivoglia spirito vendicativo.  
In fine, possiamo senza dubbio osservare che i Malakian sono un esempio emblematico di quegli armeni della diaspora che hanno saputo coniugare armonicamente capacità di adattamento ai sistemi dettati dal nuovo Paese di accoglienza, e conservazione gelosa della propria armenità, delle proprie usanze, di tradizioni, ricette e profumi che ricordano con serenità il Paese lontano.

 

 

PERDONO RANCORE
Interviste ad Antonia Arslan e a Frère John di Taizé  
Casa editrice Il Margine, Trento 2014

RIMOZIONE DI UN GENOCIDIO
La memoria lunga del popolo armeno  
Antonia Arslan conversa con Enzo Pace    
Centro editoriale dehoniano, Bologna 2015

Due piccoli libri, nelle dimensioni, ma profondi e densi di contenuti, in cui Antonia Arslan, ancora una volta è chiamata a riflettere sul Medz Yeghern,  sulla ferita aperta del genocidio armeno. 

Nel primo si dibatte in chiave sia religiosa che laica del “sentimento del rancore” e della “scelta del perdono”nella vita di ciascuno di noi. Nello specifico del genocidio Antonia Arslan svolge un’articolata riflessione, partendo dalla diatriba suscitata dalla proposta di legge del Parlamento francese, avanzata nel 2011, sulla penalizzazione del negazionismo verso il genocidio armeno. Pur riconoscendo che tale iniziativa ha contribuito a mantener vivo e sotto gli occhi di tutti il problema del negazionismo, l’intervistata tuttavia esprime la convinzione che questo “non si estirpa con le leggi, ma con la maturazione delle coscienze.” Per quanto concerne la possibilità di perdonare da parte dei sopravvissuti e delle generazioni successive, questa appare come un’ipotesi molto difficile, proprio per le conseguenze esercitate dal negazionismo stesso. “Il perdono che sana il dolore non può essere concesso perché altezzosamente non viene richiesto”: è la spiegazione, semplice, ovvia. Però esiste una fune cui aggrapparsi, per risalire la china della fatica interiore che conduce al perdono: questa ci è fornita dalla testimonianza dei “giusti”, quegli “eroi per caso”, che con i loro gesti hanno salvato non solo fisicamente, ma anche psicologicamente i perseguitati. Antonia Arslan racconta qui un incontro, molto significativo per lei, un incontro che le ha lasciato un segno. Quello con Immaculée Ilibaigiza, sopravvissuta al genocidio ruandese grazie all’intervento di un hutu che non aveva la benchè minima vocazione del martire o dell’eroe. Immaculée si dimostra una donna dotata di una spiritualità profonda, capace di un perdono sincero, un perdono frutto di riflessione, motivato razionalmente. E dopo le conversazioni avute con lei, Antonia si trova a riconoscere che “in ogni essere umano c’è il massimo del bene e il massimo del male”, sta in noi scegliere se seguire pedissequamente la massa, manipolata da una manciata di potenti, o intraprendere una strada libera, scevra dalle persuasioni occulte dell’avidità e di una menzognera propaganda ostile. 

Nel secondo libro vengono posti quesiti diversi, per rispondere ai quali Antonia Arslan  fornisce al lettore un breve quadro dei momenti salienti della storia armena – conversione al cristianesimo, invenzione dell’alfabeto, traduzione della Bibbia – momenti che sono stati pietre miliari nel consolidamento dell’identità armena. Si sottolineano la vocazione armena di farsi popolo-ponte tra Oriente ed Occidente e “l’amore per il Libro”, rammentando che in ogni villaggio armeno non mancavano la chiesa e la scuola, ove venivano alfabetizzati bambini e bambine, indifferentemente. Si aggiungono alcune spiegazioni di base sulla Chiesa Apostolica armena e sull’ordine mechitarista, rammentando che i collegi mechitaristi di Venezia e Vienna contribuirono a dare ampia risonanza sia ai massacri hamidiani che al genocidio, in tempo reale. Interessanti anche le informazioni, sicuramente poco note, sulle buone, storiche relazioni tra Armenia e Persia (Iran).  
Come si evince dal titolo, viene ampiamente trattato lo spinoso tema del “granitico negazionismo” dello Stato turco. Un negazionismo che però lascia da qualche tempo intravedere “crepe sempre più consistenti”, grazie all’intervento di coraggiosi accademici, intellettuali, giornalisti turchi. Quegli stessi che si fecero promotori nel 2009 di una petizione on line in cui veniva espressa solidarietà con il popolo armeno e si chiedeva perdono per quanto aveva dovuto subire nel 1915; petizione sottoscritta da oltre quattromila cittadini turchi.
Ma se per quanto riguarda l’opinione pubblica in Turchia si può cominciare a nutrire un pallido ottimismo, molte più amare sono le conclusioni circa l’ipocrisia fino ad oggi dimostrata dai presidenti degli Stati Uniti. Ad una domanda sulle ragioni del mancato riconoscimento del genocidio da parte del governo statunitense, Antonia Arslan ammette esplicitamente che la possibilità che la situazione possa cambiare al momento è “praticamente inesistente”. Troppo pesanti sono le pressioni politiche, strategiche, economiche del potente alleato turco, membro della NATO; basti pensare che anche l’attuale presidente Obama, nonostante le solenni e vane promesse pronunciate in campagna elettorale al cospetto della numerosa e rispettata comunità armena, non ha ancora avuto il coraggio di usare la G-word in occasione delle annuali commemorazioni del 24 aprile.
Il popolo armeno continua così a sentirsi tradito e il peso della memoria del passato diviene di anno in anno più gravoso da sopportare.

 


SOGNI DI PIETRA
di Akram Aylisli  
Prefazione di Gian Antonio Stella
Guerini e Associati Editore, Milano 2015

Abbiamo qui tra le mani un “libro scandalo”, che ha gettato nella gogna il suo autore, uno scrittore che fino a pochi anni fa era tra i più celebrati della sua nazione, l’Azerbaigian.
Akram Aylisli nasce nel 1937; in Unione Sovietica si guadagna fama e prestigio negli anni in cui l’Unione degli Scrittori – di cui era membro - era una vera e propria potenza politica all’interno dello Stato: farne parte ed ottenerne importanti riconoscimenti equivaleva a vivere in una sorta di Olimpo, venirne estromessi, per un imprudente passo falso, significava esser catapultati al di là dello Stige. Ma i successi di Aylisli continuarono anche in epoca post-sovietica.
Cerchiamo di capire quindi perché questo libro è stato giudicato tanto pericoloso, altrimenti non si spiegherebbe l’abnorme reazione che ha provocato nelle autorità azere.  
La trama può apparire piuttosto complessa, poiché si svolge su più piani: quattro capitoli, introdotti da lunghi titoli vagamente esplicativi, in cui si intrecciano narrazione di eventi reali, dimensione onirica, immagini percepite in uno stato di coma del protagonista, e diversi flashback che rievocano l’infanzia e la prima giovinezza. Il tutto si svolge negli ultimi anni ’80, quando il gigante sovietico dai piedi d’argilla si stava inesorabilmente sgretolando. Abbiamo qui l’immagine di uno Stato e di un ambiente politico e culturale caratterizzato da forme clientelari, reciproche protezioni mai gratuite, in cui vige il detto e non detto, e l’adulazione e servilismo nei confronti del Capo, mai chiamato per nome e patronimico, sono la norma che non può essere evitata. Fin qui, nulla di particolarmente strano o scandaloso, per un libro scritto nel 2007, quando l’Azerbaigian era divenuto repubblica indipendente sin dal 1991.
Il problema è un altro: sta nel fatto che quasi in ogni pagina si parla di armeni. Si parla non solo di eccidi avvenuti nel 1919, ma anche dei pogrom di Sumgait e Baku e della questione del Nagorno Karabagh. Il protagonista – tale Sadaj Sadygly – 100% sangue azero, musulmano, attore teatrale tra i più popolari, insignito delle più alte ed ambite onorificenze -  ad un certo punto della sua vita esprime sempre più apertamente la propria vicinanza spirituale al popolo armeno, la propria stima e solidarietà. Pochi lo capiscono, la moglie addirittura dubita del suo equilibrio mentale. Fondamentali gli anni d’infanzia, trascorsi in un villaggio in cui le due comunità, azera ed armena, avevano condiviso un’esistenza semplice e pacifica. I ricordi riaffiorano dirompenti, soprattutto quando le violenze del presente rievocano quelle del passato.
“Se si accendesse almeno una candela per ogni armeno ucciso violentemente, la luce di queste candele sarebbe più viva della luna”, dice Sadygly, e continua:” Questo popolo continuamente sfruttato e tormentato dagli oppressori, non ha mai smesso di costruire chiese, scrivere libri e, alzando le mani al cielo, invocare il proprio Dio.” Questo deve esser stato davvero troppo per il dispotico regime azero, in cui il potere si trasmette di padre in figlio, in cui un omicida reo confesso viene celebrato come un eroe nazionale, se la vittima è un armeno.
Akram Aylisli è stato espulso dall’Unione degli Scrittori azeri, privato della pensione, moglie e figlio licenziati in tronco e – immagine che evoca lugubri ricordi di passate dittature – i suoi libri bruciati nelle pubbliche piazze, tra il giubilo, speriamo almeno in parte pilotato, dei suoi connazionali.  
Nonostante tutto, Aylisli ha coraggiosamente deciso di continuare a vivere a Baku, perché sa di essere nel giusto, perché quella è la sua terra, un terra che ama, una terra cui sente di appartenere.    Sarebbe più facile andarsene, ne avrebbe tutte le ragioni. La sua storia ne ricorda un’altra, di diversi decenni or sono: quella di Boris Pasternak, che rinunciò al Nobel, pur di continuare a vivere, sia pur da emarginato, nella sua Russia, che amava visceralmente, nonostante tutto.

