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STORIA IN SINTESI 

 

Cronologia di alcuni eventi salienti e periodi storici armeni

VII sec. a. C. Una popolazione denominata “Hay” (da cui “Hayastan” che significa “Armenia”) si stabilisce in Anatolia, ai piedi del Monte Ararat, nella regione del Lago di Van.

95-56 a. C. Regno di Tigran II: l’Armenia è il più potente regno dell’Asia Minore dell’epoca.

301 d. C. Conversione al Cristianesimo che diviene la religione di stato.

405 d. C. Invenzione dell’alfabeto armeno, traduzione delle Sacre Scritture ed inizio di una vasta e varia produzione letteraria in armeno.

451 d. C. Guerra dei Vardanank contro i persiani (durata trent’anni). Gli armeni riportano una fondamentale vittoria contro i tentativi persiani di assimilazione ed acculturazione.

850 - 1045 Regno dei Bagratidi: epoca di grande fulgore politico, culturale ed artistico con capitale Ani. Con la caduta di questo regno molte nobili casate armene sono costrette al trasferimento in Cilicia.

1080 – 1375 Regno di Cilicia. Iniziano considerevoli contatti con l’Occidente. Con la caduta di questo regno non ci sarà più uno stato armeno indipendente fino al 1918. Suddivisione dell’Armenia tra Persia ed Impero Ottomano.

1453 Istituzione nell’Impero Ottomano del sistema definito Millet di cui gli armeni, assieme a greci ed ebrei usufruiranno per quattro secoli. Grazie a questa istituzione godono di un discreto grado di autonomia.

1512 Pubblicazione a Venezia del primo libro armeno a stampa: Il Libro del Venerdì.

Inizi 1600 Emigrazione forzata degli abitanti armeni della città di Giulfa alla periferia di Isfahan per ordine dello Shah Abbas I e fondazione di Nuova Giulfa. Ampio sviluppo dei contatti culturali e commerciali di queste popolazioni armene con l’Occidente. Molto intensi i rapporti con la Serenissima per tutto il ‘600 e il ‘700.

1717 Arrivo a Venezia dell’Abate Mechitar ed insediamento dell’Ordine Mechitarista all’Isola di San Lazzaro in laguna.

1804 – 1828 In seguito ad una serie di interventi armati, una parte di territorio ottomano abitato in prevalenza da armeni cade sotto il dominio della Russia zarista.

1894 – 1896 Massacri di armeni (300mila vittime) per ordine del Sultano Habdul Hamid II.

1908 Deposizione del sultano ad opera del movimento politico denominato “Unione e Progresso.”

1909– 1914 Presa del potere dell’ala più oltranzista ed ultranazionalista del movimento nota come “Giovani Turchi” e pianificazione del genocidio armeno.

1915 – 1916 Genocidio del popolo armeno residente in Anatolia: un milione e mezzo di vittime.

1918 Nascita della Repubblica Armena indipendente con capitale Erevan.

1920 Annessione della Repubblica Armena all’URSS.

1991 Proclamazione dell’attuale Repubblica d’Armenia.

 


 

SPIRITUALITÁ ED IDENTITÀ CULTURALE


Gli armeni “sono stati per tutto il percorso della loro storia profondamente imbevuti del senso del sacro.1

Il senso del sacro era molto presente anche in epoca pagana quando gli armeni si rivolgevano principalmente a due divinità: il dio Vahagn e la dea Anahit.

Vahagn, nato da un mare purpureo, è il dio del fuoco e della luce ed incarna l’anelito alla libertà, allo spazio e alla conoscenza; è anche l’uccisore del drago – il vishap 2- che tiene imprigionate le acque piovane. La sua figura è celebrata in un inno considerato l’opera più sublime della poesia armena pagana, intitolato appunto L’Inno di Vahagn.

La dea Anahit, collocabile in una civiltà agricola di tipo patriarcale, è posta al vertice della gerarchia divina; venerata come “Madre di ogni purezza” e “Signora degli armeni”, è la dea della fertilità. Molti degli appellativi che le vengono rivolti, compariranno successivamente nel linguaggio cristiano mariano.

Religiosità, spirito di identità culturale ed attaccamento alle origini costituiranno nel corso della storia armena gli anelli di una catena che ha resistito ai numerosi strappi cui è stata sottoposta.

Per il popolo armeno la conversione al cristianesimo resta una svolta fondamentale, che ne ha condizionato nei secoli successivi tutta una serie di scelte politiche, sociali e culturali.

Tale evento, avvenuto per opera di S. Gregorio l’Illuminatore è tradizionalmente datato al 301 d.C. - e su questa data ufficiale si sono basate le celebrazioni degli anniversari della fondazione della Chiesa Armena – anche se molti storici sono più propensi a collocarlo nel 314 d.C. Con la conversione del sovrano Trdat III, l’Armenia diviene la prima nazione a proclamare il cristianesimo religione di stato. S. Gregorio era stato comunque preceduto dall’opera evangelizzatrice degli apostoli Taddeo e Bartolomeo, unitamente a quella delle vergini martiri Hriphsime e Gayiane.

Altra data fondamentale nella storia della formazione dell’identità armena è il 405 d.C. che coincide con la creazione da parte del vardapet (ieromonaco) Mesrop Mashtots dell’alfabeto armeno. La leggenda vuole che l’alfabeto sia stato dettato in sogno (o meglio tra la veglia e il sonno) da Dio al monaco predicatore, che con la sua opera rese possibile la traduzione in armeno della Bibbia e di altri testi sacri e quindi la diffusione della fede tra frange sempre più ampie della popolazione.

In questa impresa San Mesrop anticipa di ben quattro secoli quello che avrebbero realizzato nel mondo slavo Cirillo e Metodio; se poi pensiamo all’Occidente, vi si dovrà aspettare la riforma luterana per trovare l’uso del vernacolo in ambito sacro. La chiesa cattolica è invece arrivata a questa risoluzione solo negli ultimi decenni.

La realizzazione dell’alfabeto aprirà la strada non solo alla traduzione dei testi sacri, ma anche alla creazione di una letteratura religiosa classica armena, sviluppatasi a partire dal dodicesimo secolo. La figura di maggior rilievo in questo ambito è San Gregorio di Narek, ritenuto uno dei più grandi mistici di tutti i tempi e sommo poeta per gli armeni. Altri pensatori ed autori fondamentali sono San Nerses Shnorhali, San Nerses Lambronatsì e Movses di Chorene.

Risulta comunque evidente che “a partire dalla conversione ufficiale, la storia e i destini dell’Armenia risultano intimamente connessi con quelli del suo cristianesimo, per la stessa tenacia con cui gli armeni aderirono ad esso come alla propria sopravvivenza.”3 Questa componente è massimamente riscontrabile nei momenti cruciali e particolarmente drammatici della storia di questo popolo, in cui fede religiosa, identità culturale e coscienza nazionale si sono strettamente compenetrate in una forza collettiva.

Uno di questi momenti fu la guerra dei Vardanankh del 451 d.C.: in questa circostanza gli armeni, si ribellarono ai persiani che, nell’ambito di un progetto di assoggettamento politico e di assimilazione culturale, volevano imporre loro la religione mazdea. Storico è rimasto il discorso che il generale Vardan Mamikonian fece alle sue truppe il 2 giugno 451, in cui asserì: “Chi credeva che il cristianesimo fosse come un indumento, ora intenda che non può strapparlo come il colore della nostra pelle.” Fu una guerra durata oltre un ventennio, cui parteciparono attivamente anche le donne, in particolare le mogli dei generali periti in battaglia. Dopo aver avuto come momento saliente la battaglia di Avarayr, durata un giorno – il 26 maggio 451 – si protrasse sotto forma di resistenza passiva ed aspra guerriglia fino al 485. Le ostilità si conclusero positivamente per gli armeni poiché, nonostante avessero perso la battaglia di Avarayr, il re di Persia Valash acconsentì a riconoscer loro libertà di culto, coscienza e cultura.

Le condizioni di pace poste dagli armeni alla fine del conflitto appaiono molto interessanti in quanto anticipano di secoli alcuni basilari concetti di diritti umani che saranno conquiste ben più tarde, sia sul piano culturale, che giuridico e politico.

Gli armeni proclamano come irrinunciabili questi tre principi:

  1. nessuno sarà costretto a cambiare religione;
  2. nessuno sarà giudicato in base alla propria condizione sociale, bensì secondo le proprie azioni;

c. nessun provvedimento sarà preso dalle autorità verso chiunque soltanto per sentito dire, ma solo per diretta conoscenza di causa.

In tal modo gli armeni dimostrano di voler salvaguardare i propri diritti, ma sapientemente non infieriscono sull’avversario, di cui rispettano l’identità culturale e religiosa e con cui non intendono, nonostante tutto, mantenere relazioni ostili.

La guerra dei Vardanankh non fu una guerra di religione nel senso ricorrente del termine: fu piuttosto una rivolta armena in difesa della propria libertà di culto ed identità culturale. Tale evento costituisce una pietra miliare nella storia armena, non solo perché contribuì a forgiare la coscienza unitaria del suo popolo, ma anche perché condizionò le sorti della Chiesa armena. Infatti, impegnati nella guerra, gli armeni non furono in grado di partecipare al Concilio di Calcedonia (sobborgo di Costantinopoli, oggi Kadıköy) del 451 in cui oltre ad esser state dibattute basilari questioni di carattere dogmatico e canonico, furono prese decisioni relative al primato della sede patriarcale di Costantinopoli su tutte le altre sedi patriarcali orientali immediatamente dopo quella di Roma.

Dal punto di vista teologico, non ci sono però sostanziali differenze tra la fede cristologica della Chiesa armena e quella definita dal Concilio di Calcedonia. Questa comunità di fede è stata riconosciuta negli ultimi decenni dalle varie dichiarazioni comuni che i capi delle Chiese non calcedonite (copta, etiopica, siriaca e armena) hanno siglato con i Pontefici Romani. Per quanto riguarda la Chiesa armena, una simile Dichiarazione comune è stata firmata, il 13 dicembre 1996, dal Pontefice Giovanni Paolo II e dal Catholicos di tutti gli Armeni Karekin I, riconoscendo reciprocamente l’ortodossia delle rispettive formulazioni tradizionali cristologiche.

Il Catholicos di tutti gli Armeni è la suprema carica della Chiesa Apostolica Armena – così chiamata in riferimento agli apostoli Taddeo e Bartolomeo – con sede a Etchmiadzin, in Armenia, a circa venti chilometri dalla capitale Erevan. Il suo ruolo è rapportabile a quello del Pontefice cattolico, ma la sua elezione è prerogativa di un’assemblea composta da una maggioranza di laici, rappresentanti delle diverse diocesi, e una minoranza di ecclesiastici. Oltre al Catholicos di tutti gli Armeni, vi è il Catholicossato della Grande Casa di Cilicia, con sede ad Antelias (Libano, presso Beirut) e i Patriarcati di Gerusalemme e di Costantinopoli con giurisdizione per le rispettive diocesi.

Oltre alla Chiesa Apostolica armena, cui appartiene la maggior parte degli armeni, esistono anche una Chiesa cattolica armena (Patriarcato di Cilicia per gli Armeni cattolici con sede a Beirut) ed una Chiesa protestante armena, a seguito di successive opere missionarie cattoliche e protestanti.

Per chiarire meglio analogie e diversità tra la Chiesa armena e la Chiesa di Roma, ricordiamo alcuni elementi che caratterizzano la prima. Innanzitutto l’attuale liturgia armena risale al V sec. e le sue componenti principali sono: la celebrazione dell’Eucarestia con pane azzimo; la non commistione di acqua e vino (unica in tutto il mondo cristiano); Natale ed Epifania vengono celebrati assieme il 6 gennaio; le domeniche sono “Giorno del Signore” per cui non viene celebrata la festa di nessun santo (i santi armeni sono quelli della tradizione, non essendo stati proclamati santi negli ultimi secoli come nella Chiesa di Roma); le feste mariane sono tutte considerate come feste del Signore; il mercoledì e il venerdì sono giorni dedicati alla penitenza e all’astinenza; lo stesso vale per la Quaresima e per la settimana di astinenza che precedono le feste dell’Epifania, della Trasfigurazione, dell’Assunzione e dell’Esaltazione della Croce. La Pasqua coincide con quella dei cattolici da quando, agli inizi del XX secolo, gli armeni hanno adottato il calendario gregoriano.

Tra i riti più suggestivi si rammentano la Benedizione dell’acqua battesimale il giorno dell’Epifania e l’Antasdan, la Benedizione dei Campi ai Quattro Angoli del Mondo, resa nota anche da una celebre poesia del poeta Daniel Varujan.4 Si tratta di versi molto amati dagli armeni e solitamente studiati da tutti i bambini nelle scuole. Altra celebrazione molto significativa è la Festa dell’Uva, che ha luogo nella domenica più vicina all’Assunzione di Maria: durante una Santa Messa solenne viene benedetta l’uva, simbolo di vita e prosperità, e alla fine questa è distribuita ai fedeli.

Nella Chiesa Apostolica armena Battesimo, Cresima e Comunione vengono impartiti assieme e la Confessione è comunitaria.

Il clero si suddivide sostanzialmente in due categorie: i sacerdoti sposati, che hanno funzioni parrocchiali, ma non sono destinati ad una carriera ecclesiastica, e i sacerdoti celibi, che sono destinati a diventare vescovi, patriarchi e risiedono per lo più in conventi. Le suore, nella Chiesa Apostolica, sono in numero molto esiguo e si riducono a poche comunità, come quella legata alla Chiesa di santa Hripsime nei pressi di Etchmiadzin. Vi è però la fiorente Congregazione armena cattolica delle Suore dell’Immacolata Concezione, fondata a Coatantinopoli che, dagli anni venti del secolo scorso, ha la sede generalizia a Roma.

La celebrazione della Santa Messa è molto lunga, circa due ore, ma si differenzia, rispetto a quella cattolica occidentale, soprattutto nella gestualità, con il celebrante che all’atto della Consacrazione volge le spalle ai fedeli. Il rito è accompagnato da canti molto solenni, legati alla tradizione e dall’impiego ripetuto di flabelli e volute d’incenso. Anche i paramenti dei celebranti sono in genere molto più elaborati di quelli attualmente indossati dai preti cattolici.

Note:

  1. B. L. Zekiyan L’impatto con la realtà, il senso del sacro , in GLI ARMENI, Ed. Jaca Book, Milano 1998, pag. 83.
  2. Il vishap è una figura mitologica armena che, come si vedrà più avanti, viene ripresa in diversi ambiti artistici, dalla scultura più arcaica al tappeto artigianale.
  3. L’impatto con la realtà, il senso del sacro, cit. pag. 85.
  4. Di Daniel Varujan (1884-1915), figura fondamentale nella letteratura armena e vittima del genocidio, tratteremo nel capitolo dedicato alla letteratura.