 

 

AFFINITA'  CON  I  CIELI  NOTTURNI
di Astrid Katcharyan
Prefazione di Antonia Arslan
Nuovadimensione edizioni, Portogruaro (VE) 2015

Astra Sabondjian, nonna materna dell’autrice di questo romanzo che ci racconta una storia vera, è stata una donna non comune, a cominciare dal nome, non tratto dalla compagine delle sante armene della tradizione, ma appartenente alla dea pagana della bellezza e dell’umiltà. Più bellezza che umiltà – constatava la madre – ma il risultato era comunque perfetto. Lunghi capelli biondi, occhi azzurri, di una incantevole bellezza naturale, autentica, priva di orpelli, Astra era soprattutto dotata di una personalità ed intelligenza straordinarie.
Nata a fine ‘800 in una facoltosa famiglia di prestigiosi ed abilissimi orafi armeni – uno dei suoi primi ricordi era l’arrivo dei possenti cosacchi che venivano a ritirare preziosi manufatti destinati allo zar di tutte le Russie – deve misurarsi molto presto con l’esperienza della perdita e dell’esilio. L’assassinio del padre e l’abbandono della natia Garin – che resterà sempre nel profondo dell’anima la sua casa – è la prima tappa, di una lunga serie di eventi che la condurranno a vivere a Smirne, ad Atene, a Vienna ed infine a Venezia.
Astra è stata una femminista ante litteram, uno spirito indipendente: opponendosi ai comuni canoni dell’epoca e della società cui apparteneva, si oppone strenuamente a formalismi che ritiene superati; sposa l’uomo che ama, un geniale intellettuale rivoluzionario; lavora, convinta che sia un diritto delle donne scegliere di acquisire una propria indipendenza; padroneggia perfettamente l’inglese e diviene prima traduttrice e poi giornalista. Nel contempo si inchina, suo malgrado, ad alcune tradizioni irrinunciabili, per amore e rispetto verso la propria famiglia.
Attraversa, lottando con coraggio, determinazione ed inventiva situazioni che prese singolarmente avrebbero annichilito per sempre molti, sia uomini che donne: l’arresto del marito sottoposto a reiterate torture, e che riesce a far liberare; la sua stessa prigionia; la deportazione nel 1915; la fuga da Smirne incendiata, dove perde il marito; l’approdo ad Atene, con i quattro figli, per i quali deve costruire una nuova esistenza da profughi. Non si piega mai alla via facile del compromesso, ma mantiene fede a principi irrinunciabili che aveva condiviso col marito, e che la fanno sentire intimamente libera.
Ingegno, creatività, capacità di adattamento, trasformano l’intellettuale e la giornalista, in una abilissima sarta e poi imprenditrice nel campo dell’alta moda.  
Astra subisce e supera le conseguenze di due guerre mondiali, che le fanno perdere tutto quanto faticosamente costruito, per poi ricominciare da zero, in un paese nuovo, dove arriva solo con una valigia. C’è una cosa che però è riuscita a conservare nel suo lungo peregrinare: un libro antico, un testo sacro finemente lavorato che il suocero donò proprio a lei, questa nuora così fuori dagli schemi, ma di cui aveva saputo capire il valore e la forza interiore: quasi avesse intuito che lei sarebbe stata capace di proteggerlo per sempre, a testimoniare, una volta di più l’amore per il libro tipico dell’animo armeno.

 

 

BISOGNA SALVARE GLI ARMENI  
Discorsi di Jean Jaurès 
Guerini e Associati, Milano 2015

Questi tre discorsi pronunciati dal deputato socialista francese Jean Jaurès alla Camera dei Deputati del suo paese, per denunciare l’orrore dei massacri hamidiani, letti oggi ci appaiono quanto mai profetici ed amaramente attuali.  
Le date – 3 novembre 1896, 22 febbraio 1897, 15 marzo 1897 – si collocano in un contesto in cui il sultano Abdul Hamid II aveva, nei mesi immediatamente precedenti, ordinato all’esercito governativo, affiancato da battaglioni speciali appositamente addestrati, di mettere in atto stragi a tappeto di armeni residenti in diverse province dell’Anatolia, senza risparmiare anche molti membri delle comunità armene di Costantinopoli. Il tutto inserito in una capillare campagna antiarmena, per acquisire il consenso e l’appoggio della popolazione turca musulmana.   
Jean Jaurès accusa l’Europa di esser rimasta inerte dinnanzi a tali crimini contro l’umanità, e particolarmente colpevoli appaiono ai suoi occhi, Russia, Gran Bretagna e Francia. Sono i tre, tra i più potenti stati che hanno sottoscritto il Trattato di Berlino (13 luglio 1878), il cui art. 61 imponeva alla Sublime Porta di garantire la sicurezza contro soprusi e violenze ai sudditi armeni dell’Impero. Russia, Gran Bretagna e Francia, a suo giudizio, si sono limitati a tiepide forme di protesta, troppo vaghe e teoriche per poter essere efficaci. Tutti, Francia compresa, hanno – secondo Jaurès – fatto prevalere interessi finanziari, economici e strategici sulla salvaguardia della vita di migliaia di cittadini inermi, massacrati nei modi più barbari.   Ipocrisia, complicità, calcolata politica di attesa, vengono dal coraggioso deputato denunciate e comprovate, attraverso documenti inoppugnabili, a partire dai rapporti redatti dall’ambasciatore di Francia a Costantinopoli, Paul Cambon, testimone diretto dei massacri. Rapporti che però non vennero volutamente tenuti nella dovuta considerazione. 
Jean Jaurès morì assassinato nel 1914, quindi non ebbe modo di assistere ai fatti che portarono all’annientamento di un milione e mezzo di armeni: anche nel caso del Grande Male le voci di chi cercò di denunciare quanto stava avvenendo, rimasero inascoltate – basti pensare ad Henry Morgenthau – e negli anni immediatamente successivi, da parte dell’Occidente calò nuovamente un muro di silenzio, complice, pavido ed ipocrita, per squisite ragioni di realpolitik.   
Nel corso del Novecento, ed anche in questo nuovo millennio, altri genocidi, stragi e crimini contro l’umanità si sono succeduti: troppe volte le vittime hanno subito le conseguenze di giochi di potere orchestrati altrove – per usare parole dello stesso Jaurès – “dietro ad uno scenario di vane manifestazioni, di vane parole, di vane minacce, di vane promesse” eretto per celare “la realtà dell’oppressione, la realtà del massacro.” Troppe volte si arriva troppo tardi.

 

 

L’ARMENIA, GLI ARMENI Cento anni dopo  
di Maria Immacolata Macioti  
Guida Editori, Napoli 2015

A cent’anni dal genocidio, l’autrice, docente di sociologia all’Università di Roma, ritiene necessario dare concretezza ad un suo interesse per gli armeni scaturito negli anni ’80, lasciato per qualche tempo nel cassetto e poi curato da una lunga ricerca bibliografica e documentale.   “Interessarsi dell’Armenia e degli armeni vuol dire interessarsi di diverse altre nazioni dell’Oriente e dell’Occidente”, afferma la Macioti. Si tratta di quelle nazioni in cui gli armeni vivono, essendosi dispersi nel mondo, in epoche differenti, per motivi commerciali, trasferimenti forzati o necessità di fuga e  sopravvivenza.   
Quindi troviamo qui singoli accurati ed interessanti capitoli dedicati alle comunità armene in Turchia, in Russia, in Iran, in Romania, in Siria e Libano, negli USA, in Francia, in Italia, oltre che nell’attuale Repubblica d’Armenia e nel Nagorno Karabakh, completati da cronologie specifiche.     
Emerge nelle singole trattazioni una priorità di questo popolo: l’aver sempre saputo coniugare capacità di inserimento nelle diverse realtà con la conservazione della propria identità culturale.    
La studiosa affronta anche lo spinoso tema del terrorismo armeno di cui è stata occasionale testimone a Roma, nel 1980, cercando di darne una spiegazione da un punto di vista il più possibile equidistante.    
Particolarmente significative risultano infine le considerazioni relative al negazionismo, soprattutto quando questo non proviene da una prevedibile fonte turca, ma quando è il risultato di argomentazioni di intellettuali occidentali: l’analisi delle “tesi pericolose” di Günter Lewy è molto lucida e chiara. A giudizio dell’autrice, l’accademico vorrebbe apparire scientificamente neutro e oggettivo, riferendo un’accurata analisi di fonti sia turche che armene od occidentali, salvo poi usarle in modo discutibile per lasciar spazio a stereotipi e a conclusioni in cui il negazionismo non è esplicito, ma subdolamente suggerito.

 

 

LA MASCHERA DELLA VERITA' 
di Pinar Selek 
Fandango libri, Roma 2015

Si legge tutto d’un fiato questo prezioso libro autobiografico di una coraggiosa giovane intellettuale turca, che descrive le tappe esistenziali che hanno fatto di lei un’esule, impegnata nel testimoniare una realtà complessa – quella del suo Paese – e la lotta da lei intrapresa per la democrazia e la verità storica, a partire dal genocidio degli armeni ottomani.    
Nata in una famiglia politicamente schierata a sinistra, cresciuta con un padre incarcerato dopo il golpe del 1980, la giovanissima Pinar è una studentessa ribelle, pronta alla contestazione.  
All’epoca è ancora convinta che la Turchia sia terra di un unico popolo, quello cui lei stessa appartiene e degli altri, anche in ambito scolastico “sembra non accorgersi, o non volerli considerare”: si tratta di compagni di liceo sempre alquanto taciturni, isolati, forse più maturi, che si dicono “armeni”. Del resto era comunque figlia di quella politica scolastica che aveva fornito una versione unilaterale e volutamente lacunosa della storia del primo Novecento e i genitori stessi, pur schierati su posizioni di dissenso nei confronti del potere, erano concentrati su altre problematiche.     Poi gradualmente scopre un mondo sommerso, quello dei resti della spada, e inizia una ricerca ostinata e partecipe.  
Anche Pinar conoscerà il carcere, con l’accusa mai dimostrata di far parte del PKK. Prima dell’assoluzione subisce durissime e reiterate torture, che però non ne scalfiscono la forza morale. Tornata in libertà si dedica ai diritti delle minoranze. Conosce Hrant Dink, con cui costruisce una stretta collaborazione e del quale ci fornisce, con pochi tratti di penna, un umanissimo ritratto. Dar voce alla memoria negata del genocidio armeno diviene, a partire dal sodalizio con Agos, il suo obiettivo principale.   
Attualmente, per motivi di sicurezza personale, vive all’estero. Spera che sia una situazione non definitiva, fiduciosa che col tempo i movimenti che oggi animano la sua patria possano “malgrado il contesto estremamente repressivo” trasformarla in “un progetto di giustizia comune” e di democrazia, sia per i turchi che per gli armeni. Non si illude, Pinar, che questo avvenga facilmente e nel breve tempo, ma quando è tentata ad abbandonarsi allo scoraggiamento, si ripete una frase di Gramsci, che l’ha più volte sostenuta nei momenti più duri. “Bisogna unire il pessimismo dell’intelligenza all’ottimismo della volontà.”


LA MARCIA SENZA RITORNO – Il genocidio armeno 
di Franca Giansoldati 
Salerno Editore, Roma 2015

L’autrice è una vaticanista del quotidiano “Il Messaggero” ed ha fatto parte del gruppo di giornalisti che hanno viaggiato a seguito del Papa, durante la recente visita ufficiale in Turchia del novembre 2014. A tale proposito ci rivela che il leader turco Erdogan aveva espressamente chiesto al Santo Padre di non usare ufficialmente la fatidica parola “genocidio”, richiesta che sappiamo esser stata coraggiosamente disattesa. 
Ma qui non abbiamo tra le mani una cronaca di fatti recenti: in questo lavoro l’autrice ci fornisce un ampio resoconto su quanto attinto negli archivi vaticani a proposito del genocidio di cui quest’anno ricorre il centenario. Si tratta di molti documenti, di cui alcuni inediti, dai quali si apprende che ci fu una fitta corrispondenza tra il delegato apostolico ad Istanbul, monsignor Angelo Dolci e la Santa Sede. Questi informava tempestivamente e con dovizia di particolari il Vaticano sulla drammaticità della situazione. Alle missive di monsignor Dolci, se ne aggiunsero molte altre, redatte da vescovi armeni cattolici. Già il 10 settembre 1915 il pontefice Benedetto XV scrisse personalmente al sultano Maometto V per denunciare le atroci sofferenze cui erano sottoposti cittadini cristiani inermi, invocandone l’intervento affinché cessassero le violenze. Probabilmente è alla luce anche di questo fatto che il nome di Benedetto XV è impresso nel Muro della Memoria accanto al Monumento al Genocidio di Erevan. Dagli archivi emerge anche che la diplomazia vaticana cercò di intervenire anche in Germania ed Austria, attraverso i rispettivi nunzi di stanza a Monaco e Vienna, esprimendo esplicite condanne dei massacri.
Tornando all’oggi, o comunque ad anni recenti, l’autrice rivela che la Turchia ha operato diversi tentativi di ingerenza nelle scelte vaticane, quando si è trattato di assumere posizioni ufficiali circa il genocidio armeno. Infatti leggiamo che i documenti studiati da Franca Giansoldati sono stati solo di recente catalogati e raccolti in una pubblicazione da un giovane gesuita belga, Georges-Henri Ruyssen, con il titolo La questione armena: tale lavoro avrebbe inizialmente dovuto esser dato alle stampe dalla Libreria Editrice Vaticana, ma “probabilmente per ragioni diplomatiche con la Turchia, è stata editata dalle Edizioni Orientalia Cristiana, una piccola casa editrice legata al Pontificio Istituto Orientale.” Secondo la giornalista, anche in occasione del viaggio di Papa Giovanni Paolo II, fu necessario attivare una lunga e faticosa trattativa diplomatica per la definizione dei discorsi ufficiali, ma infine il pontefice riuscì a far valere la propria volontà, senza urtare troppo la parte turca. Inoltre ci informa che ogni qualvolta “Civiltà Cattolica” pubblica articoli sulla questione armena, arrivano puntuali le lamentele dell’ambasciatore turco presso la Santa Sede.

 

 

IL GENOCIDIO INFINITO: 100 anni dopo il Metz Yeghérn
A cura di Martina Corgnati e Ugo Volli 
Guerini e Associati, Milano 2015

“Ogni genocidio è infinito”, afferma Ugo Volli nella Presentazione di questo lavoro basato sui contributi di otto intellettuali italiani che, con approfondimenti diversi, affrontano il tema del Grande Male armeno. Perché infinito? Perché le conseguenze di ciò che è stato si protraggono nel tempo, da una generazione all’altra. Ed è oltre modo senza fine, reiterato quando continua ad essere negato, quando è stato lungamente insabbiato, quando si cerca di sollevare dubbi pretestuosi sulla veridicità ed onestà di numerosissime fonti testimoniali e storiche che lo comprovano.
Gli autori riflettono sulle conseguenze del negazionismo turco, sulle dinamiche con cui questo continua ad essere supportato; analizzano il dolore psicologico causato dalla perpetuazione della memoria nei figli dei sopravvissuti e i sensi di colpa quando si vorrebbe che questa fosse rimossa; viene anche messo in luce un volto meno noto del genocidio: la sistematica distruzione dei segni culturali, dei monumenti, di opere d’arte, simboli della millenaria cultura armena. Anche questa è una modalità con cui il genocidio si è protratto nel corso del tempo, ben oltre il 1915, specie in Anatolia e nel Nachicevan.
In questo libro si guarda però anche alla storia più recente del conflitto per il Nagorno Karabakh e all’oggi: alla posizione dell’attuale Repubblica di Armenia, al difficile equilibrio che deve trovare, bilanciandosi efficacemente tra est e ovest al fine di garantirsi libertà e sopravvivenza sicure. Ed anche nell’odierno contesto politico, secondo Matteo Miele, “il Genocidio del 1915 […] è la pietra angolare, che condiziona gran parte della politica estera armena” a seconda che la giovane Repubblica debba rapportarsi con nazioni che hanno o non hanno riconosciuto il genocidio e che direttamente o implicitamente sostengano le posizioni di Ankara. Anche da questo punto di vista, quindi resta un genocidio “infinito.”

 

 

A CENT’ANNI DAL GENOCIDIO ARMENO La storia di una rinascita
AA.VV. Ed. SKIRA, Milano 2015

In occasione della mostra “Armenia. Il popolo dell’Arca” (Roma. Complesso del Vittoriano: 6 marzo 3 maggio 2015) è stato pubblicato questo accurato contributo che ci fornisce ulteriori conoscenze e spunti di riflessione sul “viaggio infinito”, per usare le parole dell’ambasciatore Ghazaryan, che ci conduce alla conoscenza dell’universo armeno. Vista la collocazione temporale, il tema del genocidio è dominante, ma affrontato dagli autori secondo prospettive diverse.
Il primo contributo di Marcello Flores ricostruisce sinteticamente le fasi del genocidio, dimostrando in modo inoppugnabile che questo fu pianificato accuratamente: in particolare fa riferimento alle due leggi del 27 maggio e 10 giugno 1915, che stabilivano deportazioni e confisca dei beni delle popolazioni armene dell’Anatolia orientale e della Cilicia. Tali provvedimenti dimostrano con chiarezza che si voleva prima annientarle e poi impossessarsi di tutti i loro beni.
Antonia Arslan, ricordandoci che “il genocidio armeno è uno dei frutti avvelenati del nazionalismo ottocentesco […], attecchito nell’Impero ottomano sotto le mentite spoglie di una lotta alla corruzione”, traccia “agghiaccianti parallelismi” tra il destino degli armeni nel 1915 e quello degli ebrei trent’anni dopo. Non solo, ma con lucido sgomento intravede “l’ombra lunga del 1915” negli attuali macabri rituali dell’Isis, che con tecnologie diverse, ma finalità analoghe, esibisce i trofei delle decapitazioni di tante vittime inermi ed innocenti.   
Pietro Kuciukian, convinto che la ricerca dei Giusti tra i turchi ottomani sia un’azione di importanza fondamentale in quanto “la memoria del bene può anche diventare un atto politico”, ci illustra diverse storie di funzionari governativi che all’epoca cercarono di salvare quanti più armeni poterono, disobbedendo agli ordini pervenuti dall’alto, e subendone gravi conseguenze in quanto “traditori”dello Stato.   
Piace poi constatare che un noto giornalista solitamente impegnato nell’attualità, come Gian Antonio Stella, sia rimasto profondamente colpito dalla figura di Armin Wegner, di cui traccia, con chiarezza e vivacità di penna, tutto il percorso esistenziale, di pacifista ed uomo Giusto. 
Infine, grazie ad Agop Manoukian, apprendiamo quale fu il contributo dato dall’Italia a sostegno delle vittime del genocidio, sia sul piano della diffusione delle notizie in tempo reale, sia negli anni seguenti, con l’assistenza ai sopravvissuti. Non solo il console Gorrini, come è ormai noto, fece sentire la sua voce di denuncia, ma intervennero anche altre figure di politici e diplomatici, dal mondo cattolico, a quello laico. Due nomi in particolare vengono ricordati: Filippo Meda e Luigi Luzzatti. Quest’ultimo si fece promotore, nel giugno 1918 dell’istituzione di un Comitato italiano per l’Indipendenza dell’Armenia. E per molti sarà probabilmente una rivelazione, sapere dell’apprezzamento e sostegno che all’epoca, un giovane Antonio Gramsci aveva dato alla diffusione del mensile “Armenia”, pubblicato dal 1915 al 1918 dalla diaspora in Italia.  
Un denominatore comune riunisce tutti questi interventi: la sofferenza psicologica, morale, causata dall’ostinato negazionismo turco. Negazionismo che non fa male solo agli armeni, ma anche ai turchi, come sostiene Baykar Sivazlyian, secondo il quale “le giovani generazioni di turchi, finchè questo negazionismo perdurerà, non potranno mai essere libere di guardare al futuro” in un’ottica di pace, democrazia e progresso.