 

 


 

“CHIESE DI CRISTALLO” E KHATCHKAR

 

“……La chiesetta di Aštarak è la più ordinaria e, per l’Armenia, tranquilla. Niente di speciale – una piccola chiesa con un berretto da pope a sei punte, un ornamento a cordone lungo il cornicione del tetto, e piccole sopracciglia anch’esse cordonate sulle avare bocche di finestre-feritoie.

Una porta che non si vede e non si sente. In punta di piedi, ho gettato un’occhiata all’interno: ma c’è una cupola, una cupola!

Una cupola vera! Come quella di San Pietro a Roma, quella sotto cui ci sono folle di migliaia di persone, e palme, e un mare di ceri, e la sedia gestatoria.

Lì le sfere incavate nelle absidi cantano come conchiglie. [….] A chi è venuto in mente di imprigionare lo spazio in questa povera cantina, in questa misera cella?”1

Osip Mandel’štam, narratore e poeta russo 2, a seguito di un viaggio in Armenia compiuto nel 1930, ha raccolto le proprie impressioni, sia in prosa che in versi, in un’opera, intitolata appunto Viaggio in Armenia, in cui esprime stupore per l’incanto dei luoghi e calore umano per i suoi abitanti. Inoltre la fortunata immagine “paese dalle pietre urlanti” è tratta da una breve poesia contenuta in questa sua opera.

La descrizione che il fantasioso scrittore russo traccia di una chiesa armena, così poetica e leggera, farà sicuramente sorridere gli storici dell’arte, ma talune osservazioni mettono a fuoco più di una componente che caratterizza le chiese armene dal medioevo ad oggi.

Le chiese armene non raggiungono in genere grandi dimensioni e, come soleva dire nelle sue lezioni accademiche Adriano Alpago Novello3, dialogano con il territorio, con l’ambiente naturale, in un gioco di contrasti ed armonie in cui ambiente costruito e paesaggio si fanno complementari. Diversamente da altre tradizioni, compresa quella della limitrofa Georgia, non si trovano mai in posizione dominante, ma preferibilmente marginale, discreta, quasi vogliano mimetizzarsi. Nella forma tendono a privilegiare semplicità e chiarezza, con la scelta di volumi geometrici sovrapposti ed accostati, il tutto regolato da un rigore di tipo matematico. La struttura di base è sormontata da una cuspide, conica o piramidale, che cela la calotta della cupola. La forma esterna delle masse così create, nitide ed essenziali, con gli spigoli taglienti, suggerirono al critico Cesare Brandi 4 la più volte ripresa definizione di “chiese di cristallo”, avendovi trovato un’analogia con la foggia del cristallo di rocca. All’interno permangono semplicità ed essenzialità. L’illuminazione è scarsa, e rara risulta la presenza di affreschi, mentre frequente, e spesso unico ornamento, è quello delle “stalattiti” – le conchiglie di Mandel’štam – cui si attribuisce anche una funzione acustica. Questo motivo, di origine tipicamente islamica, è il risultato di contatti con il mondo persiano, ma si differenzia nell’uso dei materiali: le stalattiti islamiche sono realizzate in stucco o ceramica policroma, quelle armene invece in pietra da taglio. Questa pietra è in genere il tufo, talvolta il basalto o il granito. Ma il tufo è comunque il materiale principe, di cui l’Armenia è particolarmente ricca: di origine vulcanica, è leggero e facile da tagliare e levigare appena estratto dalla cava, mentre si indurisce con l’esposizione all’atmosfera. Può assumere una vasta gamma cromatica che va dalle tonalità del nero, grigio, bruno fino a quelle del rosa, ocra, violetto, rosso mattone, verde. I costruttori, in talune chiese si sono appositamente serviti di pietre levigate di tonalità diverse per comporre giochi cromatici originalissimi e molto ornamentali pur nella loro semplicità. Il tufo si presta idealmente anche alla lavorazione di bassorilievi, che sovrastano i portali di talune chiese e all’incisione delle tipiche croci dette khatchkar, di cui parleremo più avanti.

È interessante riferire che, a giudizio di specialisti nel settore, le chiese armene medievali si distinguono per la genialità di alcune soluzioni architettoniche, decisamente brillanti ed innovative per l’epoca, anche in riferimento alle tecniche antitelluriche impiegate nella progettazione5.

Altro elemento ricorrente è il gavit, un vasto ambiente coperto che precede la chiesa, utilizzato in genere come sala adibita ad assemblee, tribunale, aula d’insegnamento. Solitamente si regge su quattro colonne ed ha un’apertura verso il cielo circondata da stalattiti.

Le chiese tutt’oggi rimaste possono presentarsi isolate, ma più spesso fanno parte di complessi monastici, in alcuni casi molto articolati, in cui, oltre alle celle per i monaci e ai refettori, c’erano biblioteche e centri studi.

Nell’attuale Repubblica Armena si possono visitare diversi monasteri e chiese medievali: attualmente sono oggetto di restauro, anche grazie a finanziamenti stranieri e da parte della diaspora. Questi monumenti sono quanto rimane di un patrimonio molto più vasto andato in massima parte distrutto dall’uomo e dalle ingiurie del tempo. Nell’attuale Turchia rimangono pochi, ma significativi esempi di architettura armena sacra, quali la cattedrale di Akhtamar, presso il Lago Van, e il complesso di Ani, l’antica capitale dalle “mille e una chiesa”, a pochi chilometri dal confine armeno e visibile dalla città armena di Gyumri. La vastità e capillarità dei luoghi di culto esistenti in Anatolia dal I al XVII sec. sono attestate da un’antica suggestiva mappa rinvenuta casualmente presso l’Università di Bologna e recentemente tradotta e studiata dalla professoressa Gabriella Uluhogian.6

Tra i tanti esempi di architettura sacra in Armenia val la pena di ricordare il complesso monastico di Geghard: tra i più antichi, risalente ai primi secoli dopo la conversione, si compone di quattro edifici principali, costruiti in epoche diverse. Particolarmente singolari appaiono le chiese scavate nella roccia, le celle dei monaci abbarbicate sulla montagna intarsiata di croci, in un paesaggio maestosamente selvaggio. Luogo intriso di sacralità, colpisce anche il visitatore più agnostico quando, nella semioscurità della chiesa più interna, le pareti rivelano via via una miriade di piccole croci incise, mentre le voci di un piccolo coro intonano inni sacri che sembrano decuplicarsi sotto la cupola sovrastante.

Khor Virap è un luogo particolarmente caro agli armeni. Il suo nome, che significa “fossa profonda”, sta ad indicare il luogo in cui San Gregorio l’Illuminatore fu tenuto prigioniero per lunghi anni, fino alla liberazione concessagli dal sovrano Trdat III. Secondo la leggenda il re, come punizione per aver martirizzato la giovane vergine cristiana Hripsime e le sue compagne, era stato trasformato in cinghiale e potè assumere nuovamente le sembianze umane proprio grazie all’intervento miracoloso di San Gregorio. Di qui non solo la liberazione del santo, ma anche la conversione al cristianesimo del sovrano e la conseguente cristianizzazione dell’Armenia. Nel VII secolo venne qui fatta erigere una prima chiesa mausoleo, poi ricostruita nel XIII secolo e sostituita nel 1669 da quella attuale. Ma oltre per la sua importanza storica, questo luogo è meta irrinunciabile perché dall’alto delle sue mura si può godere di una delle più belle viste dell’Ararat, che appare vicinissimo ed imprendibile, con le cime perennemente innevate e rese spesso evanescenti da una anello di nubi che ne circonda le pendici.

Raggiungere il monastero di Tathev non è impresa del tutto facile: costruito su di un dirupo, a picco su di una gola profonda, doveva avere una straordinaria posizione strategica. Fondato nel IX secolo, fu centro di un’importante scuola miniaturista e polo religioso e culturale di prim’ordine. La chiesa principale, dedicata ai santi Pietro e Paolo, era anticamente affrescata, ma oggi rimane molto poco delle immagini dipinte; la decorazione anche qui è sobria e si limita alle effigi di una serie di personaggi che si presume fossero benefattori della chiesa.

Anche Noravankh è posizionato in cima ad un precipizio, ma in posizione meno elevata. Si tratta di un complesso monastico risalente al XIII sec., formato da tre chiese racchiuse da una cinta muraria, ognuna con una sua peculiarità; di queste originalissima è quella di S. Astvatzatzin, per la struttura a due piani. Si può accedere al piano superiore, salendo un’impervia scaletta che, per la singolarità della collocazione funge anche da motivo decorativo della facciata principale. Il paesaggio circostante, prevalentemente roccioso, si fonde armonicamente con il tufo chiaro degli edifici.

Haghartzin invece appare all’improvviso, celato da un lussureggiante bosco di faggi e rare conifere e circondato da morbide colline. Oltre alle quattro chiese, perfettamente conservato è un vasto refettorio con accanto un forno per il pane, ancora funzionante. Il complesso risale al X-XIII secolo. Particolarmente interessanti i gavit, uno dei quali è ricco di iscrizioni che forniscono molte informazioni di carattere storico su questo luogo, e una meridiana, finemente lavorata, con motivi floreali e le prime dodici lettere dell’alfabeto armeno incise al posto dei numeri. Curiosa, nella chiesa a Lei dedicata, la rappresentazione della Vergine e del Bambino in cui entrambi hanno tratti vistosamente asiatici: non si tratta dell’unico caso in cui gli artisti sembrano quasi voler in tal modo ammorbidire la suscettibilità di qualche islamico potente che, di fronte a dei lineamenti familiari, viene trattenuto dal desiderio di distruggere tale immagine sacra.

Il monastero di Haghbat fa parte del patrimonio dell’UNESCO. Eretto tra il X e il XII secolo, è particolarmente articolato: ne fanno parte oltre ad una chiesa principale e al singolare campanile a se stante, una serie di altre cappelle, un refettorio, una biblioteca, una fontana coperta: il tutto circondato da mura ove si alternano torri cilindriche. Nella chiesa principale, San Nshan, si intravedono le tracce di alcuni affreschi.

Le due chiese gemelle di S. Astvatzatzin e S. Arakhelots, raggiungibili grazie ad una ripida scalinata di un centinaio di scalini, dominano l’enorme bacino del Lago Sevan. In origine il territorio su cui sorgono era un’isola, ma attualmente si è trasformato in promontorio, a seguito del progressivo abbassamento subito dalle acque del lago. Restaurate di recente, risalgono al IX secolo.

In ognuno di questi luoghi di culto, e disseminati in tutto il mondo armeno, incontriamo i khatchkar. “Khatch” significa “croce” e “kar” “pietra”, quindi letteralmente tale denominazione denota delle croci di pietra. La pietra usata è, come s’è già detto, il tufo. Sostanzialmente diversi dalle più note croci celtiche, i khatchkar restano una forma d’arte originalissima, che ha accompagnato gli armeni nel corso di tutta la loro storia. Hanno fin dalle origini assunto funzione commemorativa, celebrativa e funeraria, e tali sono sentiti anche oggi.

Possono mostrarsi isolati o inseriti nei paramenti murari degli edifici, sia che questi siano sacri o profani. Indicano ovviamente anche i luoghi di sepoltura, e particolarmente importante è, a tal proposito, il grande antico cimitero di Noraduz, nei pressi del Lago di Sevan, risalente al XIV sec. In questa vasta area, le centinaia di croci, finemente cesellate, oltre che dare al visitatore una straordinaria visione d’insieme, hanno offerto agli studiosi una importante serie di informazioni storiche sull’epoca in cui furono incise. Infatti l’artigiano era solito incidervi il nome del committente e lo scopo dell’opera, assieme ad altri particolari oggi rilevanti.

Ma prima che assumessero le forme elaborate che ammiriamo a Noraduz o nei monasteri di cui si è già detto, i khatchkar sono stati preceduti da creazioni più semplici. Per comprenderne l’evoluzione, dobbiamo risalire alle loro origini. Queste ci rimandano all’era precristiana, in cui cippi e steli commemorative, note come vishap, contrassegnavano il territorio. Il vishap era una grande stele figurata, con la testa a forma di pesce o drago, probabilmente collegata con il culto dell’acqua in epoca pagana e tipica del secondo millennio a. C. Nei secoli VII e VI a. C. invece, compaiono monoliti urartei 7 con epigrafi a caratteri cunieiformi, mentre fu a partire dal IV sec. d. C. che compare la croce innalzata a testimonianza del martirio dei primi cristiani. Inizialmente le croci erano lignee; divennero in pietra a partire dal V sec., anche se all’epoca il motivo celebrativo più impiegato era una stele votiva, appoggiata su un basamento a forma di prisma, ornata con motivi vegetali stilizzati.

Il khatchkar propriamente detto fa la sua comparsa nel IX e X sec. Prescindendo dagli esempi più arcaici, che appaiono più semplici e stilizzati, la stragrande maggioranza dei khatchkar presenta i seguenti elementi: bracci elaborati alle estremità e riccioli agli apici; dalla base dipartono ramificazioni con foglie, grappoli d’uva e melograni, disposti simmetricamente, che rimandano all’ “Albero della Vita”; in genere non compare la figura del Crocefisso, ma la croce vuota allude al Risorto. Uno dei rari esempi di khatchkar con il Cristo affiancato dai due ladroni e ai piedi le pie donne è conservato a Etchmiadzin, sede del catholicosato armeno; un altro simile si trova a Haghbat. Infine, alla base della croce possiamo trovare un cuneo a gradoni che simboleggia in Golgota, oppure un disco istoriato, detto rosetta, che rappresenta il seme fecondo da cui germoglia l’Albero della Vita o può alludere al concetto di eternità.

In Italia possono essere ammirati due importanti esempi di khatchkar. All’Isola di San Lazzaro degli Armeni, a Venezia, accanto all’ingresso principale del monastero, all’ombra di un melograno, si erge un khatchkar del XIII sec., in tufo grigio. Opera del celebre maestro Poghos, è stato donato dalla Repubblica Armena alla Regione Veneto in segno di amicizia e a testimonianza dell’antico connubio che lega Venezia e il popolo armeno. Altro bellissimo khatchkar è conservato al Museo Archelogico di Milano.

Note:

  1. Osip Mandel’štam Viaggio in Armenia, Ed. Adelphi, Milano, 1988.
  2. Osip Mandel’štam (1891-1933), autore di diverse opere poetiche e di alcuni volumi in prosa, a causa di alcuni versi satirici su Stalin, è stato condannato e scomparso in un gulag siberiano.
  3. Adriano Alpago Novello è stato autore di una ricca serie di studi sull’architettura armena, basati non solo su documenti, ma anche su numerose missioni scientifiche effettuate sul posto. Nelle diverse pubblicazioni, spesso le foto sono opera sua. Ha diretto per diversi anni il Centro di Studi e Documentazione della Cultura Armena di Milano.