SIRIA PERCHE' – lettere da Damasco
di Laura Mirakian
Prefazione di Antonia Arslan
Guerini e Associati, Milano 2015

L’autrice è stata dal 2000 al 2004 ambasciatore d’Italia in Siria. Di questa esperienza ci offre una memoria personale umanissima: brani tratti da lettere inviate alla famiglia, resa partecipe delle osservazioni, sensazioni, emozioni scaturite da incontri con gente comune e figure istituzionali, dalla partecipazione a grandi eventi, come a piccoli episodi di un quotidiano, non meno significativo. 
Alla maggior parte di queste lettere seguono delle Note riferite all’oggi, in cui si constata con amarezza e preoccupazione come molte situazioni siano radicalmente cambiate, spesso in senso negativo. Basti leggere le pagine relative all’incontro con Padre dall’Oglio a Mar Musa, il sacerdote “interprete di un Cristianesimo militante e aperto al dialogo” delle cui sorti non si sa nulla, da oltre un anno e per il quale Laura Mirakian si augura possano prevalere le ragioni della comunicazione e della carità, sulla violenza e l’estremismo più atroce.
Laura Mirakian ha origini armene, ed è al padre, sopravvissuto al genocidio, che dedica questo libro. Gli armeni di Siria sono il tema di più pagine. Il ruolo istituzionale le imporrebbe una sorta di asettico distacco: in una lettera li definisce “questo popolo”, evidenziandone la “grande dignità” è “l’ottima educazione”, ma in altre si abbandona senza riserve al “noi”, quando risuonano le note di Karum’a, ovvero La Primavera di Komitas, in memoria della primavera del 1915. In un breve scritto, datato 15 maggio 2001, chiude con parole che sembrano essere - al pari di quelle ormai notissime di Saroyan - un inno al suo popolo “Ce la siamo suonata in nostro onore, Karum’a, cattolici, ortodossi o agnostici, quelli che hanno fatto fortuna, nonostante tutto e contro ogni sfortuna, quelli che sono riusciti a resistere, quelli che hanno capito che per resistere occorreva mescolarsi agli altri, quelli che hanno fatto della flessibilità e della mediazione un’arte della sopravvivenza, quelli che trovano sostegno nella memoria.” 
Ed infine c’è, non dimentichiamolo, la sua visione della Siria, dove sente con stupore pronunciare correttamente il proprio cognome, immancabilmente storpiato altrove, dove ha “incrociato” la storia della sua famiglia. Una terra che presto l’affascina, per le luci, i colori, “il retroterra storico di notevole spessore”, una terra di cui apprezza il carattere, quasi fosse un unico essere vitale. “Questa Siria gentile, di sorrisi discreti, di sguardi fugaci, di voci soffuse […] questa Siria così sicura della sua storia e della sua cultura….”, di cui percepisce però, fin da allora le inquietudini, i timori per il futuro, negli occhi delle persone che incontra quotidianamente, e alle quali non sa dare risposte rassicuranti. Quello che può fare è auspicare che il popolo siriano sappia sempre trarre forza dalla propria storia millenaria e dal radicato senso del sacro poiché “sempre in questa terra vi è stata preghiera, invocazione, concentrazione, spiritualità.”

 

 

PRO ARMENIA
a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti
Prefazione di Antonia Arslan
Ed. Giuntina, Firenze 2015

Ci troviamo dinnanzi ad un testo di grande interesse storico e culturale: le voci di quattro autorevoli ebrei, che offrono le proprie testimonianze di prima mano sui massacri hamidiani e soprattutto sul genocidio armeno del 1015.
Due diplomatici, il statunitense Lewis Einstein di stanza in Turchia negli anni di ascesa al potere del Comitato Unione e Progresso, e Andrè (Andrej Nikolaevič) Mandelstam, russo naturalizzato francese, esperto in diritto internazionale e precursore della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo; Aaroon Aaronsohn, agronomo illustre e fondatore del gruppo spionistico N.I.L.I. che operava in Palestina di supporto alla Gran Bretagna durante la Prima Guerra Mondiale, e Raphael Lemkin, il giurista polacco, storicamente noto per aver coniato il termine “genocidio”nel 1944 ed aver dato un fondamentale contributo alla realizzazione della “Convenzione sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio”, approvata il 5 dicembre 1948 in seno alle Nazioni Unite. 
Quattro testimonianze con connotazioni specifiche, legate ad esperienze e sfere di interesse personali, ma che poggiano su un unico denominatore comune: la ferma convinzione che il genocidio sia stato deliberatamente progettato prima dello scoppio del conflitto mondiale e sia stato condotto con scientifica sistematicità dal Governo dei Giovani Turchi. Tutte le ipotesi di indiretta corresponsabilità da parte dei rivoluzionari armeni, che avrebbero provocato la reazione delle autorità, e la tesi negazionista secondo cui le violenze efferate a danno di donne, bambini e cittadini inermi, siano state opera di sbandati e il risultato di una situazione sfuggita di mano, vengono qui smontate punto dopo punto.
Inoltre tutti e quattro esaminano il difficile nodo del ruolo esercitato dall’alleato tedesco. Anche qui sono sostanzialmente concordi nel definirlo “testimone passivo”di un crimine di cui non poteva non conoscere ogni minimo particolare e cui non si è opposto, per ragioni di fredda opportunità politica, economica e strategica.
Dei quattro colpisce in particolare lo scritto di Aaronshon, per l’empatia, la partecipazione umana nei confronti della catastrofe armena: fu la sorella Sarah ad essere testimone oculare di orrendi massacri, di cui riferì, recandone conseguenze incancellabili sul piano emotivo e psicologico. Aaron paragona “la strage indiscriminata degli armeni” alla “strage indiscriminata degli ebrei ordinata dal generale romano Tito”, entrambe frutto di “un disegno del governo”. Quasi presentisse quanto di li a trent’anni sarebbe accaduto al suo popolo.

 

 

PRESENZA ARMENA IN ITALIA 1915-2000
di Agop Manoukian
Guerini e Associati, Milano 2014

La storia della diaspora armena in Italia viene qui narrata, documentata ed analizzata, con ampia dovizia di particolari. Siamo dinnanzi ad una “microstoria” piuttosto articolata e complessa, nonostante gli esigui numeri che contraddistinguono la presenza armena in Italia, specie se rapportati ad altre realtà occidentali, Francia e Stati Uniti, per primi. Ciò che salta agli occhi è quanto attivi siano stati gli armeni stabilitisi in Italia, nel corso degli anni, sul piano associativo, culturale e nel perseguire l’obiettivo di continuare a trasmettere lingua e tradizioni alle nuove generazioni.
Integrazione e conservazione sono sempre state le basi complementari su cui si sono rette nei decenni le realtà di Roma, Milano, Venezia e di tanti altri centri, disseminati nella penisola. Un mosaico che - come osserva l’autore - ha subito inevitabili metamorfosi, con momenti di difficoltà, ma che non è privo di una intrinseca potenzialità. Egli infatti auspica che gli armeni della diaspora siano in grado di “offrire suggerimenti” a chi “voglia costruire ponti e creare dialoghi”, non solo in Italia, ma anche a livello europeo e con un Medio Oriente – da cui molti originariamente provengono – “pervaso da sempre più inquietanti contraddizioni.”

 


SOTTO UN CIELO INDIFFERENTE
di Vasken Berberian
Sperling& Kupfer S.p.A. 2013

Un romanzo avvincente, in cui i protagonisti conducono il lettore attraverso ambienti e momenti storici differenti, ma indissolubilmente legati.
Un campo profughi in Grecia, ove sono approdati sopravvissuti al genocidio armeno: povere, disperate esistenze, in cui l’amore, la felicità e la vita stessa sono una quotidiana, ardua conquista; Venezia con il mitico Collegio Moorat Raphael, dove generazioni di giovani armeni provenienti da diversi paesi della diaspora, sono cresciuti culturalmente, psicologicamente, moralmente, e dove hanno costruito relazioni affettive ed amicizie durate una vita; la neonata Repubblica Sovietica d’Armenia dove tanti armeni superstiti al Medz Yeghern si erano illusi di trovare una nuova madre patria, imbattendosi invece non solo nella fredda accoglienza di un popolo che non si è dimostrato fratello, ma nel buio del terrore staliniano; gli orrori del gulag, dove si finisce senza un perché ed in cui l’individuo viene disumanizzato, con freddo calcolo; la “dorata” diaspora statunitense, in cui alcuni, più forti, fortunati e determinati hanno costruito prestigio, successo e ricchezza, cercando di cancellare, in un illusorio oblio, un passato che inesorabilmente viene a galla.
Il filo conduttore è la storia di una famiglia, che sembrava frantumata per sempre, senza rimedio, ma che poi si ricompone, quasi per miracolo. Del resto, di simili “miracoli” è disseminata la tortuosa e ramificata strada della diaspora armena. “Diaspora” ovvero “dispersione”: ed è quanto hanno vissuto i superstiti della famiglia Gazarian, che dopo essersi lungamente perduti, hanno ritrovato una forma di unione e pace interiore.

 

 

IL CALENDARIO DELL'AVVENTO
di Antonia Arslan
Ed. Piemme, Milano 2013    

Ricordi d’infanzia, ora struggenti, ora pieni di aneddoti che strappano il sorriso, ritratti di tante persone care – come i nonni – che ci appaiono quali pietre miliari nella crescita della bambina; ricordi più recenti, spesso legati a New York, quasi una seconda casa, di cui scopriamo un volto inedito, che sfugge al grande pubblico, solitamente imbevuto di triti stereotipi.
In questa carrellata di storie e memorie, in cui poesia, humour, saggia nostalgia si alternano e fondono armonicamente, non poteva mancare l’Armenia: a cominciare da quel “volonteroso disegno della Masseria delle Allodole” conservato nel prezioso salottino orientale di nonno Yerwant. Le radici armene si mostrano lontane e ben salde, alimentate dalle celebrazioni pasquali a S. Lazzaro, dagli incontri con i tanti parenti disseminati nel vasto mondo che approdavano abitualmente a Padova, trovandovi sempre calorosa accoglienza.
In questa raccolta troviamo anche storie interamente armene, come quelle delle due sorelline che, pur di aver salva la vita e preservare quella della loro mamma, nel 1915 sanno prendere una decisione adulta e definitiva, quale quella di rinunciare alla propria identità, entrando nel novero di quei “resti della spada” che continueranno a celarsi sotto un altro nome ed un’altra fede.
Ma uno stupore speciale scaturisce dalla figura di Katerina, metà greca e metà armena, sopravvissuta all’incendio di Smirne. Un incontro che lasciò certamente un segno indelebile nella giovanissima Antonia e che immaginiamo sia stato fonte di futura ispirazione creativa.
Con questo Calendario dell’Avvento, Antonia Arslan ci accompagna nei giorni dell’attesa che precedono in Natale, offrendoci un dono prezioso, in cui ogni singola immagine, ogni parola, sono pensate ed espresse con amore, divenendo fonte di riflessione e serenità.

 


LA TRAGEDIA DI SUMGAIT
di Samuel Shahmuradian
Guerini e Associati , Milano 2013

La popolazione di Sumgait, squallida e malsana città ad una trentina di kilometri da Baku, è piombata in un cupo terrore il 27, 28, 29 febbraio del 1988, quando sulla minoranza armena che vi risiedeva da generazioni, si è scatenata una furia distruttiva, con obiettivi genocidari, messa in atto da bande armate di giovani azeri, che si erano lasciati facilmente sobillare da esperti manipolatori.
Ragione scatenante: le rivendicazioni espresse pochi giorni innanzi dal Nagorno Karabagh, enclave armena in territorio azero, che, facendo appello al diritto all’autodeterminazione dei popoli e sull’onda dell’ottimismo infuso dalla perestrojka (lett. ricostruzione), chiedeva la riunificazione con l’Armenia.
A Sumgait convivevano azeri, armeni e russi, condividendo le condizioni di vita e il sistema che il regime sovietico imponeva loro. Lo stesso che in bella sostanza era riservato ad ogni cittadino dell’URSS, da Leningrado a Rostov sul Don, da Soči a Bukhara. Quindici repubbliche ed oltre un centinaio di etnie erano riunite in un unico vincolo, rette fino ad allora con mano ferma e con il reiterato ricorso all’onnipresente slogan dell’”Amicizia tra i popoli”. I buoni cittadini sovietici cercavano di crederci il più possibile e comunque di restare ancorati alla fiducia nei confronti del Partito e dello Stato: la loro Patria Comunista. I giovani erano membri del Komsomol (Gioventù Comunista), fossero essi azeri, armeni, russi, ucraini o georgiani.
La milizia era onnipresente, in ogni angolo di strada, stazione della metropolitana, all’ingresso degli edifici pubblici o dei grandi alberghi: spauracchio per qualsivoglia malintenzionato (dal punto di vista del regime), ma anche garanzia di protezione dagli attacchi di eventuali teppisti, ladri o ubriaconi, molestatori di giovani donne e della quiete pubblica. Che una massa di individui armati di coltelli, spranghe e pistole potesse impunemente distruggere abitazioni, violentare, uccidere con metodi che hanno improvvisamente fatto ripiombare gli armeni agli orrori del 1915, era inconcepibile in Unione Sovietica, per chiunque. Una milizia che non muove un dito ed in taluni momenti fugge a gambe levate davanti alla furia omicida, non s’era mai vista in settant’anni di regime sovietico. E che dire dell’inspiegabile ritardo con cui la gloriosa Armata Rossa è intervenuta? Le ambulanze in URSS arrivavano in genere rapidamente: giravano rassicuranti per le strade, pronte a rispondere alle chiamate trasmesse loro dalla centrale operativa. Nel caso di tanti armeni di Sumgait, che in quei maledetti giorni imploravano aiuto, non c’è stata il più delle volte risposta o il soccorso è stato loro negato.
Se nel 1915 gli armeni, la “Nazione fedele”nell’Impero ottomano, stentarono a dar credito alle voci che li avrebbero indotti a fuggire precipitosamente verso la salvezza, nel caso degli abitanti armeni di Sumgait, era ancora maggiore la convinzione che nulla di male sarebbe loro accaduto perché il Partito e le autorità non lo avrebbero permesso. Quindi i primi segnali di tensione e le minacce che iniziarono a serpeggiare in città, vennero dai più sottovalutati.
Il trauma fu generale: un trauma non solo per le vittime designate, che come nel 1915, si sono viste in poche ore distruggere le loro esistenze per sempre, ma anche per tanti onesti e semplici cittadini azeri che assistevano attoniti, terrorizzati e pieni di vergogna a quanto altri azeri andavano compiendo. Le testimonianze raccolte in questo libro narrano, passo dopo passo, l’orrore della cronaca. Sono principalmente i sopravvissuti a parlare e nei loro racconti non mancano anche i grazie a quegli “azeri buoni” e “giusti” che, pur rischiando la vita e l’incolumità dei propri cari, hanno cercato di sottrarre gli armeni alla furia dei loro assalitori.
Ad arricchire l’opera troviamo gli importanti contributi di Pietro Kuciukian, Rouben Karapetian, Bernard Kouchner ed Elena Bonner Sacharov.

 

 

CANCELLARE UN POPOLO
Immagini e documenti del genocidio armeno
di Benedetta Guerzoni
Mimesis Ed. , Milano-Udine 2013

Il titolo di questo ampio, complesso e specialistico lavoro, ne spiega implicitamente l’obiettivo: aggiungere ulteriori prove a quelle già ampiamente diffuse, sulla veridicità della tesi secondo cui durante la Prima Guerra Mondiale in Anatolia si consumò, per decisione del Governo ottomano, il genocidio della minoranza armena ivi residente da oltre duemila anni.
Per far ciò Benedetta Guerzoni svolge uno studio molto rigoroso su illustrazioni e foto relative ai massacri hamidiani e al genocidio in particolare. Si tratta di un corpus di 350 immagini, soprattutto foto, la cui raccolta ed analisi si sono rivelate complesse per diverse ragioni. La ricercatrice sottolinea quanto sia stato dannoso per una accurata conservazione di tale materiale, l’oblio che molte nazioni occidentali hanno volutamente fatto calare sulla vicenda armena nei decenni successivi al conflitto. Inoltre è incappata in catalogazioni e datazioni approssimative, talora contraddittorie, laddove mancavano gli originali e la stessa foto veniva riprodotta in pubblicazioni differenti. Si tratta comunque di lastre e materiali ovviamente datati, e usurati nel tempo.
Nel metter ordine a questo ingente patrimonio raccolto, l’autrice riflette sullo scopo che tali foto ed immagini hanno assunto nel momento in cui sono state diffuse e pubblicate.
Per le autorità ottomane fungevano da monito alla popolazione, per scoraggiarne velleità di protesta o ribellione; per le potenze occidentali furono usate, fintanto che lo ritennero utile, come propaganda antiottomana; per la diaspora vennero principalmente impiegate come strumento di denuncia degli orrori del Grande Male e, come forma di riconoscimento del bene ricevuto da organismi umanitari statunitensi e occidentali, intervenuti in soccorso delle popolazioni martoriate e dei sopravvissuti. Tuttavia, a proposito dell’uso fattone da parte della diaspora armena, Benedetta Guerzoni, tocca un tasto piuttosto spinoso. Constata che la diaspora ha avuto la tendenza ad attribuire alle foto una funzione di simbolo, di icona del genocidio, non prestando particolare attenzione alla precisa attribuzione di date, luoghi, persone. Insiste pertanto sulla necessità di far sì che tutte queste foto possano esser lette come documenti che testimoniano fatti precisi. In tal modo si evita che la vaghezza venga sfruttata dai negazionisti, abili nel farne oggetto di scherno e smentita. Sicuramente questo lavoro è un contributo alla conservazione della memoria e alla diffusione della verità storica del genocidio. 
In fine non abbiamo tra le mani una mera analisi tecnica svolta da una specialista nel settore, ma il testo è arricchito da molti dati storici, ampie note esplicative e si basa su una vasta documentazione bibliografica.