Si veda, per quanto qui riferito Ambiente naturale e ambiente costruito e L’Architettura armena tra Oriente ed Occidente di A. Alpago Novello in GLI ARMENI, Ed. Jaca Book, Milano 1998 e L’architettura degli armeni di A. Alpago Novello in Incontro con il popolo dell’Ararat:l’Armenia’”Tipografia armena S. Lazzaro, Venezia 1987.

  1. Nel “Corriere della Sera” del 5 luglio 1968, a commento dei risultati delle missioni in Armenia, effettuate dagli     esperti del Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena di Milano, il critico Cesare Brandi, coniò questa definizione, cui gli armeni sono molto “affezionati” e che amano citare.
  2. Si veda quanto H. Kasangian, ingegnere ed eminente studioso di architettura armena, afferma in proposito nell’autobiografico Otto grammi di piombo, mezzo chilo di acciaio, mezzo litro do ilio di ricino, ed. Il Poligrafo, Padova, 1996, pp. 103,104,107,108,109.
  3. Si veda Un’Antica Mappa dell’Armenia – Monasteri e santuari dal I al XVII secolo, di Gabriella Uluhogian, Longo Editore, Ravenna, 2000. Nota curiosa: una riproduzione di questa mappa si trova anche nel Museo di Storia di Erevan, assieme a molte altre antiche mappe dell’Armenia.

 





LA LINGUA, L’ALFABETO E L’AMORE PER IL LIBRO

 

L’armeno è una lingua indoeuropea. All’interno di questo gruppo però costituisce un ramo a sé. Non è quindi paragonabile, ad esempio, al russo o all’inglese che appartengono rispettivamente alle grandi famiglie delle lingue slave e germaniche. Da una punto di vista lessicale emergono molti prestiti iranici, dovuti ai forti contatti che per secoli sono perdurati tra le due aree. Questo fatto ha determinato per un certo periodo l’erronea interpretazione che l’armeno fosse un dialetto iranico: tesi successivamente smentita da filologi e linguisti.

L’armeno è una lingua flessiva: comprende pertanto declinazioni e coniugazioni. La struttura della frase, con gli articoli posti dopo il nome e il verbo generalmente alla fine, può rivelarsi inizialmente ostica allo studente neofita; a compensare tali ostacoli però, manca il genere grammaticale e l’accento cade sempre sull’ultima sillaba.

Storicamente viene fatta una distinzione tra il grabar, l’armeno classico, che a partire dal V secolo è stata la lingua delle opere di ispirazione teologica, filosofica, storica nonché la lingua ufficiale dell’amministrazione dello Stato e del diritto, e l’ashkharabar, ovvero la “lingua mondana” o “volgare”, con cui, a partire dal XIX secolo, ha avuto inizio una cospicua produzione letteraria profana.

Esiste inoltre una ulteriore differenziazione relativa all’armeno dei giorni nostri, che si distingue in armeno orientale – parlato nella Repubblica d’Armenia e in Iran – e armeno occidentale – parlato a Istanbul, in Medio Oriente e dalla diaspora in genere. Le differenze sono soprattutto relative alla pronuncia di talune consonanti e all’applicazione di alcune regole grammaticali: tuttavia la comprensione e comunicazione tra i parlanti i due diversi idiomi non presenta particolari problemi.

Lingua originalissima, l’armeno stupisce fin dal primo approccio, per la caratteristica di “esprimersi per immagini”. Ricco di vocaboli composti, sembra offrire spazio ad una molteplicità di combinazioni, di cui talune appaiono geniali nella loro semplicità. Ad esempio:

tun = casa; dram = denaro (tra l’altro dram è anche il nome dell’attuale valuta della Repubblica Armena) dram-a-tun = banca;

mayr = madre; khaghakh = città

mayr-a-khaghakh = metropoli, capitale

degh = medicina

tegh-a-tun = farmacia

od = aria; naw = nave

od-a-naw = aeoroplano

hangist = riposo, sosta, riposo

naw-a-hangist = porto.

Queste molteplici combinazioni danno spesso origine a lunghissime parole composte, piuttosto complesse ad una prima lettura, ma molto interessanti e stimolanti: una volta compreso il meccanismo che sta alla base dell’etimologia di molti vocaboli, la loro memorizzazione ne risulta agevolata.

La lingua armena ha potuto sopravvivere fino ad oggi grazie all’alfabeto creato dal vardapet (ieromonaco) Mesrop Mashtots nel 405 d.C. A differenza di altri alfabeti le cui origini rimangono oscure o vaghe, l’alfabeto armeno ha una data di nascita precisa e un suo inventore ufficiale, Mesrop. Santo per gli armeni, che lo festeggiano ben due volte all’anno, era un predicatore che, peregrinando di villaggio in villaggio, si era reso conto che la massa dei fedeli cui si rivolgeva non era in grado di comprendere il messaggio delle Sacre Scritture espresso in greco o siriaco. Aveva pertanto intuito quanto fosse importante poter tradurre i testi sacri, la Bibbia per prima, in armeno e renderli in tal modo intelligibili al popolo.

La nascita dell’alfabeto è tradizionalmente riferita come un miracolo, attraverso le parole di Koriun, discepolo di Mesrop, che narra: “[allora Mesrop] vide non un sogno nel sonno, né una visione nella veglia, ma nel laboratorio del suo cuore una mano destra che, apparendo agli occhi dell’anima, tracciava le lettere su una pietra. E la pietra riceveva su di sé i segni così come la neve accoglie le impronte.”1 Ne è risultato un insieme di 36 lettere: 7 vocali e 29 consonanti. A ciascuna lettera corrisponde un fonema. Successivamente, nel XII sec. le lettere sono divenute 38. Tale alfabeto, perfettamente adatto alla fonologia dell’armeno, è giunto intatto fino ai giorni nostri. Inoltre, rappresentando una gamma di suoni molto vasta, si adatta in modo straordinario alla traslitterazione di vocaboli e nomi stranieri.

L’importanza rivestita da questo evento nella storia del popolo armeno non è solo connessa alla possibilità di tradurre e mettere su carta testi sacri fondamentali, ma è anche di carattere prettamente politico: possedere una lingua scritta in un alfabeto che appartiene unicamente a loro ha fornito agli armeni una corazza di difesa psicologica e culturale contro i continui ed insidiosi rischi di assimilazione che le potenti nazioni e popolazioni confinanti hanno continuato per secoli a mettere in atto. La nascita dell’alfabeto, dopo la conversione al Cristianesimo, ha contribuito a forgiare l’autocoscienza del popolo armeno come entità distinta all’interno di un contesto multiforme dal punto di vista etnico, religioso e culturale.

Gli armeni tutt’oggi amano molto il proprio alfabeto. Ne vanno orgogliosi. Le lettere armene, di per sé già così armoniose nella forma, appaiono incise nel legno e nella pietra, tessute nei tappeti, ricamate, dipinte, e dal segno iniziale dipartono uccelli, rami fioriti e quanto la fantasia dell’artista e dell’artigiano suggerisce.

Tornando a Mesrop, è bene ricordare che non si limitò all’invenzione dell’alfabeto, ma ritenne fosse di fondamentale importanza la formazione di un gruppo di allievi cui insegnare l’arte della scrittura. La prima scrittura creata ed insegnata dal maestro è la capitale maiuscola (erkathagir) vergata su pergamena, nei colori nero o rosso bruno, con segni che si susseguono in modo armonico ed equilibrato. Questa scrittura però richiedeva molto spazio e pertanto, a partire dal XII sec. venne creata una scrittura minuscola (bolorgir), su cui si basa il moderno alfabeto a stampa. Terzo tipo, a partire dal XVII sec. è la scrittura detta notargir, ovvero “scrittura notarile”, usata per i codici, dai tratti piccoli e veloci.

All’ “arte della scrittura”, cui Mesrop avviò una nutrita schiera di discepoli, è strettamente collegata quella del manoscritto miniato. “Per lo stolto il manoscritto non vale niente, per il saggio ha il prezzo del mondo”, si legge nel colophon di un manoscritto del 1391.2 E questa dichiarazione è rappresentativa di un carattere antropologico armeno che vede nel culto per il libro un modo di essere, una scelta di vita, una scala di valori. Il codice miniato è sentito come entità viva, come bene da salvare e proteggere, che al pari di un essere umano, deve essere salvato da mani nemiche distruttrici. Sono stati storicamente documentati episodi in cui gli armeni compirono atti eroici pur di salvare dei libri antichi dalla distruzione. Noto è l’esempio relativo all’Omeliario di Mush, un preziosissimo manoscritto dell’undicesimo secolo, salvato nel 1915 da due donne che, in fuga dal genocidio, lo portarono con sé verso l’Armenia orientale. Non essendo in grado di trasportarlo tutto intero (misura 70 cm. di altezza per 50 cm. di larghezza e pesa 27 kg), lo divisero in due parti. Ne sotterrarono una metà nel cortile della chiesa armena di Erzerum e si suddivisero la restante parte, portandola in salvo a Etchmiadzin. Successivamente il testo poté essere ricomposto e ora si trova alla Biblioteca Matenadaran di Erevan. Un fascicolo di sedici pagine è, invece, arrivato alla Biblioteca di San Lazzaro dei padri mechitaristi a Venezia dove tuttora è conservato.

Il culto per il libro diviene atto di venerazione quando si è al cospetto delle Sacre Scritture. Nella liturgia il Vangelo viene incensato; il celebrante non lo regge mai a mani nude ma, quando lo solleva alla vista dei fedeli, si serve di un drappo ricamato. All’inizio della celebrazione – sia gregoriana che cattolica di rito orientale – il sacerdote fa baciare il Vangelo alla persona più in vista della comunità: questo gesto è definito “Astvatzashunçh” che significa “alito di Dio”.3

Si diceva delle scuole di scrittura. Queste avevano sede presso le chiese e i monasteri, dove operavano diversi copisti, la cui opera ci ha permesso di conservare e trasmettere nei secoli oltre ai testi armeni anche tante opere classiche, tradotte in armeno, di cui si è perso l’originale. I copisti in genere firmavano il loro lavoro e nel colophon precisavano il nome del committente, il luogo di stesura e la data. Spesso aggiungevano altri particolari che hanno consentito agli storici di raccogliere una serie di informazioni sugli ambienti e la società in cui le opere furono realizzate.

Attualmente è stata registrata l’esistenza di circa trentamila manoscritti conservati principalmente tra il Matenadaran (Armenia) e Gerusalemme, Venezia, Vienna, Nuova Giulfa (Isfahan, Iran) e Bzommar (Libano); alcuni pezzi si trovano anche in altre raccolte in Europa ed America.

Il Matenadaran è tra tutte la raccolta più ricca, con sedicimila manoscritti – di cui 13.500 in lingua armena antica – che abbracciano svariati temi quali, storia, filosofia, diritto, geografia, medicina, matematica etc. Questa straordinaria biblioteca conserva inoltre tremila antichi manoscritti in arabo, persiano, latino, greco, siriano, slavo antico, georgiano, etiopico ed altre lingue ancora, e un archivio di diecimila documenti antichi. I testi più antichi erano redatti su pergamena, mentre l’impiego della carta risale al decimo secolo, e a partire dal quindicesimo quella prodotta a Damasco era considerata la più pregiata. Particolarmente importante è l’ampio settore dedicato alla storia dell’Armenia. Vi sono conservati gli originali di diversi classici, prima fra tutte La Storia dell’Armenia di Mosè di Corene (V sec.), considerato uno dei massimi storici armeni dell’antichità. Quest’opera che copre la storia armena fino al 440 d.C., spicca per l’impostazione scientifica e laica e contiene riferimenti anche alla storia dei paesi limitrofi. In essa tra l’altro si legge: “Sebbene noi siamo un piccolo popolo, ristretto nel numero, limitato nelle forze e molte volte sottomesso ad una potenza straniera, tuttavia anche nel nostro Paese si sono compiuti molti atti di valore, degni di essere ricordati per iscritto.” (Storia degli Armeni, 1,3) Sono inoltre conservati gli originali delle opere poetiche di Gregorio di Narek (X sec.) e Nerses Shnorhali (XII sec.) e testi scientifici come quelli di Anania di Shirak (VII sec.), autore di una Geografia in cui sostiene che la terra è sferica e fornisce una corretta spiegazione delle eclissi lunari e solari. Dello stesso autore è anche uno dei più antichi manuali di aritmetica.

Il Matenadaran, fondato nel V sec. a Etchmiadzin, presso la residenza del Patriarca Supremo dell’Armenia, venne nazionalizzato nel 1920 dopo la presa del potere da parte del governo sovietico. Nel 1939 fu trasferito a Erevan dove è divenuto sede dell’Istituto dei Manoscritti Antichi. In pieno centro cittadino, alla fine di un lungo viale alberato intestato a Mesrop Mashtots, occupa un possente edificio in granito grigio fronteggiato da diverse statue raffiguranti eminenti scrittori ed intellettuali armeni, al cui centro però troneggia quella di Mesrop affiancato dal discepolo Koriun; a lato, incise nel muro le lettere dell’alfabeto.

Seconda per numero di opere conservate è la biblioteca del Monastero di San Giacobbe degli Armeni a Gerusalemme e terza quella dell’Isola di San Lazzaro degli Armeni a Venezia. Quest’ultima attualmente possiede circa quattromila codici armeni manoscritti, raccolti dalla sua fondazione in avanti e frutto di acquisti e donazioni. Oltre alle opere miniate in armeno, conserva anche preziosissimi testi persiani, arabi, greci, antico slavi ed un autografo di Pietro il Grande. L’Isola e la biblioteca sono meta di visite giornaliere durante tutto l’anno da parte di turisti ed appassionati e costituiscono un punto di riferimento affettivo e culturale per tanti armeni sparsi nel mondo.

Gli armeni, grazie alle intense relazioni commerciali con l’Europa, colsero molto presto le opportunità offerte loro dall’invenzione della stampa. E Venezia giocò un ruolo fondamentale per la conservazione e la diffusione della cultura armena. Nel 1511 fu stampato a Venezia il primo libro armeno,4 ad opera dell’editore Hakob detto “Meghapat” (ovvero “peccatore”): si tratta di una raccolta di massime, proverbi, informazioni e consigli utili ad uso soprattutto degli uomini di mare intitolato Urbat’agirk, ovvero Il Libro del Venerdì. La stampa è bicolore – nero e rosso – con diverse decorazioni in cui le lettere prendono la forma di uccelli e i margini sono istoriati. L’ubicazione della tipografia di Hakob resta tutt’oggi incerta. A questa prima pubblicazione seguirono, tra il 1512 e il 1566, altre sei opere.