 

 

IL LUNGO INVERNO DI SPITAK
di Mario Massimo Simonelli
Emi’s World Casa Editrice, Saint Vincent (AO) 2012

Il 7 dicembre 1988, alle 11.41 ora locale (07.41 ora di Greenwich), un violentissimo terremoto di intensità 9 della scala Mercalli, magnitudo 6,9 della scala Richter, colpisce una vasta area dell’Armenia settentrionale. L’entità del disastro, in termine di perdite in vite umane e di distruzione di edifici e strutture civili, appare subito molto ingente, nonostante la proverbiale reticenza ed approssimazione delle fonti sovietiche, che nelle primissime ore non vogliono diffondere notizie troppo allarmanti.
In pochi giorni le proporzioni della sciagura sono tali che la sia pur grande potenza sovietica non appare in grado di fronteggiarla da sola e si mette pertanto in moto la macchina degli aiuti internazionali.
Mario Massimo Simonelli, architetto trentenne impiegato da circa due anni al Dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri, si offre di partire al seguito della missione umanitaria che sta per essere inviata nelle zone terremotate. Il suo diretto superiore, vinte le iniziali perplessità dinnanzi al giovanile entusiasmo e all’inesperienza nel settore, acconsente e Simonelli è già in volo per Erevan il giorno seguente.
Ha così inizio un’esperienza non solo professionale, ma anche umana e culturale che lascerà un solco incancellabile. Il Villaggio Italia di Spitak, uno dei centri maggiormente colpiti dal sisma, è sostanzialmente opera del giovane architetto, che lo progettò e realizzò, affiancato da operatori italiani e locali con cui costruirà solidi e duraturi legami di amicizia.
Questo suo racconto non ci offre solo una cronaca degli eventi e di come egli si trovò ad operare nei lunghi mesi di un durissimo inverno, ma raccoglie una miriade di incontri, taluni straordinari come quello con Madre Teresa di Calcutta, altri, non meno significativi con gente del posto; episodi in cui viene alla luce il carattere del popolo armeno, la sua tenacia, lo spirito di ospitalità, anche nelle condizioni più difficili.
Durante questa permanenza il professionista italiano sente anche l’esigenza di informarsi sulla storia e la cultura del popolo armeno, con un’apertura che va ben oltre quelli che potrebbero essere gli interessi di un tecnico impegnato a risolvere grossi problemi logistici. E gli armeni questo lo capiscono e lo apprezzano, sentono che “Massimoian” è uno di loro, un vero amico, non solo un validissimo operatore umanitario. Ed il sentimento è reciproco. Il legame resta, dopo tanti anni, durante i quali Simonelli non è più tornato in Armenia, ed ha continuato a svolgere il proprio lavoro laddove le emergenze umanitarie lo hanno condotto.



Il LIBRO DI MUSH
di Antonia Arslan
Ed. Skira, Ginevra-Milano, 2012

L’Omilario di Mush, datato 1202, è il più grande manoscritto miniato armeno esistente, e fu miracolosamente salvato dalla ottusa rabbia distruttrice dei fautori del genocidio.
Talora si dimentica che un progetto genocidario non prevede solo la sistematica soppressione degli individui che costituiscono il popolo reietto del momento, ma anche la cancellazione di una cultura, con i suoi tesori artistici, letterari, architettonici; nel caso armeno, questi erano di straordinario valore, per raffinatezza, sapienza creativa e originalità. Si pensi ai khatchkar, merletti forgiati nella pietra, alle “chiese di cristallo”, che hanno resistito agli assedi di tanti devastanti terremoti, e quando sono crollate è stato per mano dell’uomo, e ai codici miniati, frutto della sapiente e saggia opera dei monaci che, chiusi nei loro scriptoria, hanno perpetuato una scrittura ed una lingua armoniosamente intricate. La maggior parte di questo patrimonio presente nell’Anatolia orientale prima del 1915, è stato scientemente distrutto e vilipeso, ma non Il Libro di Mush, di cui Antonia Arslan ci narra l’epico salvataggio ad opera di due eroiche donne armene, che, dopo esser state barbaramente mutilate negli affetti terreni, hanno fatto della sopravvivenza del libro sacro una ragione di vita; dopo un lungo ed insidioso peregrinare, il Libro viene consegnato in mani sicure, affinché sopravviva, patrimonio di tutti gli armeni.
La narrazione romanzata di questa vicenda, scandita in ventitrè piccoli capitoli, coinvolge emotivamente, affettivamente il lettore: i personaggi sono palpabili, visibili, ispirano empatia. Ogni frase, ogni immagine, ogni aggettivo sono scelti con cura ed efficacia straordinari, valorizzando le potenzialità espressive della nostra lingua italiana. Il poetico fluire del racconto si armonizza con alcune fondamentali informazioni storiche, fornite al lettore al momento giusto, senza alcun stacco dal ritmo narrativo.
Quest’opera, piccola ed elegante nella configurazione datale dall’editore (perfetta la scelta della sovracopertina con una Karahunge sotto un evocativo cielo plumbeo, fotografata da Graziella Vigo), è grande nel valore intrinseco che assume: è un omaggio alla cultura armena, a coloro che hanno lottato nei secoli affinché questa si perpetuasse ed è un dono e un messaggio agli armeni “sparsi nel vasto mondo”, affinché continuino a proteggere e ad accrescere un patrimonio culturale ed una identità irripetibili ed irrinunciabili. Dopo La Masseria delle allodole e La Strada di Smirne, questo breve, intenso romanzo, contribuisce a mantener viva l’attenzione sulle vicende del genocidio, sulla forza e sul coraggio delle donne armene, sul ruolo di tanti umili eroi ed eroine che, come i greci Eleni e Makarios, donando le loro vite per la salvezza degli armeni, possono esser ricordati come giusti, per sempre.

 

 

ARARAT: la montagna del mistero
di Paolo Cossi
Hazard Edizioni, Milano 2011

Paolo Cossi ritorna ad esplorare l’universo armeno attraverso uno straordinario personaggio, Azad Vartanian, alpinista, archeologo, uomo dal grande coraggio e di profonda fede religiosa. Nome non casuale il suo, se si pensa che Azad significa libero in lingua armena, e Vartanian ci rammenta l’eroe Vartan Mamikonian, che nel 451 divenne uno dei pilastri dell’armenità. Azad ha un obiettivo: scalare l’Ararat alla ricerca dell’Arca, o meglio di quanto è convinto che ancora resti, preservato dai ghiacci, della biblica nave. Parte, forte di una serie di documenti raccolti negli anni, e tutti coincidenti nell’avvalorare le teorie secondo cui Mosè si arenò proprio in terra d’Armenia, dopo il Diluvio.
La rischiosa ricerca conduce Azad a pochi passi dalla meta finale, e pertanto dalla comprova della sua teoria. La sua impresa non risulta però fallita, solo non del tutto completata; anzi, è stata fonte di inattese scoperte: mentre si trova in quell’aspro estremo limite del territorio turco, Azad ha modo di conoscere da vicino la popolazione curda, con la sua cultura e la difficile esistenza in un Stato che non concede spazio alle minoranze. Non solo, ma è proprio un semplice, saggio pastore curdo che lo conduce a vedere ciò che resta delle popolazioni armene falciate dal genocidio del 1915: ruderi di villaggi e chiese, appena riconoscibili e innumerevoli ossa insepolte. In quelle lande fantasma sopravvivono solo alcuni khatchkar, tra i più essenziali ed antichi, inequivocabili testimoni del passato.
Anche questo, come il precedente fumetto dedicato al Metz Yeghern, si distingue per la profondità nella ricerca, per la sensibilità espressiva e per i numerosi spunti narrativi, che accendono la curiosità del lettore, che sarà spronato ad ulteriori approfondimenti.
Quest’opera è stata insignita del premio “Fede a strisce. Fumetto cristiano” in occasione del Festival Cartoon Club di Rimini, il 20 luglio 2012.

 

 

LA MEMORIA DEL VENTO
di Mark T. Mustian
Ed. Piemme, Milano 2011

La memoria del genocidio armeno non, come solitamente accade, da parte delle vittime, ma vissuta da uno dei responsabili, uno di quei giovanissimi gendarmi turchi, mandati ad eseguire ciecamente ordini impartiti dall’alto.
Una memoria lungamente cancellata, rimossa, perché troppo dolorosamente colpevole e che riemerge, dopo parecchi decenni, prima con sporadici, incomprensibili flash, poi sempre più martellante, attraverso sogni-incubi, troppo reali per essere pura dimensione onirica o meri effetti collaterali derivati, come sostengono i medici, dalla massiccia terapia farmacologia cui viene sottoposto il protagonista.
Emmet Conn, cittadino statunitense di novantadue anni, vedovo di un’americana, due figlie,Violet e Lisette, un nipote, in realtà si chiamava Ahmet Khan, ma in un’altra vita, ormai sepolta nella lontana terra turca. Finito per un fortuito errore in un ospedale militare inglese con un grave trauma cranico, viene salvato e curato da una biondissima, dolce, ma decisa infermiera americana, che dopo la guerra lo porta con sé nel proprio Paese e se lo sposa. Qui inizia la nuova vita di Emmet: una vita difficile, ma in continua progressiva ascesa, lasciandosi alle spalle un’enorme voragine vuota, che non riesce o non vuole colmare.
Quando ormai la sua vita terrena sta volgendo alla fine, il passato si ripresenta sempre più nitido: il vento gelido che trasporta l’acre odore degli incendi, dei cadaveri, del sangue; grida, occhi e mani imploranti pietà, bambini, tanti bambini trucidati, scene di oscena violenza: Ma si ripresenta anche un’esile e leggiadra figura, due occhi enigmatici ed ipnotici: Araxie, la giovanissima, misteriosa deportata di cui Ahmet si innamora perdutamente e che cerca di salvare ad ogni costo, a qualunque prezzo. Con l’emergere sempre più definito del ricordo, cresce il bisogno di verità, di documentarsi storicamente da parte di Emmet-Ahmet, e con esso un accresciuto, consapevole senso di colpa, un’incapacità di perdonare se stesso, per esser stato allora così ottusamente convinto di stare dalla parte giusta. Sapere se almeno lei, Araxie si è salvata, diventa un ossessivo ultimo obiettivo, e miracolosamente ci riesce. Ne incontra la nipote, impressionante ritratto della nonna la quale “diceva di aver perdonato tutti […] non nutriva rancore verso i turchi, né verso Dio. Aveva visto troppe cose” e poi riteneva di aver anche lei bisogno di esser perdonata, per un antico segreto.
Con questo messaggio ed un’ultima verità sul proprio passato, Ahmet-Emmet deve accomiatarsi da tutti, ma con ancora tanti interrogativi irrisolti, per sempre.