Nei due secoli successivi si assisterà ad una espansione dell’editoria armena in altre città italiane ed europee – Ferrara, Roma, Livorno, Vienna, Amsterdam, San Pietroburgo ed altre ancora – con oltre 160 opere pubblicate. Il ruolo principale resta comunque quello esercitato da Venezia. Le ragioni di questa felice collaborazione sono da ricercarsi nella fortuna che molti armeni provenienti dalla Cilicia – il cui regno crollò nel 1375 – trovarono presso la Serenissima. Persa l’indipendenza, questi cercarono uno sbocco verso l’Europa e trovarono in Venezia un contesto particolarmente interessato ai rapporti culturali e commerciali con un Oriente di matrice cristiana. Gli armeni residenti a Venezia raggiunsero le cinquemila unità, lasciando segni tangibili della loro presenza: basti pensare alla Chiesa di Santa Croce degli Armeni e all’attiguo Sotoportego degli Armeni in sestriere San Marco. Tra il 1512 e il 1800 a Venezia diciannove tipografie stampano in armeno: tra queste spiccano nel Settecento quella di Antonio Bortoli, con 121 titoli, e quella di San Lazzaro. Infatti, Mechitar di Sebaste, fondatore della comunità di monaci qui insediatasi nel 1717, convinto che uno dei mezzi più efficaci per concretizzare il proprio apostolato fosse la stampa, promosse la pubblicazione di una serie di opere basilari per la cultura armena. La stamperia da egli stesso avviata, pubblicherà negli anni opere di genere diverso, non solo dottrinale, e curerà la traduzione in lingua armena di classici quali l’Iliade, la Divina Commedia, oltre alle opere di Petrarca, Boccaccio, l’Alfieri, l’Ariosto, Leopardi, Manzoni, Pascoli e molti altri. Inoltre, a partire dal 1843 i Mechitaristi pubblicano il periodico “Bazmavep”, di carattere storico-filologico-letterario, che è una delle più antiche riviste d’Europa.

Il valore attribuito nel corso dei secoli al libro, l’attaccamento alla propria lingua e all’alfabeto originalissimo e perfetto con cui questa è stata trasferita su carta, sono strettamente collegati a quella che Gabriella Uluhogian definisce “tensione verso la cultura”5 propria di tutte le classi sociali armene ed espressa con particolare evidenza nei momenti in cui questo popolo minoritario era circondato da nazioni e genti molto più numerose e potenti.

All’inizio del ‘900 in particolare, in Anatolia orientale, su una popolazione armena per la maggior parte costituita da contadini, artigiani e piccoli commercianti, gli armeni facevano funzionare un numero di scuole in percentuale molto più elevato rispetto a quelle della maggioranza turca. A queste accedevano indifferentemente maschi e femmine e l’alfabetizzazione di queste ultime era molto più elevata rispetto alla restante popolazione. Le famiglie più facoltose invece avevano l’abitudine diffusa di investire nell’istruzione dei figli, che venivano inviati a studiare a Costantinopoli o all’estero, dove mete privilegiate erano Parigi e Venezia.

Note:

  1. G. Uluhogian , Lingua e cultura scritta in GLI ARMENI, Jaca Book Ed. Milano 1998, pag.118.
  2. Ibid. pag. 120.
  3. P. Kuciukian Terza Armenia, Guerini e Associati Ed. Milano 2007, pag. 89.
  4. Il primo libro armeno stampato in Armenia a Etchmiadzin risale al 1771 (vedi Venezia per l’Oriente la nascita del libro armeno di B. Sivazliyan in “Armeni, Ebrei, Greci: stampatori a Venezia” Casa Editrice Armena, Venezia 1989).
  5. G. Uluhogian, Lingua e cultura scritta in GLI ARMENI, Jaca Book Ed. Milano 1998, pag. 120.

 


 

L’ARCANO MONDO DELLA FIABA

 

Come avviene per tante altre culture, anche le fiabe armene hanno radici lontane. Per secoli sono state tramandate principalmente per via orale. In famiglia, narrate dalle metz mayrik, le nonne, quando la famiglia si riuniva, nelle lunghe notti invernali, attorno al tepore del tonir1, o nei luoghi di ritrovo nei villaggi, dove approdavano rapsodi itineranti, gli ashugh, che accompagnavano le loro narrazioni con canti e brani musicali.2

Tra i più antichi autori di fiabe, si annoverano Vardan Aygektsi, che nel 1220 iniziò a scrivere la raccolta nota come Il Libro delle Volpi, e Mekhitar Kosc, mente poliedrica, operante nella prima metà del XII sec., autore di brevi racconti fantastici, ricchi di humor e vere perle di saggezza popolare.

La trascrizione sistematica di questo antico patrimonio culturale iniziò a metà Ottocento, soprattutto con Hovannes Tumanian che fu autore di fiabe egli stesso, oltre che di racconti, poemi epici, ballate e saggi. Altra raccolta fondamentale, molto più recente, è quella curata da Artashes Nazinian, intitolata Fiabe popolari armene, e pubblicata a Erevan nel 1956.

Attualmente in Italia abbiamo ben tre raccolte tradotte nella nostra lingua: un patrimonio considerevole, che ci consente di svolgerne un esame sufficientemente chiaro.3

Pur presentando alcuni degli elementi basilari tipici nelle fiabe di molti paesi, primo fra tutti quello delle prove di coraggio ed astuzia cui viene sottoposto l’eroe protagonista, le fiabe armene hanno una loro specificità e nel contempo abbracciano una gamma tematica molto vasta. “Lo spirito che aleggia nelle fiabe sembrerà talora molto diverso dall’una all’altra, così come erano diversi gli armeni montanari del Caucaso dai paesani delle valli di Cilicia.”4 Cerchiamo comunque di riassumere qui quali sono gli elementi ricorrenti in questo variegato mondo, frutto della fantasia popolare.

I protagonisti innanzi tutto, la maggior parte attinti dalla società contadina, in un mondo in cui i re e le regine hanno spesso ben poco di regale, mostrandosi spicci e ruvidi nei tratti e nell’eloquio. Gli animali umanizzati, presenti quasi in ogni vicenda, assumono il più delle volte caratteristiche diverse da quelle cui la tradizione occidentale ci ha abituati: ad esempio non necessariamente la volpe è scaltra e l’asino stolto. Non mancano poi le mucche-fate, agnelli neri benigni e tori parlanti. La natura assume un valore primario: si presenta come una grande madre saggia e benevola, e rispecchia così il viscerale ed ancestrale amore che gli armeni nutrono per la Terra, prodiga dispensatrice dei suoi frutti. C’è un breve racconto in cui un saggio dialoga con gli alberi che si mostrano alla fine più saggi di lui. Altre figure ricorrenti sono i dev, spiriti folletti, benigni o maligni, a seconda delle situazioni; le hurì invece, sono bellissime fanciulle dalla natura soprannaturale, creature dei boschi e delle acque, una sorta di ninfe, attinte dalla tradizione persiana; infine l’uccello di smeraldo, che possiamo associare all’uccello di fuoco che volteggia in tante fiabe russe.

Anche nella fiaba armena ricorrono caratteristiche formule di apertura e chiusura. La maggior parte delle narrazioni iniziano con “C’era e non c’era” – una vaghezza che incontriamo anche nel frequente “camminarono molto o poco”- e si chiudono con diverse espressioni augurali quali, ad esempio: “Il bene rimanga a noi e il male cada sul nemico!” Specchio invece dell’attaccamento ai frutti della terra, appare la simpatica chiosa finale: “Dal cielo cadano tre pomi: uno per chi ha narrato questa storia, uno per chi ha ascoltato e uno per il mondo intero.”

Per fornire un esempio di questo policromo patrimonio, riportiamo qui un brevissimo racconto, arguto e saggio.5

 

   IL SOLE

   Una volta, molto tempo fa, il Sole cominciò a darsi delle arie e a credersi un Dio. Era l’alba.

   Ma quando, al tramonto, scomparve dietro la Terra, si rese conto della sua vera natura.

 

Note:

  1. Il tonir è il tradizionale forno usato nelle zone rurali, consistente in un foro cilindrico praticato nel pavimento ed usato per la preparazione del pane e       di altri cibi in genere. In inverno era tenuto sempre acceso, essendo l’unica fonte di calore nelle abitazioni. Anche oggi viene usato in Armenia.
  2. Degli ashugh tratteremo più ampiamente nei capitoli dedicati alla letteratura e alla musica.
  3. Si veda: Leggende del popolo armeno a cura di Baykar Sivaziliyan e Scilla Abbiati, Arcana ed. Milano 1988.

Le mele dell’immortalità a cura di Sonia Orfalian, Ed. Guerini e Associati, Milano 2000.

Nazar il prode e altre fiabe armene di H.Tumanian, a cura di Anush Torunian, Sinnos Ed. Roma 2005.

  1. Cfr. Leggende del popolo armeno a cura di Baykar Sivazliyan e Scilla Abbiati, Arcana Ed. Milano 1988.
  2. Ibid. pag.149.

 

 


 

LA LETTERATURA ARMENA: un mondo ancora da esplorare

 

Riesce piuttosto difficile farsi un’idea complessiva della letteratura armena se ci si basa sulle traduzioni e le fonti storico-letterarie reperibili in italiano. Infatti, molto resta ancora da tradurre del vasto patrimonio letterario armeno, e non disponiamo di un vero e proprio compendio sulla storia della letteratura armena scritto nella nostra lingua. Ci limiteremo quindi qui a fornire alcuni elementi, desunti da quanto l’editoria italiana fornisce.

Il genere letterario principe da cui è necessario partire è certamente quello poetico.

Anche se “le origini della poesia armena si perdono nella notte dei tempi,”1 tra i frammenti poetici più antichi a noi pervenuti c’è L’Inno di Vahagn, celebrante la nascita del dio pagano che lotta vittorioso contro il drago malefico. Si presume che questa composizione risalga al secondo millennio a.C. e, come tante storie in versi aventi per protagonisti dèi, eroi e sovrani, sia stata trasmessa oralmente dai bardi, i quali erano soliti cantare tali opere al cospetto di sovrani e nobili, in occasione di feste e celebrazioni. L’Inno di Vahagn è giunto fino a noi grazie alla trascrizione effettuata da Mosè di Chorene (Movses Chorenatsi), il padre della storiografia armena.

Va qui ricordato che sostanzialmente manca una produzione letteraria scritta armena prima del V sec. d. C. e che la poesia armena dell’Alto Medioevo è quasi esclusivamente poesia sacra. Di questa, l’espressione più ricca è il genere dei sharakan, ovvero una sorta di tropari, di inni sacri, inizialmente concepiti per accompagnare il rito religioso e poi divenuti creazioni a sè stanti. Alcuni esempi di sharakan sono dedicati alla Settimana Santa, alla Resurrezione o alla Vergine Maria. Un noto sharakan, considerato capolavoro nel suo genere, è quello composto nel 618 dal Catholicos Komitas e dedicato alla vergine Hriphsime e alle sue trentasei compagne di origine romana che, fuggite dalla persecuzione di Diocleziano, vennero martirizzate dal re armeno Tiridate (Trdat) III. Hriphsime è una delle sante più venerate dagli armeni, e tale sharakan fu composto in occasione della consacrazione della cattedrale a lei dedicata, eretta nei pressi di Etchmiadzin. Questa cattedrale, perfettamente conservata è meta di grande afflusso di turisti e fedeli.

Altro autorevole autore di sharakan fu il Catholikos e santo, Nersēs Shnorali (Colmo di grazie) (1102-1173) che, oltre per la sua produzione innografica, è anche noto per i poemi d’ampio respiro, primo fra tutti, La lamentazione di Edessa.

Ma il “genio assoluto”2 dell’Alto Medioevo, e non solo, è Gregorio di Narek (Grigor Narekatsi) (c.945-c.1005): nelle sue opere, prima fra tutte il capolavoro Il Libro della Lamentazione, “incarna tutte le ansie, tutte le speranze, tutte le lotte del popolo armeno.”3 Opera unica nel suo genere, rappresenta l’incontro-scontro tra la vita e la morte, tra il peccato e la santità. L’autore in un alternarsi di soliloqui e colloqui con Dio, esprime, con espressioni che colpiscono per plasticità e modernità, il proprio travaglio spirituale, l’itinerario interiore che lo porta a divenire una pietra miliare nella cultura e nella religiosità armene. Gregorio di Narek è considerato dai critici una figura basilare della letteratura armena, e dalla Chiesa armena uno dei suoi santi più venerati.

Il X sec. d.C. fu uno dei periodi di massimo splendore nella storia dell’Armenia: vi regnava la dinastia dei Bagratidi, che avevano eretto a propria capitale Ani, celebrata città dalle “mille e una chiese”, le cui rovine si trovano attualmente in territorio turco, ma sono visibili da un promontorio nei pressi della città armena di Gyumri. In questo periodo fu anche edificata, affacciata al Lago di Van, la cattedrale di Aghtamar, gioiello dell’architettura armena. Quindi “come nella meravigliosa arte di Ani e Aghtamar confluiscono tutte le grandi tradizioni artistiche delle aree circostanti l’Armenia, in una originalissima sintesi, così nella poesia di Narekatsi echeggiano le vibrazioni di varie tradizioni culturali, da quella bizantina e siriaca a quella araba.”4

Nei primi secoli dell’era cristiana fino a tutto il Settecento trovano anche diffusione i “romanzi medievali”: racconti di vario argomento – storie di sovrani e principi a sfondo amoroso e d’avventura, racconti fantastico-allegorici, gesta di santi ed eroi, cronache di viaggi e curiosità esotiche. A dispetto del grande successo di pubblico, la narrativa romanzesca fu a lungo considerata un genere minore, escluso dalla letteratura d’arte. Scritti in “volgare” e non in grabar (armeno letterario o classico), e sempre in versi, hanno nel Romanzo di Alessandro, attribuito a Mosè di Corene, il modello più famoso.

Un nuovo genere poetico e l’impiego di un diverso registro linguistico si incontrano comunque a partire dal XIII sec., quando iniziano ad operare artisti che sono autori e cantori assieme. Definiti yergičh fino al XV sec., diventano poi i più noti ashugh. Questi non impiegano più l’armeno antico - che resterà la lingua impiegata in ambito ecclesiastico e storiografico fino alla metà Ottocento - ma il cosiddetto “volgare” per l’introduzione di nuove tematiche, quali l’amore, il vino, l’emigrazione, il lavoro, i doni della terra, il destino. I generi impiegati sono quelli dell’ode, del canto popolare e del romanzo in versi, citato sopra. Tra questi, i canti popolari attirarono l’attenzione di uno studioso italiano, Domenico Ciampoli, che, nel 1921, ne curò una pubblicazione in Italia. Spirito laico, il Ciampoli, dichiara di preferire questo genere alla poesia religiosa armena, e nell’introduzione della raccolta definisce i canti popolari armeni “gemme di quell’Oriente ancor pieno di mistero e meraviglie”5, meritevoli di esser conosciute perché “mescolano in un curioso legame l’ispirazione schiettamente carnale con quella religiosa”. Ed aggiunge: “Questa libera poesia, incantevolmente graziosa e viva, spesso originale ed acuta, costituisce la parte più appassionata e vivace della letteratura armena antica”.6

I canti popolari si distinguono in canti d’amore, canti che accompagnano danze e feste, canti nuziali, canti religiosi e funebri, canti di emigranti, canti nazionali e patriottici, canti evocativi antiche leggende e fiabe. Espressione di un incontro tra Oriente ed Occidente, non sono da considerarsi, in quanto “popolari”, un genere minore, ma ne fu da più parti riconosciuto l’alto livello artistico. Considerevoli, a tal proposito, le parole del poeta russo Valerij Brjusov, che, a partire dal 1915, curando la traduzione antologica in russo della poesia armena, affermò: “ La poesia popolare armena è sempre matura, controllata, […] fonde la passione con la saggezza, cristiana nel fondo”.7

Gli ashugh erano generalmente abili nel cantare in più lingue. Il più importante tra tutti è il celeberrimo Sayath-Nova (1712-1795). Questi operò alla corte georgiana, cantando e componendo con la medesima maestria, in armeno, georgiano e turco azero. Attualmente molte sue composizioni sono oggetto di studio e vengono interpretate da gruppi di musicisti specialisti del settore, non solo in Armenia, ma anche nella diaspora.8

La poesia armena moderna nasce nell’Ottocento e raggiunge la sua massima fioritura tra gli anni 1880 e 1915.

Il Settecento e la prima metà dell’Ottocento sono stati segnati da un notevole fermento culturale a tutto tondo: questo ha investito il campo umanistico, quello delle scienze esatte, senza tralasciare gli studi ecclesiastici. Vengono tradotti in armeno molti capolavori occidentali e codici inediti furono dati alle stampe. Questa prima fase, nota come “La Rinascita”, è seguita, a partire dal 1840, dal movimento noto come “Il Risveglio.” Questa seconda fase non assume solo una connotazione culturale, ma investe anche il campo sociale e politico, grazie all’apporto di molti intellettuali armeni formatisi in occidente – Francia e Italia, in particolare. In Italia i principali poli di attrazione sono Venezia e Padova, grazie al ruolo qui svolto dalla Congregazione Mechitarista.

“Il Risveglio” è in particolare caratterizzato da un’apertura verso le masse popolari e una laicizzazione della cultura; si assiste alla diffusione della stampa quotidiana e all’incremento dell’istruzione di base; evidente è l’influsso del Romanticismo e del Neo-Classicismo, che in Armenia arrivano tardi, sovrapponendosi al Simbolismo e ad altre correnti. Infine, evolve la cruciale “Questione armena”, grazie anche all’influsso delle ideologie di liberazione nazionale e di classe sviluppatesi in Occidente.

La “figura che primeggia per vena creativa, vastità d’orizzonti, profondità riflessiva e compiutezza artistica”9 di questo periodo è Daniel Varujan (1884-1915).

Nato nel villaggio di Perknik, vicino a Sebastia, nel 1896 vive la tragedia della scomparsa del padre, imprigionato senza una ragione dal regime del “sultano rosso” Habdul Hamid II. Questo evento personale e la sciagura collettiva dei massacri perpetrati negli anni 1894-96, oltre che a segnare per sempre la sensibilità del giovane, saranno fonte di ispirazione per molti suoi versi. Dopo aver completato l’istruzione di base a Costantinopoli, grazie all’aiuto dei Mechitaristi, nel 1902 si trasferisce a Venezia per continuare gli studi presso il prestigioso collegio armeno Moorat-Raphael. Tutt’oggi, nell’atrio dell’antico palazzo c’è una lapide, con il ritratto del poeta, che ne ricorda la permanenza. A Venezia Varujan pubblica la sua prima raccolta di poesie, Fremiti, nel 1906. Questa parentesi italiana lo mette a più stretto contatto con la nostra letteratura, tanto che alcune sue composizioni riecheggiano atmosfere leopardiane. Lo stesso Varujan affermò: “Sento che Venezia ha influito su di me con i suoi incantevoli tesori di colori, di ombre, di luci: una città nella quale è impossibile pensare senza immagini.”10

Dal 1906 al 1909 studia all’Università di Gand in Belgio e, terminati gli studi, ritorna in Turchia. Seguiranno, a breve, il matrimonio, il lavoro come precettore prima, e come direttore di scuola, poi. La fama arriva presto, con la pubblicazione di due raccolte, Il Cuore della Stirpe (1909), e Canti pagani (1913). In questo periodo svolge anche un’intensa attività di pubblicista in seno alla rivista “Navasard”, unendosi ideologicamente a quei giovani intellettuali armeni che, formatisi in Occidente, auspicano un futuro di pace e tolleranza reciproca in una società più democratica e aperta, in cui musulmani, ebrei e cristiani, turchi, greci ed armeni, possano convivere armonicamente.

La notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 Daniel Varujan viene prelevato da casa sua e, assieme alla maggior parte degli esponenti dell’élite armena della capitale, scompare. Verrà ucciso a pugnalate il 28 agosto dello stesso anno. Con sé ha un manoscritto, Il Canto del Pane, la raccolta che è considerata il suo capolavoro. Un suo compagno di prigionia sopravvissuto testimonia di averlo visto continuare a creare versi, caparbiamente, fino alla fine.

Il Canto del Pane verrà pubblicato postumo nel 1921, dopo che il suo manoscritto viene fortunosamente recuperato tra i beni sequestrati agli armeni durante il genocidio, e riscattato con moneta sonante.

In tutta la sua produzione è stato osservato uno straordinario “equilibrio tra Oriente ed Occidente, la capacità di armonizzare l’esuberante ricchezza di immagini e la concretezza tutta visiva della fantasia orientale con l’educazione e le suggestioni della cultura occidentale”.11

Se nelle prime raccolte ci imbattiamo sovente nei temi connessi con i massacri pilotati da Abdül Hamid, la perdita del padre, la miseria e la sofferenza dell’emigrazione - senza però mai sfociare nell’odio o nel vittimismo -, nelle ventinove liriche che compongono Il Canto del Pane, è la vita della campagna, con gli eterni cicli della natura, a fare da filo conduttore. Immagini apparentemente semplici, ma in realtà intrise di simboli. Il legame con la terra e suoi cicli vitali si fonde con la figura femminile: entrambe portatrici di vita. Ogni essere vivente appare immerso nell’armonia del creato in cui l’antica fede dei padri si esprime attraverso immagini plastiche, terrene, che ci rimandano ai canti più antichi, in cui oscuri bardi celebravano dèi arcaici.

L’unicità di Varujan, travalica, secondo Antonia Arslan, il genere poetico in quanto tale, poiché le sue poesie sanno essere “storie in versi, canzoni, preghiere, invocazioni d’amore e anche fiabe, piene di colori, di saggezza sapienzale e di fresca vitalità”.12

Gli armeni residenti nei territori della Russia dominati dall’Impero dei Romanov non furono toccati dal genocidio; ebbero in Tiflis (Tiblisi, capitale dell’attuale Georgia) il loro principale centro culturale, che si spostò a Erevan successivamente alla nascita della prima Repubblica Armena Indipendente (1918-1920), e tale rimase anche dopo l’annessione di questa all’Unione Sovietica. Qui si venne a creare un ambiente culturale omogeneo nel quale però non mancano figure di spicco per originalità e spessore artistico.

Elise Ciarenz (Eghishe Çharents, 1897-1937?) è stato considerato dal noto critico francese Luc-André Marcel, assieme a Majakovskij, il più grande poeta della Rivoluzione d’Ottobre e, dopo esordi simbolisti, sarà tra i massimi esponenti del Futurismo. Nativo di Kars, parte per Mosca proprio nell’anno fatale 1915, dove nel 1917 aderisce entusiasta al comunismo. Nel 1919 ritorna in Armenia e vi rimane dopo l’annessione di questa all’Unione Sovietica. Nel 1924 effettua un lungo viaggio, molto formativo, in Europa – Italia compresa – e in Turchia.

La sua produzione maggiore appartiene al periodo 1916-1922, e gode di indiscusso prestigio fino al 1934. Verso il futuro (1920), Poema a tutti (1921), Sonetto rosso (1921) sono pieni di entusiasmo politico e afflati rivoluzionari. Ma in un secondo momento cominciano ad emergere tematiche legate alle antiche origini del suo popolo e alla sua rinascita: l’ultima raccolta, Libro di Viaggio (1933), non dovette risultare gradita alla più oltranzista critica di regime, che dovette riscontrarvi segnali negativi. Tuttavia fino al 1934 aveva continuato a partecipare alle iniziative ufficiali degli scrittori proletari, fino a quel fatale Congresso degli Scrittori a Mosca, presieduto da Maksim Gorki, a seguito del quale fu accusato di “nazionalismo deviante.” In tale importante e rischiosissima sede si era limitato a sottolineare il valore della letteratura armena, auspicando che il suo patrimonio non andasse perduto. “Per quanto piccoli siano un popolo e la sua letteratura – sostenne – questa letteratura non può non possedere una intonazione particolare, unica e non ripetuta, almeno per ciò che è proprio di tale letteratura e dei suoi rappresentanti migliori. Si può affermarlo a priori: senza di che noi ci porremmo, in siffatta questione, da un punto di vista razziale”.13 Nell’ottica attuale tali affermazioni ci appaiono non solo estremamente equilibrate, ma di carattere genuinamente universale. Non così dovette risultare negli anni del paranoico terrore staliniano. Ciarents fu arrestato e tradotto in un lager dove si presume sia morto nel 1937.

In Armenia, non lontano da Erevan, è stato eretto un arco, l’arco di Ciarenz, in granito grigio, che si affaccia su un’ampia vallata, dominata dall’imponente scenario dell’Ararat. Il famoso pittore armeno Mardiros Sarian, oltre ad alcuni ritratti del poeta, ci ha lasciato anche un quadro ad olio, raffigurante questo arco immerso nell’azzurro. Gli armeni amano fermarsi in questo luogo, che sostituisce quella tomba che non c’è, e sono soliti leggervi dei versi di Ciarenz, un po’come i russi hanno sempre fatto a Peredelkino, ritrovandosi sulla tomba di Pasternak.

Destino simile a quello di Ciatenz è stato riservato ad Aksel Bakunts.

Considerato uno dei più importanti scrittori dell’Armenia sovietica, iniziò una promettente carriera come autore di racconti e sceneggiatore, concentrandosi sui temi connessi alla lotta di classe. Ma, al pari di molti intellettuali attivi negli anni ’30, scomparve nel nulla. Si ritiene sia morto nel 1937, e solo nel 1955 la sua figura fu riabilitata e le sue opere vennero riscoperte.

Il Italia sono stati pubblicati i suoi Racconti dal Silenzio: cinque racconti lunghi di ambientazione contadina. Un mondo legato alle antiche tradizioni ed immerso nel silenzio della natura, una natura che diviene essa stessa personaggio nella umanizzazione di un fiore, un albero, un animale. Le condizioni di vita dei protagonisti sono difficili, ma la critica è pacata. Sicuramente dovette mostrarsi troppo pacata dal punto di vista del regime.

Altra figura di rilievo dell’epoca sovietica e molto popolare tutt’oggi in Armenia, e Paruyr Sevak (1924-1971). Nato a Čhanachčhi, un villaggio della regione di Ararat, nell’Armenia orientale e oggi ribattezzato Sevakavan, si mise in luce nel dopoguerra ed in epoca post-staliniana. “Punta di diamante contro la banalità e la piattezza del realismo imperversante negli anni Sessanta […], sperimentò nuove forme di linguaggio, nella caparbia ricerca della verità poetica”.14

Di comprovata fede comunista, svolse anche il prestigioso incarico di segretario della potentissima Unione degli Scrittori. Morì, assieme alla moglie, in un incidente stradale che, da più parti, continua ad esser considerato misterioso.

Personaggio singolarissimo e a se stante è Yervant Odian (1869-1926).

Intellettuale poliedrico, fu giornalista e redattore di diverse testate, autore di romanzi, memorie e testi teatrali, ma si distinse soprattutto per gli scritti satirici. B. L. Zekiyan lo giudica “uno dei migliori curatori di tale genere a livello della storia letteraria europea”.15 In italiano possiamo leggerne Missione a Dzablavar, che già nel sottotitolo – “Epistolario socialista del compagno Phançhuni”- anticipa in parte di cosa si andrà a sorridere. Si tratta di una decina di lettere, inviate da un rivoluzionario logorroico, che oscilla tra un donchisciottesco entusiasmo e un più prosaico e cronico bisogno di soldi, ad un non ben precisato Comitato Centrale. Personaggio e vicenda sono surreali e offrono uno spaccato della società tra fine ‘800 ed inizio ‘900, visto attraverso la brillante ed illuminante lente della satira.

Odian era originario di una colta ed agiata famiglia della borghesia armena di Costantinopoli. Figlio di un diplomatico, ebbe l’opportunità di viaggiare moltissimo, alternando soggiorni all’estero a periodi di permanenza in patria.

Nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1915 viene prelevato da casa ed iniziano quattro anni tra deportazione ed esilio. È uno dei pochi intellettuali armeni a non cadere immediatamente vittima del genocidio. Rientrato a Costantinopoli nel 1919, riprende per un certo periodo la produzione letteraria, ma ormai è segnato irrimediabilmente nel fisico e nello spirito. Morirà al Cairo nel 1926.

Una posizione del tutto particolare è quella occupata da Zabel Yessayan. Nata a Costantinopoli nel 1878, compie gli studi universitari alla Sorbona ed entra a far parte dei circoli intellettuali e letterari parigini. Rientrata nella capitale ottomana, nel 1909 è testimone attonita e dolorosamente impotente delle conseguenze dei massacri di Adana (1909): esperienza espressa nell’opera Nelle rovine, pubblicato già nel 1910 e recentemente tradotto in italiano.