 

 

II LIBRO DEI SUSSURRI
di Varujan Vosganian
Keller editore, Rovereto (TN), 2011

La comunità armena di Romania ha radici lontane e solide. Con orgoglio l’autore di questa massiccia opera ci ricorda che nei pressi di Suceava sorge il monastero armeno di Hacighadar, dedicato alla Vergine, tra i primi costruiti in Europa, intorno al 1512.
Ma è soprattutto sugli armeni di Focşani che Varujan Vosganian si sofferma, sui ricordi d’infanzia e su quell’universo unico e irripetibile costituito dal luogo natale, con la sua grande famiglia, in cui troneggiano le figure dei nonni, paterno e materno, così diverse, eppur complementari, nella formazione del futuro statista e scrittore.
Ricordi di personaggi leggendari e reali, ricordi di aromi intensi, di antichi sapori, di suoni, di bagliori; ricordi di voci, quasi impercettibili, come un sussurro. Perché per Vosganian gli armeni delle sue radici hanno sempre comunicato tra loro sussurrando? E perché un interrogativo, negli anni ha continuato a reiterarsi, come un’eco:”E ora, cosa accadrà?” Anche in Romania gli armeni si son portati dietro la paura, il senso di incertezza, di precarietà, ma nel contempo han conservato anche la caparbia voglia di lottare per conservare la propria cultura. Le loro esistenze hanno fronteggiato poteri avversi: dopo che i bisnonni erano sopravvissuti alla Catastrofe ordita dai Giovani Turchi, i nonni han dovuto guardarsi dagli uomini con i cappotti di pelle, che di notte irrompevano nelle abitazioni per portar via i “nemici del popolo”, facendoli sparire per sempre. Tra questi, incontriamo anche un ancora sconosciuto “ometto mingherlino e basso”, di nome Ceauşescu, dal pugno micidiale, e capace di dirigere il massacro di un intero villaggio, con pochi, secchi gesti di una mano.
Il libro dei sussurri è molte cose assieme: storia di un popolo, storia di una grande famiglia, epopea di una comunità, una comunità di vinti, più che di vincitori, ma poco conta, perché, come diceva nonno Gardapet, “Raramente colui che sembra aver vinto è il vincitore autentico. La storia l’hanno fatta i vinti, non i vincitori”; è anche analisi interiore di colui che scrivendo, dice di farsi portavoce di altri, ma che esprime così la propria armenità, come un valore irrinunciabile.

 

 

TERRA RIBELLE Viaggio tra i dimenticati della storia turca
di Christopher de Bellague
EDT Editore, Torino 2011

Rivedere radicalmente le proprie posizioni, dopo anni di innamoramento per un mondo ed una cultura di cui si sono visti solo gli aspetti fascinosi e positivi, ignorandone il sommerso, governato dai poteri forti, è un’operazione psicologicamente, culturalmente e politicamente coraggiosa. Questo è quanto Christopher de Bellague ha saputo fare: origini britanniche, studi specialistici in lingue orientali a Cambridge, corrispondente per l’Economist in Turchia, di cui padroneggia perfettamente la lingua, negli anni ’90 ha scelto Ankara e soprattutto Istanbul come residenze abituali ed ideali, sentendosi parte di questo mondo, nonchè entusiasta studioso e divulgatore delle teorie kemaliste.
La brusca svolta, una sorta di risveglio interiore, avviene a seguito di una severa stroncatura che un suo articolo subisce da parte di James Russel, professore di studi armeni ad Harvard. Nel suo articolo de Bellague, celebrando i meriti di Kemal Atatürk, minimizzava e distorceva in modo grossolano le vicende connesse al genocidio armeno, prestando il fianco al negazionismo turco in materia. L’accademico statunitense non solo sottolinea l’ignoranza storica del giovane giornalista britannico, ma lo accusa anche di aver contribuito a diffondere le menzogne secondo cui gli armeni, “popolo ribelle” erano insorti contro il governo e morti a causa di non ben precisate deportazioni e massacri.
A partire da questo momento de Bellague inizia una lunga appassionata e coinvolgente ricerca, fatta non solo di studi documentali che attingono a fonti sia armene che turche, ma viaggia nella Turchia più remota e sconosciuta, dove scopre un mondo fino ad allora celato ai suoi occhi, quello dei “dimenticati della storia turca.” Non più la sfavillante ed emancipata Istanbul, ma Varto, remota cittadina nel cuore dell’Anatolia, diviene per alcuni anni la sua nuova casa. Qui si trova ad essere l’unico visibilissimo e molto controllato ospite straniero, e da questo nuovo punto di osservazione impara a conoscere tante storie di armeni nascosti, ma anche di curdi e di aleviti, genti molto diverse tra loro, ma accomunate dal bisogno di conservare la propria identità culturale e linguistica. Incontra molti curdi ed aleviti, di cui studia la storia, passata e recente, e i complessi rapporti con i turchi.
Il genocidio armeno diviene uno dei punti nodali della sua ricerca, che lo condurrà fino alla valle di Newala Ask, “un luogo, si dice, dove la terra è rimasta grigia come la cenere a causa delle ossa dei morti.” Di Hrant Dink, che per uno sfortunato gioco del destino non riesce ad incontrare, dice: “Mi piaceva quell’uomo. Mi piaceva la sua piccola, angusta redazione, che era al centro del mondo armeno e al tempo stesso anche l’estremo opposto. E provavo un forte imbarazzo per lo stato turco e la sua legione di tarchiati difensori, che lo definiva una minaccia.”
Infine, non casualmente, ultimo capitolo ed ultima tappa di questo lungo viaggio nella ricerca della verità, lo troviamo a Erevan, ove la storia di un’antica cintura lo cala profondamente nel senso di perdita che gli armeni continuano a provare.

 


ARMENIA
di Gilbert Sinoué
Ed. Neri Pozza, Vicenza 2011

“Questo romanzo è una storia vera. I fatti principali che vi sono narrati sono verificabili.”

Questa Avvertenza che viene data al lettore prima che abbia inizio una narrazione serrata, cronologicamente conseguente, con rapidi ed efficacissimi cambi di scena – Costantinopoli, Aleppo, la placida e poi lugubre campagna attorno ad Erzurum, il nulla del deserto, l’Ambasciata statunitense, le sale del potere ottomane – non è affatto casuale. Ci troviamo qui dinnanzi ad un romanzo sul genocidio armeno in cui si fondono magistralmente fatti storici, tutti ampiamente documentati, e creatività letteraria. I leader politici, i diplomatici, i militari d’alto grado che vi incontriamo sono tutti realmente esistiti e i ritratti che ne fa l’autore rispecchiano quanto storici e testimoni del tempo ci hanno trasmesso. Nel contempo, le pennellate con cui vengono descritti sono quelle di un consumato artista.   Nata dalla fantasia di Gilbert Sinoué è invece la famiglia Tomassian: il patriarca Vahe, il mite e saggio Ashod, con la moglie Anna, ai suoi occhi “la più bella delle creature”e degna dei versi di Sayat Nova, i loro figli: il piccolo, turbolento Aram, e Shushan, un fiore in procinto di sbocciare, ed ancora incerta se restare ancora per un po’ racchiusa in un rassicurante bozzolo fanciullesco od aprirsi alla vita e all’amore. Tutti, tranne Aram, verranno stritolati dal “ragno con le zanne di sciacallo”, ognuno in modo diverso, ma altrettanto atroce ed immondo, quasi a riassumere, in un unico microcosmo, quegli armeni che, come scrisse Armin Wegner, “morirono di tutte le morti della terra, le morti di tutti i secoli.”
Tra le figure storicamente esistite compaiono anche il poeta Varujan, di cui l’autore immagina l’arresto in quell’indelebile 24 aprile, i giorni di vuota attesa verso un destino già da altri pianificato, e la fucilazione in un luogo remoto, “da qualche parte in Anatolia”; la missionaria danese Karen Jeppe, energica, coraggiosa ed appassionata nella sua lotta per cercar di salvare, curare e proteggere gli armeni perseguitati; Soghomon Tehlirian, prima giovanissimo studente, quindi lungo le marce della deportazione, ed infine determinato vendicatore, quando nel 1921 scova ed uccide Talaat Pasha, rifugiatosi a Berlino sotto mentite spoglie.  
Ed infine, tra le figure di fantasia, non poteva mancare un “turco buono”, un “uomo giusto”, lo zabtieh Asim, sincero amico di famiglia, che paga con la vita il tradimento verso le autorità che egli stesso rappresentava, per aver tentato, fino all’ultimo di salvare i Tomassian, ben sapendo che con questa scelta avrebbe quasi sicuramente firmato la propria condanna a morte. 

 

 

LE RAGIONI DEL KARABAKH Storia di una piccola terra e di un piccolo popolo
di Emanuele Aliprandi
&My Book Ed. Vasto (CH), 2010

Non è affatto facile districarsi all’interno dell’ingarbugliata matassa creatasi all’interno della questione karabakha, ma questo lavoro così ricco di informazioni e riferimenti documentali, chiarisce certamente molte delle problematiche che stanno all’origine di un conflitto iniziato nel 1988 e conclusosi nel 1994 con un armistizio; conflitto che ha visto fronteggiarsi l’Azerbaigian (di etnia turca) e il Nagorno Karabakh (enclave armena in territorio azero), in cui quest’ultimo ha rivendicato ed infine ottenuto l’autodeterminazione e l’indipendenza dal dominio azero.
Ma le ragioni che stanno all’origine di questi eventi partono da lontano, ed Emanuele Aliprandi cerca di farceli ripercorrere, passo dopo passo. Partono dal Karabakh antico, un piccolo angolo di Caucaso in cui si registrano insediamenti armeni in epoca precristiana, in cui Mesrop Mashtots fondò, ad Amaras, la prima scuola di lingua; una terra che con la denominazione armena di Artsakh, continuerà ad essere individuata come abitata dal popolo armeno anche durante le dominazioni persiana, arba, selgiuchida, tartara e mongola. Le popolazioni armene residenti in questo territorio non hanno mai storicamente cessato di lottare per la propria autodeterminazione, se non politica, almeno culturale e religiosa, con esiti diversi, a seconda dei momenti, sino a giungere agli inizi dell’Ottocento, quando il territorio karabakho fu annesso all’Impero russo. Una volta che questo è divenuto parte dell’URSS, negli anni ’20 si registrano reiterate richieste autonomiste da parte del Nagorno Karabakh, ma Stalin si dimostra sordo a tali appelli, per ragioni interne – la sua politica di russificazione delle varie repubbliche è cosa nota – e di politica estera, visti gli interessi ad instaurare proficui rapporti con la nascente repubblica turca forgiata da Kemal Atatürk.
Una situazione che ha continuato a trascinarsi negli anni, sino alla disgregazione dell’Unione Sovietica, momento in cui nulla e nessuno riescono ad impedire che quelli che erano stati scontri locali di diversa entità, sfocino in un conflitto armato vero e proprio. Di questo ci viene qui fornita una cronaca dettagliata, nelle sue diverse fasi. Ci vengono anche elencate le cause che hanno fino ad oggi impedito la firma di un trattato di pace, tanto necessario per le diverse parti coinvolte: fragilissimi equilibri politici, interessi economici legati al greggio azero, “eterni”giochi di potere, fanno attendere non solo la stabilità data dalla pace, ma anche il riconoscimento internazionale dell’auto proclamata Repubblica del Nagorno Karabakh.
A conclusione, un interessante capitolo su questa giovane repubblica: forma di governo, partiti politici, istituzioni, luoghi di interesse storico, artistico, culturale e dati statistici.