Dopo aver alternativamente soggiornato in Francia ed in Armenia sovietica, si trasferisce definitivamente in quella che sente essere la sua nuova patria in un momento particolarmente difficile e pericoloso quale quello del “Terrore staliniano”: accusata di spionaggio a favore dei servizi segreti francesi, nel 1937 viene arrestata e condannata al gulag. Morirà in Siberia intorno al 1943.

 

Nell’attuale Repubblica Armena sono attive diverse associazioni che promuovono l’attività letteraria, come l’Unione degli Scrittori armeni, di derivazione sovietica, e l’Associazione degli Amici della Letteratura armena. Vengono anche istituiti concorsi e premi letterari e molte sono le riviste del settore pubblicate nel Paese. Tra gli autori contemporanei più affermati, citiamo i poeti Henrik Edoyan, Artem Haruthuyunyan e Rosa Hovannisyan, nella cui opera tradizioni antiche, attaccamento alle origini e problematiche contemporanee si fondono e compenetrano armonicamente.16

 

Voci dalla diaspora

La diaspora non ha mancato di generare personalità letterarie di rilievo e che hanno saputo muoversi sul fecondo terreno dell’interscambio culturale. Figli di due mondi, hanno tramutato questa peculiare esperienza personale in patrimonio creativo.

 

In Italia, la figura più studiata e nota è Hrant Nazariantz, preceduto però da Vittoria Aganoor (1855-1910). Quest’ultima, figlia di un armeno emigrato dall’India, stabilitosi prima a Parigi, poi a Venezia ed infine a Padova, pur non conoscendo la lingua paterna, grazie alla mediazione dei Mechitaristi di San Lazzaro, era riuscita ad approfondire la conoscenza della poesia armena contemporanea: questa, assieme ai racconti del padre, forgeranno il vago misticismo orientaleggiante di cui sono pervasi i suoi versi. La raccolta più famosa, Leggenda eterna (1900) esprime, a detta della stessa autrice, “poca azione e molto sogno”, “poca vita vissuta e molta fantasia.” Vittoria Aganoor è anche nota per aver lasciato un vasto carteggio in cui spicca la corrispondenza con altre scrittrici italiane contemporanee. Da queste pagine emerge un’ansia di libertà e una certa insofferenza per le strutture sociali del tempo, che condizionavano il ruolo della donna.17

Hrant Nazariantz (1886-1962) nasce a Costantinopoli, nel sobborgo di Űsküdar, si diploma nella capitale, quindi prosegue gli studi in Inghilterra e a Parigi. Tornato in patria, svolge un’intensa attività di pubblicista ed aderisce al Partito Armeno Social-Democratico. Nel 1910 pubblica la sua prima raccolta di versi in lingua armena, Sogni crocefissi. Le posizioni politiche assunte e i suoi scritti cominciano a divenire sempre più sgraditi al governo, fino a che non viene accusato di propaganda rivoluzionaria. Con la minaccia di ben due condanne a morte pronunciate nei suoi confronti, riesce a fuggire e ripara in Italia nel 1913, stabilendosi a Bari. Una fuga provvidenziale, poiché gli ha sicuramente risparmiato il triste destino toccato a Varujan e a tanti altri intellettuali armeni.

Una volta in Italia, Nazariantz si attiva subito per far conoscere la causa armena; fonda, nei pressi di Bari, il villaggio di “Nor Arax” per offrire un rifugio agli armeni in fuga dall’Anatolia orientale e vi avvia una fabbrica di tappeti armeni. Nel 1915 è tra i collaboratori del primo numero del periodico “Armeni: Organo degli Armeni d’Italia”, che però cesserà le pubblicazioni nel 1918. In questo periodo allaccia relazioni con molti scrittori italiani, tra cui Ada Negri, Filippo Tommaso Marinetti e Giuseppe Ungaretti.

Possiamo ritenere che Nazariantz seppe, al pari di molti armeni della diaspora, inserirsi culturalmente nel paese ospitante, senza però rinunciare alla propria amenità. In Italia comincia a comporre versi in italiano, traduce dall’inglese, e si rivela “uomo di cultura nel senso più ampio e meno convenzionale del termine, offrendo l’esempio tipico di una collocazione culturale polivalente, pluridimensionale”.18

Tuttavia, nonostante l’impegno da sempre profuso in campo culturale e sociale, nonostante una candidatura al Premio Nobel nel 1953, Nazariantz non ebbe mai vita facile in Italia. Per lunghi anni visse in condizioni precarie e solo poco prima di morire gli fu concessa la cittadinanza italiana.

Delle sue raccolte di poesie ricordiamo le liriche Vahagn (1920), dedicate al mitico eroe armeno e in cui il poeta ripercorre la storia di un’Armenia arcaica ed antica, pagana e da poco cristiana. In tema di analisi letteraria, Nazariantz riscontra infatti una continuità tra la poesia cantata dagli ashugh e quella contemporanea di Varujan ed un’affinità tra poesia colta e poesia popolare.

In italiano compone la raccolta Il Ritorno dei Poeti, in cui ricorrono problematiche introspettive e cosmiche nello stesso tempo; la condizione di esule da una terra devastata è vissuta con profonda solitudine esistenziale e nostalgia: “È triste morire in esilio / il cuore assente su una strada deserta” “L’essere soli al mondo,/ soli vivere e senza focolare” “camminare / stancamente senza posa, ovunque estranei”.19 Ma il dramma personale diviene dramma universale, ispiratore di amore per gli altri, per l’umanità sofferente.

Oltre che poeta, Nazariantz diviene anche critico dell’arte e della letteratura. Nell’aprile 1946 esce “Graal. Mensile di Arte e Pensiero”, cui collabora, tra gli altri, Giuseppe Ungaretti. Obiettivo è quello di operare scambi culturali fra i vari paesi e contribuire alla comprensione tra i popoli e alla pace. Nel 1951 pubblica il Manifesto Graalico in cui dichiara che “Poesia vuol dire religione d’Amore”.20

Dibattendo di poesia armena e poesia occidentale, Nazariantz riscontra che la prima è più unitaria, scevra dagli artifizi accademici in cui spesso sfocia la seconda. A dimostrazione dell’attacamento alle proprie radici culturali, egli cercò di curare una edizione italiana – tramite la Mondatori – di un’ antologia di poeti armeni, ma purtroppo senza successo. Attualmente di questo suo impegno ci è rimasto solo un dattiloscritto.

Spirito instancabile, si dedicò anche al giornalismo, curando una serie di trasmissioni a “Radio Bari”, messe in onda all’arrivo degli Alleati.

Nazariantz fu dunque un intellettuale a tutto tondo, dotato di generosità e coraggio, con il grande merito di aver costantemente fatto da ponte tra la cultura armena e la cultura italiana.

Lasciamo ora l’Italia per trasferirci negli Stati Uniti, dove si è costituita la più numerosa comunità della diaspora armena.

In California, e precisamente a Fresno, nasce nel 1908, da una famiglia recentemente immigrata da Bitlis, William Saroyan.

Personalità eclettica, autore di una vasta produzione in prosa, che spazia dai racconti brevi – giudicate le sue opere migliori – ai testi teatrali e ai romanzi, William Saroyan non ebbe vita facile: orfano di padre, si trovò giovanissimo catapultato nel mondo del lavoro e si costruì una cultura principalmente da autodidatta. Una volta intrapresa la carriera letteraria, ebbe, sia in America che all’estero, momenti di chiara fama e prestigio, alternati ad altri in cui le sue sfortune erano contrassegnate dai conflittuali rapporti con la critica. In Italia fu soggetto a pareri contrapposti: tra i suoi estimatori, Elio Vittorini, che ne tradusse anche alcuni racconti; tra i detrattori, Cesare Pavese.

Lo scrittore muore a Fresno nel 1981, lasciando un vasto repertorio, scritto unicamente in inglese.

Ciò nondimeno in Saroyan la componente armena è indelebile ed evidente. Figura perennemente in bilico tra il “vecchio paese”, “il vecchio mondo” e quello in cui è nato, e di cui si sente parte integrante, riesce a conquistarsi un proprio equilibrio interiore.

 

“Io non sono armeno,” dicevo. “Sono americano.” Bene, la verità è che io sono l’uno e nessuno dei due.

Amo l’Armenia e amo l’America e appartengo ad entrambe, ma sono soltanto questo: un abitante della terra,

come lo siete anche voi, chiunque voi siate.21

 

Il giovane William cresce in un contesto familiare intriso di amenità, a cominciare dalla lingua armena che impara a parlare sin da piccolo, ascoltando le canzoni che la nonna cantava “con furore e con forza”22 e che celebravano le gesta del mitico generale Antranik.

Molti dei racconti brevi sono autobiografici e Saroyan precisa puntualmente quando la conversazione oscilla tra l’inglese e l’armeno. L’armeno appare l’idioma principe del “lessico familiare”, a cominciare dal nome del gatto di casa, battezzato semplicemente “Gadou”- che in armeno significa appunto “gatto”; la lingua del “vecchio mondo” è solitamente impiegata quando le comunicazioni devono essere rapide, incisive ed inequivocabili. Non si poteva disobbedire ad un ordine materno, se era dato in armeno!

Il rapporto psicologico ed affettivo con l’Armenia e con il suo popolo spazia dall’orgoglio quando pensa alla brevissima meteora della prima Repubblica Armena Indipendente, al disincanto nel vederla finire tra le interessate e possenti braccia dell’Unione Sovietica; dall’affettuosa ironia con cui afferma: “Noi barbari dell’Asia Minore siamo gente dai molti capelli,” al più serio e profondo constatare: “Siamo un piccolo popolo noi armeni, e quando uno ne incontra un altro è un avvenimento”.23 Il giovane William si trova sovente coinvolto, suo malgrado, nelle riunioni dei vari comitati armeni della diaspora attivi in California e ricorda che il carismatico zio Vahan leggeva tutti i giorni “l’Asbarez, il nostro giornale armeno, e ci raccontava del dolore e della miseria e della morte del vecchio mondo e della nostra vecchia terra”.24

Fa fatica, Saroyan, ad affrontare il tema del genocidio, non pronuncia mai questa parola. Arriva addirittura a parlarne come “della triste faccenda del 1915”, il che può suonare irriverente; altrove usa termini più sofferti quando, a proposito del 1915, lo definisce “l’anno del dolore fisico e della disgregazione spirituale per la gente del mio paese, e per tutta la gente del mondo.” Il Grande Male degli armeni si compenetra quindi, agli occhi di Saroyan, con la sofferenza che accomuna tutti i popoli che piombano nel vortice di una guerra e pertanto sente di non odiare nessuno, nella convinzione che, tra la gente comune “l’amarezza dell’armeno è anche l’amarezza del turco e che il turco è in sé buono e semplice come l’armeno”.25

Questo atteggiamento, apparentemente quasi neutrale, scompare però quando in un dirompente inno al suo popolo scrive:

 

Mi piacerebbe vedere l’una o l’altra delle potenze armate di questo mondo distruggere questa razza

questa piccola tribù di gente che non ha nessuna importanza. […] Avanti, io dico, distruggete questa

razza. Facciamo conto che sia di nuovo nel 1915. […] Distruggete gli armeni. Voglio vedere se ci

riuscite. Cacciateli dalle loro case nel deserto. Lasciateli senza né pane né acqua. Bruciate le loro case

bruciate le chiese. Voglio vedere se non ritorneranno a vivere. Se non ritorneranno a ridere. Se tutta la

razza intera non tornerà a vivere quando due di loro si incontreranno in una birreria venti anni dopo e

rideranno, e parleranno nella loro lingua. Avanti, voglio vedere se riuscite ad impedir questo.26

 

Note:

1. Cfr. In Forma di Parole – Canto d’Armenia, a cura di Boghos Levon Zekiyan, Litografia “Sognate” Città di Castello, 1998, pag. 17.

2. Ibid. pag. 19.

3. Ibid. pag. 19.

4. Ibid. pag. 19.

5. Cfr. L’Ararat e la gru – Studi sulla storia e la cultura degli armeni di Aldo Ferrari, Ed. Mimesis, Milano 2003, pag.220.

6. Ibid. pag. 221.

7. Ibid. pag. 223.

8. Il più noto è quello denominato “Kotchnak”, di sede a Parigi. Maggiori informazioni verranno date nel capitolo relativo alla musica.

9. Cfr. In Forma di Parole, pag. 28.

  1. Cfr. Hrand Nazariantz – Poeta armano esule in Puglia di Mara Filippozzi, Congedo Ed. Galatina (Lecce) 1987, pag. 39.
  2. Cfr. Mari di grano di Daniel Varujan, a cura di A. Arslan Ed. Paoline 1995, pag. 8.
  3. Ibid. pag. 12.
  4. Cfr. Odi armene di Elise Ciarenz, nell’interpretazione di Mario Verdone, Ed. Ibiskos Ulivieri, Empoli (Firenze) 2007, pag.19.
  5. Cfr. In forma di parole, pag.28.
  6. Cfr. Missione a Dzablavar – Epistolario socialista del compagno Phançhuni di Yervant Odian, a cura di Andrea Scala, postfazione di B. L. Zekiyan, Ed. Lavoro, Roma, 2004.
  7. Per ulteriori informazioni si veda www.bollettino.it N°38 ARMENIA – Anno XIII – maggio 2002.
  8. Si veda in Dame, galline e regine – La scrittura femminile italiana fra ‘800 e ‘900 di Antonia Arslan, a cura di M. Pasqui, Ed. Guerini e Associati, Milano 1998, il capitolo dedicato a Vittoria Aganoor, pp. 167-183.
  9. Cfr. L’Armenia e gli armeni di Boghos Levon Zekiyan, Ed. Guerini e Associati, Milano 2000, pag. 139.
  10. Cfr. Hrand Nazariantz – Poeta armeno esule in Puglia, pag. 42.
  11. Ibid. pag. 27.
  12. Cfr. Che ve ne sembra dell’America? di William Saroyan, trad. di Elio Vittoriani, Arnoldo Mondatori Ed. 1998, pp. 295-296.
  13. Ibid. pag. 288.
  14. Ibid. pag. 22.
  15. Ibid. pag. 90.
  16. Ibid. pag. 288.
  17. Ibid. pag. 53.

 

 

 



 

 

ANTOLOGIA POETICA

 

Allo scopo di dare al lettore un’idea della poesia armena, dalle origini fino ai giorni nostri, abbiamo scelto alcuni brani poetici tra i più significativi, sia dal punto di vista storico-letterario che artistico.

 

Inno di Vahagn

In doglie era il cielo, in doglie era la terra,
in doglie era anche il mare purpureo,
da doglie in mezzo al mare era presa la piccola canna rossa.
Usciva fumo dalla gola della canna,
usciva fiamma dalla gola della canna,
e dalla fiamma balzava un giovinetto biondo.
Di fuoco aveva i capelli,
di fiamma aveva la barba,
e i piccoli occhi erano due soli.

          Traduzione di Boghos Levon Zekiyan

 

 

Sharakan (Inno sacro)
      O fiore mirabile

O fiore mirabile olezzante dall’Eden,
fragranza d’immortalità per i figli di Eva
da cui si sparse la morte per l’universo,
Te con benedizioni magnifichiamo.

Tu, la scioglitrice delle doglie del parto,
che eliminasti la maledizione,
Oriente del sole della vera luce,
Te con benedizioni magnifichiamo.

Sei Tu la nostra interceditrice,
Tu, vergine inesperta di nozze,
Madre immacolata dell’Emmanuele,
tempio della Parola del Padre celeste.
Te con benedizioni magnifichiamo.

 

 

Dal “Libro della Lamentazione” di Gregorio di Narek

                            Parola I

Dal profondo del cuore colloquio con Dio

Voce di gemiti di singhiozzi di pianti, di grida del cuore
innalzo a Te, a Te Veggente dei segreti.
E sul mesto fuoco che l’animo mi brucia, ponendo
l’offerta del frutto dei desideri inceneriti del mio spirito,
       squassato,
col turibolo del mio volere l’invio in alto a Te.
Accogli compiacente questo mio esiguo
tessuto di parole e non adirarti.

[……………]

                         Parola III

Signore mio, o Signore,
datore di doni,
bontà per natura,
il cui dominio si estende su tutti ugualmente,
che solo crei dal nulla ogni cosa.

Glorificato, imperscrutabile, tremendo,terribile,
terrificante, forte, violento,
insostenibile, inaccessibile, inafferrabile,
incomprensibile, ineffabile, invisibile,
insondabile, impalpabile, inesplorabile,
senza principio, senza tempo.

[………….]

Sapore di dolcezza,
coppa di letizia,
pane di vigore per le anime,
amore estraneo ad ogni oscurità,
promessa senza reticenze,

[………….]

Dono irriducibile,
destra che tutto distribuisce,
occhio che vede senza discriminazioni.

Voce di consolazione,
notizia di conforto,
slancio di gioia,
nome vivo,
dito provvido.

           Traduzione di Boghos Levon Zekiyan

 

 

Sayath Nova (1712- 1795)
              Canto XIX (da “In Forma di Parole”)

Voce hai di miele, la parola allusiva
Ti custodisca chi ti ha serva, bella,
Candore di zucchero, vita di gazzella.
Seta di Francia e raso, la mia bella.

Ma a chiamarti satin son stoffe lise,
Se ti chiamo cipresso, poi si recide,
Gazzella si può dire di molte belle…
Di te che dire? Smeraldo, la mia bella.

Se viola ti chiamo, diranno:- È del monte!-
Se gemma, diranno:- Sei fatta di pietra.-
Se luna, diranno:- Di luce sua non splende!-
Solare splendore, la mia bella.

Sempre pellegrino alla tua porta,
Occhi di rosa rossa, d’altea in boccio,
Rosea carta il palmo, la lingua penna,
Gemma emersa dai mari, la mia bella.

Nel cuor mi gettasti il seme d’amore,
La vita m’hai tolta, ritrosa e civetta,
Al tuo Sayath Nova hai dato la morte.
Prenditi la tua rovina, la mia bella.

          Traduzione di Paola Mildonian

 

 

Daniel Varujan ( 1884-1915)
        “Tu sei benedetta fra le donne…”

Maria, quando siedi su questo letto
e io davanti a te, sul tappeto, genuflesso
bacio le vene azzurre
di queste tue mani stillati luce,
sento, Maria, sotto le mie labbra calde
un essere che, goccia a goccia, beve silenzioso il tuo sangue.

Da quella notte, quando colmasti incurante
questo cuscino dei tuoi capelli,
e apristi il tuo seno al piacere, veemente,
che fece scorrere la piena del sudore dalle tue tempie,
e morì la verginità
nel tuo grembo e negli occhi celesti,
da quella notte, dalle ciglia delle tue palpebre
stillò miele; mansueta,
silenziosa tu divenisti,
la colomba dalle piume di neve
che, rannicchiata al sole, sogna
il nido da costruire….

Contemplo, ora, la consunzione soave del tuo volto
e, attraverso la tua camicia aperta, i seni dove
la tua vita si condivide, e tu
dividendoti diventi madre.
In ciascun battito della tua vena io sento
il palpito del mio stesso cuore
e lo sbocciare del fiore del mio sangue,
il cui profumo inebria me e te,
ed è l’amore di noi due.
Sii benedetta, Maria,
tu che con infinita tenerezza
la tua costola mi doni, e le tue ossa
per altre ossa spremi,
tu che divieni il solco
più puro e più fertile di tutti,
e il vaso più bello di tutti
i vasi dei gigli,
sii benedetta, in eterno.

Tu che, saggia, porti
- come gemma preziosa nell’anfora –
l’Uomo impronta di Dio nel profondo del tuo grembo,
sii tu benedetta, o Maria….

          Traduzione di Boghos Levon Zekiyan

 

 

Il carro dei cadaveri

Verso sera per le strade deserte
passa un carro cigolando.
Un cavallo sauro lo tira, dietro
cammina un soldato ubriaco.

È la bara dei massacrati, che va
al cimitero degli Armeni.
Il sole al tramonto distende
sul carro una sindone d’oro.

Il cavallo è magro: trascina a stento
il raccolto dei suoi padroni crudeli.
Con le orecchie pendenti, sembra
riflettere intensamente a quanti

Secoli servono per arrivare all’ultimo
fienile dei santi mietuti ……
E sui muri intorno la sua coda pendente
Spruzza sempre, sempre sangue.

E ancora sangue continua a sgorgare
dai cerchi delle ruote,
come se il carro trasportasse rose, come se fosse
dell’aurora il carro di fuoco.

Sono uno sull’altro i cadaveri, il figlio
nei riccioli della madre avvolto.
Uno ha ficcato l’intero pugno
nella calda ferita aperta dell’altro.

E un vecchio con la mandibola in frantumi
fissa gli occhi nel cielo,
dove una maledizione e una preghiera
si mescolano alla nera vendetta.

L’intestino uscito fuori di un altro
penzola giù dal carro:
un cane da dietro l’afferrae
si dedica a divorarlo.

Non hanno più forma né testa: portano
ferite di mille armi.
Il loro corpo è già fratello alla terra:
ecco, vanno al cimitero.

Su di loro nessuno viene a piangere
o a dare l’estremo saluto:
nel silenzio della città solo l’odore del sangue
va attorno con lo zefiro.

Ma nel buio di finestra in finestra
ecco, candele si accendono:
sono le nonne che pregano di nascosto
sulla bara rossa.

E allora su un balcone
esce bella una vergine,
e piangendo lancia un pugno di rose
sul carro che passa.

 

 

Campo maturo

La mia terra è dorata….
somiglia alla fiamma
il grano brucia
e non si consuma.

La mia terra è dorata…..
il cielo è di fuoco;
il suolo è smosso
sotto gli steli.

La mia terra è dorata……
le spighe in quattro file
si son rivestite
di ambra di sole.

La mia terra è dorata….
passano come lampi
in mezzo alle spighe
vespe e calabroni.

La mia terra è dorata….
dal mare delle onde d’oro
un passero sale,
portato dal vento.

Dormi, terra dorata,
dormi, campo maturo,
raccoglierò il tuo oro
con la falce d’argento.

 

 

Tre sorelle

Erano tre sorelle
simili alle tre Grazie:
le tre belle fecero tre voti
davanti ai tre altari.

La maggiore disse: “Dio del fulmine,
a te dedico i miei capelli d’oro”.

La mediana disse: “Scaltro Imene,
a te offro il mio anello di fuoco”.

La minore disse: “Voluttuosa Asdghig,
prendi la cintura fiorita della mia verginità”.

Colei che dedicò i suoi capelli a Zeus
sette corone di sette nazioni legò
al trono di Ardashes.

Colei che diede il suo anello a Imene
sette meravigliosi eroi generò
alla possente Armenia.

Colei che si tolse la cintura della verginità
quella divenne la sorella sofferente,
e nel bordello vendette melagrane.

          Traduzione di Antonia Arslan e Alfred Hemmat Siraky

 

 

ANTASDAN
(Benedizione per i campi dei quattro angoli del mondo)

Nelle plaghe d’Oriente
sia pace sulla terra…..
non più sangue, ma sudore
irrori le vene dei campi,
e al tocco della campana di ogni paese
sia un canto di benedizione.

Nelle plaghe dell’Occidente
sia fertilità sulla terra….
Che da ogni stella sgorghi la rugiada
e ogni spiga si fonda in oro,
e quando gli agnelli pascoleranno sul monte
germoglino e fioriscano le zolle.

Nelle plaghe dell’Aquilone
sia pienezza sulla terra…..
Che nel mare d’oro del grano
nuoti la falce senza posa,
e quando i granai s’apriranno al frumento
si espanda la gioia.

Nelle plaghe del Meridione
sia ricca di frutti la terra….
Fiorisca il miele degli alveari,
trabocchi dalle coppe il vino,
e quando le spose impasteranno il pane buono
sia il canto dell’amore.

Pubblicata nel 1914 in R. Zartarian, Meghaked (libro di letture per le scuole medie).

          Traduzione di Boghos Levon Zekiyan

 

 

Elise Ciarenz  (1897 - 1937)

I rossi destrieri

Corron veloci i rossi destrieri
i rossi destrieri dal morso di schiuma.
I ferri, incandescenti, avvampano,
gli zoccoli sprizzano fuoco e fiamme.

Si è acceso il cielo di fuoco scarlatto,
i rossi destrieri incendiano il cielo.
Volano a schiere fitte, come raffiche,
ovunque è sfida, tumulto sonoro, angoscia.

Battono i ferri, sprizzano scintille,
come frecce attraversano il futuro:
crollano al vento palazzi di marmo,
ovunque è incendio, e il fuoco è vita.

Volano, volan senza sosta, rapidi,
i rossi destrieri dal morso di schiuma;
bruciano, avvampano le loro orme,
i rossi destrieri di fuoco e di fiamma.

          Nell’interpretazione di Mario Verrdone

 

 

Ode all’Armenia

Io della mia dolce Armenia amo la parola dal sapore di sole,
Della nostra antica lira amo le corde dai pianti di lamento,
Dei fiori color sangue e delle rose il profumo ardente
E delle fanciulle di Nayiri amo la danza morbida e agile.

Amo il nostro cielo turchese, le acque chiare, il lago di luce,
Il sole d’estate e d’inverno la fiera borea stanante il drago,
Le nostre pareti inospitali delle capanne sperdute nel buio
E delle antiche città amo la pietra dei millenni.

Non dimenticherò i nostri canti lamentosi, ovunque io sia,
Non dimenticherò i nostri libri incisi con lo stilo, divenuti preghiera,
Per quanto lacerino il cuore le nostre piaghe sprizzanti sangue,
Amerò ancor più la mia Armenia amorosa, orfana, ardente di sangue.

Non vi è alcun’altra leggenda per il mio cuore colmo di nostalgia,
Simile al Narekatsi e a Kučhak non vi è fronte luminosa,
Attraversa il mondo, non vi è simile all’Ararat vetta bianca,
Qual cammino di gloria inaccessibile, il mio monte Masis io amo.

          Traduzione di Boghos Levon Zekiyan

 

 

Paruyr Sevak ( 1924 - 1971)

Preghiera del nuovo giorno

Già da 10, da 110, da 1010 anni
io ho paura,
ho molta paura
degli infiniti, ottusi credenti
dei multiformi falsi credenti.
Se siete dio, soffiate su tutte le loro candele,
smorzate tutte le loro lampade,
perché….sia la luce!
E in nessun santuario
accettate la lor offerta,
che non è loro,
ma è rubata.
Rifiutate anche la vittima promessa
Perché vittima non sia proprio la….fede:
limpida – sublime
innocente – vera.
E se siete dio,
tenete chiuse anche le vostre orecchie
alle loro insinuanti preghiere,
preghiere meccaniche, automatiche, calcolate,
con le quali ingannano non se stessi,
ma voi.
E capite una volta per sempre
Che sono molto meglio
I bestemmiatori,
perché il loro furore nasce dalla fede:
piagata – sanguinante
bruciata – schiaffeggiata
dolorante – implorante,
la fede bambina
che è nata per generare,
e, se siete padri,
non lasciate
i falsi credenti la uccidano.
Perché se è duro seppellire un bambino
ancor più duro è farlo crescere……………

          Traduzione di Gabriella Uluhogian

 

 

Salve

- Salve, -
Io dico solo questa parola,
Come mostrare il passaporto timbrato,
Come esibire il curriculum,
Come compilare un questionario.

E vorrei,
Vorrei tanto,
Che questa parola fosse
Come un passaporto
Per tutti nel mondo

E vorrei,
Vorrei tanto,
Che questa parola fosse
Come un nuovo e vero……”Apriti, Sesamo!”

- Salve, -
Dirlo al treno,
Alla nave e
All’aereo
Ed entrare come se avessi il biglietto in mano.

- Salve,-
Dirlo ad una donna sconosciuta
Ed essere amato subito,
O sentire da lei,
Che è stata già salutata.

- Salve, -
Dirlo al chiaro cielo
E venga la pioggia di cui c’è bisogno.

- Salve,-
Dirlo alla terra,
E sentire le spighe germogliare.

- Salve,-
Dirlo alla morte,
E farle capire, che è arrivata
Presto, troppo presto.
E
- Salve,-
Diventasse reale e vero “Apriti, Sesamo!”

E se tu dicessi anche all’orso
- Salve,-

Forse lui diventerebbe subito
Un giocattolo per il nostro bimbo.
Un bel giocattolo, che non si rompe e non si rovina.
Così il serpenteDiventerebbe il bastone per gli anziani,
Il coccodrillo,
Diventerebbe la cassa dei giocattoli,
Il cervo selvatico,
Diventerebbe attaccapanni,
La tempesta,
Diventerebbe un gruppo di danzatori
E l’Uomo, Uomo vero….

Non esisterebbero cose impossibili nel mondo,
Se governasse il senso del sano,
Che è diventato
- Salve,-
Nella nostra bocca,

Allora,
Come mostrare il passaporto timbrato,
Come esibire il curriculum,
Come compilare un questionario,
- Salve,-
A te
E
A voi
Cari miei conosciuti e sconosciuti.

Lasciate che l’impossibile diventi possibile
Per tutti nel mondo,
Diventi possibile domani e proprio adesso,
Diventi possibile con la parola sola
- Salve….