 

 

DIARIO 1913 – 1916 Le memorie dell’ambasciatore americano a Costantinopoli negli anni dello sterminio degli armeni
di Henry Morgenthau
Ed. Guerini e Associati, Milano 2010

Ebreo, nato in Germania, ma emigrato giovanissimo negli Stati Uniti, di cui si sente parte integrante a tutti gli effetti, Henry Morgenthau, rinuncia ad una promettente carriera di avvocato per dedicarsi, nel 1912 al sostegno della candidatura presidenziale del democratico Woodrow Wilson. Questi, una volta eletto, avvia il suo valente collaboratore alla carriera diplomatica, spedendolo però nell’insidioso terreno di un impero ottomano in sfacelo, con una guerra alle porte, e dove dal 1908 detiene di fatto il potere il Comitato per l’Unione e il Progresso, meglio noto come il partito dei Giovani Turchi, che, Morgenthau non esiterà a definire “una banda di pirati, di ganster irresponsabili”, interessati solo al potere e al tornaconto personale.
Quando, con moderato entusiasmo, ma animato da un profondo senso del dovere e di obbedienza nei confronti del proprio presidente, Morgenthau parte alla volta di Costantinopoli, non immagina certo quanto questa manciata di anni sarà un’esperienza fondamentale, non solo sul piano politico e professionale, ma anche, e soprattutto umano. Si trova infatti non solo ad assistere alle complesse manovre diplomatiche e ai retroscena che sottendono gli inizi del primo conflitto mondiale, ma è testimone del genocidio del popolo armeno, che egli definì “il più terribile episodio della storia del mondo.”   
I suoi diari sono una testimonianza in diretta, circostanziata, supportata da fonti più che attendibili di altri autorevoli occidentali presenti sul territorio. Morgenthau non solo denuncia tempestivamente le stragi al Dipartimento di Stato del proprio Paese, ma - oltrepassando le prosaiche e meschine questioni di realpolitik – mette in atto quanto è in suo potere per cercare di fermare lo sterminio. Incontra ripetutamente Talaat ed Enver, che aveva imparato a conoscere bene e di cui si era guadagnato stima e rispetto: prova ad usare le argomentazioni più diverse, ma è tutto inutile. Cozza contro un muro fatto di ottusa crudeltà e di una paranoica lettura della realtà, con cui giustificano la distruzione di un popolo. Falliti gli incontri con i triumviri, Morgenthau, si appella all’ambasciatore tedesco Wangenheim, ma questi si rifiuta categoricamente di intervenire in favore degli armeni, che al pari dei turchi giudica traditori e pericolosi nemici interni. 
Non solo per l’atteggiamento del diplomatico tedesco, ma anche per altre ragioni, l’ambasciatore americano reputa la Germania responsabilmente coinvolta nell’organizzazione della macchina genocidaria: tedeschi erano i consiglieri militari, tedesca la metodica di usare la deportazione come strumento repressivo nei confronti di una minoranza.      Purtroppo nemmeno il Dipartimento di Stato di Washington ritiene opportuno dare ascolto all’accorato appello del proprio ambasciatore, che nel 1916 ritorna in patria. “Non ero riuscito a fermare il massacro degli armeni, e ai miei occhi la Turchia era diventata un luogo di orrori. Soprattutto mi era diventata insopportabile la frequentazione quotidiana con uomini che, a dispetto della cortesia, disponibilità e amabilità manifestate nei confronti dell’ambasciatore americano, avevano le mani sporche del sangue di poco meno di un milione di esseri umani.”     Tornato negli Stati Uniti, Morgenthau si dedica ad un’intensa attività di sostegno per gli armeni sopravvissuti, sensibilizzando l’opinione pubblica e raccogliendo fondi. Suoi sono stati anche gli intervanti sul piano diplomatico per la creazione di una nuova Armenia indipendente, ma allora la lotta fu impari. 
Queste pagine di diario non sono solo una documentazione storica di indiscussa importanza, ma anche una lettura agevole, ricca di episodi, aneddoti, spunti per ulteriori approfondimenti. In uno stile molto piacevole, fluido, vengono tratteggiati ritratti molto acuti, talora ironici, dei personaggi di spicco con cui si trova ad interagire. Osservazioni efficaci sui piccoli particolari, rappresentativi di un tutto, come i “giganteschi polsi” fermi sul tavolo di Talaat, “le mani bianche e delicate” di Enver, e il gigantesco Wangenheim, “autentico mangiafuoco teutonico.”

 

 

COMMISSIONE PER LA PUBBLICAZIONE DEI DOCUMENTI ITALIANI SULL'ARMENIA
COMMITTEE FOR THE PUBLICATION OF THE ITALIAN DOCUMENTS ON ARMENIA
Documenti Diplomatici Italiani sull'Armenia | Italian Diplomatic Documents on Armenia
SECONDA SERIE: 1891-1911 | SECOND SERIES: 1891-1911
(Diretta da | Directed by Marta Petricioli)
Volume 6 - Tomo 1 e 2 (22 Ottobre 1899 - 18 Settembre 1911)
Volume 6 - Tome 1 & 2 (October 22, 1899 - September 18, 1911)
A cura di Hilmar Kaiser e Massimo Sciarretta | Edited by Hilmar Kaiser e Massimo Sciarretta
Firenze, 2010

OEMME EDIZIONI
Dorsoduro 1602
I-30123 Venezia
ISBN 978-88-85822-35-1

La questione armena è uno dei maggiori problemi che stanno al centro della “questione d’Oriente”, vale a dire del rapporto diplomatico e politico tra le grandi potenze europee e l’Impero ottomano nel periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, o meglio tra il congresso di Berlino del 1878 e i trattati di pace che conclusero la grande guerra nel 1923. Fu infatti a Berlino, e poco prima a Santo Stefano, che la situazione degli armeni delle province orientali dell’Anatolia fu sottoposta all’attenzione della diplomazia europea, ottenendo un primo riconoscimento della sua gravità, e fu a Sèvres, nel 1920, che gli armeni videro riconosciuto il loro diritto ad avere un proprio stato nella regione: una repubblica armena che, però, fu cancellata nel successivo trattato di Losanna. 
In questo intervallo, gli armeni furono oggetto di una serie di stragi, di cui le più dure furono compiute negli anni 1894-1896, nel 1909 e nel 1915. Questi eventi, che commossero l’opinione pubblica europea, sono noti da tempo e hanno formato oggetto di pamphlet, di opere memorialistiche, di trattazioni di carattere generale e monografico e di raccolte di documenti. In molti casi, tuttavia, il tono di questi lavori è polemico, infarcito di accuse e di contro accuse da parte delle vittime e degli aguzzini, e spesso non trova riscontro in un apparato documentario scientifico. Ciò si spiega non solo per le “passioni” che l’argomento ha suscitato e continua a suscitare, ma anche per il fatto che molti archivi o non sono mai stati aperti agli studiosi indipendenti o non sono stati esplorati con attenzione e pazienza nella loro interezza.
Con questa opera, la Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici italiani sull’Armenia si propone di colmare una lacuna, almeno per quanto concerne la documentazione conservata presso l’Archivio storico diplomatico del Ministero degli Esteri italiano. L’opera intende coprire tutto l’arco di tempo compreso tra il 1878 e il 1923, attraverso la pubblicazione di tre serie di volumi. La prima serie, composta di tre volumi, si riferisce agli anni 1878-1890; la seconda, che comprende sei volumi, riguarda gli anni 1891-1916; la terza serie, articolata in tre volumi, documenta gli anni 1917-1923. I documenti pubblicati sono, nella misura del possibile, tutti quelli conservati in archivio e quindi, non solo i documenti che per il loro carattere generale servono allo studio della politica estera italiana o all’analisi dei rapporti diplomatici tra le grandi potenze dell’epoca, ma anche, e soprattutto, quelli che concernono più da vicino la questione armena.  
I testi dei documenti sono riportati nella loro integrità, con piccoli interventi di carattere redazionale che hanno l’unico scopo di “modernizzare” la grafia di alcune parole, evitando un eccessivo numero di sic, o di diminuire l’uso smodato delle maiuscole di moda a fine Ottocento. I nomi delle persone e dei luoghi – armeni, kurdi e turchi – citati nei documenti sono conservati nelle traslitterazioni originali, che spesso, purtroppo, sono ben lontane da una traslitterazione scientificamente accettabile. La cura di ciascun volume è affidata a giovani studiosi che ne firmano la prefazione.

Ennio Di Nolfo