          Traduzione di Karen Mirzoian

 

 

Zahrat (pseudonimo di Zareh Yaltëzčian) 1924

La donna che pulisce le lenticchie

Una lenticchia – una lenticchia – delle lenticchie – una lenticchia – un sasso – una lenticchia – una lenticchia – un sasso
Una verde – uno nero – una verde – uno nero – un sasso – una lenticchia verde
Una lenticchia accanto all’altra – un sasso accanto alla lenticchia – d’un colpo una parola – una parola accanto ad una lenticchia
Poi delle parole – una lenticchia – una parola – una parola accanto a un’altra – poi una favella
E parola dopo parola un folle discorso – un canto invecchiato – un vecchio sogno
Poi una vita – una vita diversa – una vita accanto a un’altra – una lenticchia – una vita
Una vita facile – una vita difficile – perché facile – perché difficile
Ma le une accanto alle altre delle vite – una vita – poi una parola – poi una lenticchia Una verde – uno nero – una verde – uno nero –un dolore – un canto verde
Una lenticchia verde – uno nero – un sasso – una lenticchia – un sasso – un sasso – una lenticchia

          Traduzione di Claudio Gugerotti

 

 


 

LA MUSICA ARMENA : identità popolare e religiosa

 

Letteratura religiosa, fiabe, la poesia che va dalle origini al XVI sec., sono strettamente legate nell’universo armeno, all’arte della musica.

A Parigi, guidati da Aram Kerovpyan e Virginia Pattie Kerovpyan, gli Ensemble “Kotchnak” e “Akn”, da quasi un ventennio studiano ed interpretano, nella loro versione originale, la musica tradizionale sia sacra che profana, effettuando una straordinaria opera di conservazione e riscoperta di un patrimonio culturale vasto e singolarissimo. Il loro ricco repertorio è proprio una dimostrazione di quanto musica e poesia armene siano state storicamente collegate da un lungo filo rosso.

Le origini della musica armena non sono di facile collocazione. Miniature ed incisioni raffiguranti esecuzioni musicali in epoca pre-cristiana e pitture rupestri del secondo e terzo millennio a.C. con scene di danze rituali, assieme al ritrovamento di antichi strumenti musicali – campane, battagli, corni – risalenti al secondo e primo millennio a.C., sono tra i documenti più antichi in possesso degli storici.1 Già in epoca pre-cristiana, canti d’amore, di guerra o celebrativi avvenimenti particolari erano oggetto di gare tra cantori che si accompagnavano con strumenti a fiato, come il k’nar; a corde, come il bambirn; o a percussione, quali piatti e tamburi.

Dobbiamo comunque attendere il IV sec.d.C. perché sia possibile documentare con sistematicità espressioni musicali sia in ambito popolare che liturgico. Ed entrambi gli ambiti hanno, nel corso dei secoli raggiunto risultati di alto livello artistico.

Il V sec. d.C., definito dagli storici “il secolo d’oro,” poiché vide la nascita dell’alfabeto armeno e di una letteratura armena, in campo musicale è contrassegnato dalla traduzione in armeno di tropari e canti liturgici e dalla composizione di altri inni sacri originali. Allo stesso Mesrop Mashtots sono attribuite diverse creazioni, e lo stesso vale per lo storico Mosè di Corene. Questi attribuiva, nell’ottica storiografica, grande importanza alla musica, considerandola un elemento distintivo dell’identità nazionale.

La musica liturgica armena è tradizionalmente monodica. Fino al VII sec. si assiste ad un’esuberante produzione di canti liturgici, ma non tutti artisticamente validi. Quando il clero ne diviene consapevole, convoca nel 645 un sinodo dei vescovi, che incarica il monaco Barsegh Tchon, esperto musicista, di effettuare una cernita delle composizioni migliori. Viene quindi redatta una raccolta sotto il titolo di Tchonëntir.

Il sistema musicale armeno ha subito nel corso dei secoli più di una modificazione. Da un sistema basato sull’accento grammaticale, si è passati a quello basato sui neumi, simile a quello greco e bizantino, che è perdurato fino alla metà del XIX sec., quando è stato abbandonato per lasciar posto al sistema di notazione occidentale.

Tra il X e il XIII sec. si assiste ad una riforma della musica liturgica, il cui fine ultimo è l’instaurazione di un rapporto più intenso tra la Chiesa e il popolo, dopo che si era gradualmente venuto a creare un distacco nei secoli precedenti. Era necessario quindi recuperare il rapporto con i fedeli.2 Il nome di maggior rilievo in quest’opera di riforma e di riconquista dell’attenzione da parte del popolo, è quello del catholicos San Nerses Shnorhali, che di tropari, inni, odi e canti liturgici compose non solo le parole, ma anche la musica. Questi non ebbe solo il merito di aver ricondotto la Chiesa ad una spiritualità più autentica di ispirazione francescana, ma, in ambito specificatamente artistico, apportò molte innovazioni nell’impiego della metrica, nell’uso di immagini semplici ed immediate, e nell’impiego di un ritmo simile a quello del canto popolare; inoltre si fece promotore dell’apertura di diversi centri studi. Nerses Shnorhali fu anche autore di canti profani e patriottici, in cui emerge un profondo amore per la natura.

Nel 1375 l’Armenia, e precisamente il Regno di Cilicia, perde la propria indipendenza per mano dei mamelucchi d’Egitto. Seguiranno periodi in cui gli armeni saranno soggetti alle dominazioni turca e persiana. In questa fase di crisi politica si afferma con particolare incisività il vasto movimento degli ashugh 3, i trovatori. Costoro avevano incontrato, specie nel “secolo d’oro”, una certa ostilità da parte della Chiesa, mentre a partire dal XIV sec. fino a tutto il XVIII si assiste ad una grande fioritura della musica popolare, di cui gli ashugh sono gli autori ed interpreti principali. Figure di artisti poliedrici, compongono versi e musica dei canti, che interpretano accompagnandosi con strumenti tipici dell’epoca. Il tema principe è quello dell’amore. Il loro contributo culturale è stato enorme: non solo hanno creato opere poeticamente e musicalmente di grande originalità, ma hanno anche il merito di aver tramandato un patrimonio di leggende, miti e fiabe dalle radici lontane e che avrebbero rischiato di cadere nell’oblio. Diventare ashugh non era impresa facile. Basti sapere che tra il XVI e il XX secolo, mediamente ogni tre anni veniva designato un nuovo ashugh tra gli armeni. I candidati al titolo dovevano cimentarsi in competizioni canore, gareggiando al cospetto di maestri di canto. Queste manifestazioni avevano luogo presso il monastero di Surp Karapet (San Giovanni Battista) a Mush, santo che è stato proclamato patrono dei trovatori.

Il maggiore fra tutti gli ashugh è stato Sayath Nova (1712-1795), il cui vero nome era Harutiun: egli infatti assunse quello con cui è da tutti conosciuto quando fu proclamato ashugh. Di lui il poeta simbolista russo Valerij Brusov, cui va il merito di aver tradotto in russo un’ampia antologia di poesia armena, scrisse: “Con la forza del suo ingegno trasformò il mestiere di cantore popolare nella nobile vocazione del poeta.”4 Poliglotta, cantava e componeva in armeno, georgiano, turco e azero. Operò lungamente presso la corte della Georgia; prese i voti monacali dopo la morte della moglie e fu ucciso dai persiani nel 1795, mentre si trovava in chiesa. Sayath Nova ebbe la lungimiranza di lasciare i manoscritti delle sue composizioni. Iniziativa rara tra i trovatori coevi. I suoi scritti furono pubblicati per la prima volta a Mosca nel 1852 ed ottennero un immediato successo. Di lui ci restano catalogate 128 composizioni in lingua turca, 66 in armeno, 35 in georgiano: questi testi erano stati accuratamente annotati dall’autore a partire dal 1765.

La vita e l’opera di Sayath Nova costituiscono il soggetto del film “Il Colore del Melograno” diretto da Sergej Paražhanov, uno degli artisti più eclettici e fantasticanti della recente storia armena.

Gli ashugh si accompagnavano nel canto con diversi strumenti musicali di cui ancor oggi si conserva con cura la tradizione: tra i tanti, i più popolari sono il tar, la kamancha, il saz e il kanun tra gli strumenti a corda; il dap, a percussione; lo zurna, il parkabzug, il t’hol e il duduk, strumenti a fiato. Quest’ultimo merita però una parentesi a parte, essendo divenuto, nel tempo, non solo il più noto strumento armeno, ma quasi una delle icone dell’armenità.

Simile al clarinetto, è ricavato dal legno di albicocco, lasciato essiccare per almeno due anni. Il musicista ed etnomusicologo Gregorio Bardini, che si è lungamente occupato di musica armena, definisce il duduk “strumento meraviglioso, mistico, dal suono caldo e penetrante, ma sobrio. […] Espressione dell’anima armena, della spiritualità di questo popolo.”5 In Armenia attualmente il più grande maestro di duduk e Djivan Gasparyan, le cui incisioni sono pubblicate in diversi paesi. La sua fama crebbe significativamente quando stabilì una collaborazione con Peter Gabriel, cantante dei Genesis, che inserì il duduk in alcune sue canzoni. Il duduk è stato anche utilizzato nelle colonne sonore dei film “The Last Temptation of Christ” e “Dead Man Walking”.

A metà del XVIII sec. si verifica una sorta di risveglio culturale in seno alla gerarchia ecclesiastica che, resasi conto di quanto incisiva stesse diventando l’influenza della musica islamica, sente la necessità di attuare iniziative al fine di salvaguardare il proprio patrimonio culturale. Viene ideato un nuovo sistema musicale attraverso l’elaborazione di quello basato sui neumi, cui, come già si è accennato, seguirà, a metà Ottocento quello di tipo occidentale. Nel 1871 viene pubblicato a Etchmjadzin un repertorio di inni sacri, l’ “Atian Sharkan”, cui seguirà un secondo, di lì a poco.

Questo è considerato un momento di svolta nella storia della musica armena, sia sacra che profana. Infatti i musicisti armeni cominciano a formarsi nei conservatori europei ed intraprendono carriere di tipo professionale.

Tigran Tchokhadjian, nato a Costantinopoli, studiò a Milano, forse con Giuseppe Verdi. Nelle sue composizioni appare evidente l’influsso del melodramma italiano. Tornato a Costantinopoli, forma il primo coro professionale nella storia della città.

Pietroburgo, sotto l’autorevole guida di Rimskij Korsakov, è polo di attrazione per diversi musicisti, come Nikoghos Tigranian, Makar Ekmalian e Aleksandr Spendarian. Quest’ultimo è stato uno dei grandi artefici del rinnovamento della vita musicale armena. Dopo una prima fase artistica che lo vede operante in Russia, dove ottiene grandi successi, nel 1927 si stabilisce nell’Armenia Sovietica: qui fonda il primo conservatorio nazionale ed istituisce a Erevan la prima orchestra filarmonica. A lui è attribuito il merito di aver per primo dato notorietà internazionale alla musica popolare armena. Nikoghos Tigranian, non vedente dall’età di otto anni, compone per pianoforte e fonda a Leninakan il primo conservatorio per ciechi. Armen Tigranian è invece noto soprattutto per aver composto due opere di ispirazione prettamente armena, quali “Anush”, tratta da una leggenda popolare, e “Davit Bek”, su tema storico.6

Il musicista più amato dagli armeni, colui che li rappresenta maggiormente e in cui si identificano, è senza dubbio Komitas Vartapet. Figura geniale, dalla vita intensa e drammatica.

Nato a Kütahya nel 1869, il suo vero nome è Soghomon Soghomonian. Entrambi i genitori sono musicalmente dotati e gli trasmettono l’amore per la musica. Il giovane Soghomon purtroppo rimane orfano molto presto. Gli zii, cui viene affidato, lo avviano agli studi seminariali a Etchmiadzin dove impara l’armeno (prima era in grado di esprimersi solo in turco), e studia musica con l’illustre compositore Khristaphor Kara-Murza, che lo introduce alla tradizione della musica armena sacra e profana. In questo primo periodo di permanenza in seminario, che va dal 1881 al 1893, il giovane Soghomon comincia ad intraprendere quegli studi etnomusicologici che lo porteranno, per anni, a girare di villaggio in villaggio, alla ricerca di canti popolari contadini, che saranno da lui raccolti con sistematicità, rielaborati e fatti conoscere ad un pubblico sempre più vasto. Senza di lui questo patrimonio culturale sarebbe andato probabilmente in massima parte perduto. Avedis Nazarian, musicista armeno contemporaneo residente in Italia, afferma che Komitas ebbe “il merito di aver portato il canto popolare ad un livello altissimo, ponendo le fondamenta della musica sinfonica ed orchestrale armena.”7

Con questa sua capillare ricerca Komitas intendeva andare alle radici della musica armena, partendo da canti di epoca pre-cristiana e non tralasciando espressioni musicali turche e curde. La tipologia dei canti raccolti è ampia: troviamo l’horovel, legato alla vita dei campi, canti domestici, ninne-nanne, canti patriottici, canti di montagna e di pianura, canti accompagnatori di danze maschili e femminili, canti d’amore, canti rituali - di nozze, di lamentazione, di funerale, per festività specifiche, - canti di emigrazione, tra cui uno divenuto celebre, dedicato alla gru, uccello che nell’immaginario armeno simboleggia la diaspora.

Tra il 1896 e il 1899 il giovane Soghomon, che non ha ancora pronunciato i voti, risiede a Berlino, dove approfondisce i propri studi musicali ed universitari, occupandosi di Filosofia della musica. Ritornato a Etchmiadzin, viene ordinato sacerdote e diviene “vardapet”, ovvero dottore in teologia. Come previsto dalle norme ecclesiastiche, deve scegliersi un nuovo nome. La scelta cade su “Komitas”, che era stato un illustre monaco del VII sec., autore di importanti inni sacri. Ha inizio per lui un periodo molto intenso sia in ambito creativo che didattico. Da insegnante di musica in seminario, diviene direttore di musica della Santa Sede e direttore del coro della Cattedrale Madre a Etchmiadzin. Nel 1892 inizia a comporre la Divina Liturgia, che resterà incompleta a causa del genocidio.

Il 1 dicembre 1906 si reca a Parigi dove tiene un concerto su invito dell’Associazione degli Armeni di Parigi. Il successo è straordinario, con ampi consensi da parte della più esigente stampa francese specialistica, dove si legge: “Il concerto è stato una rivelazione, una meraviglia […]. Nessuno di noi poteva supporre la bellezza di quest’arte, che non è in realtà né europea, né orientale, ma possiede un carattere unico al mondo di dolcezza, di emozione penetrante e di tenerezza.”(Louis Laloy in “Le Mercuri Musical”)8

Komitas viene invitato quindi a Zurigo, Losanna, Ginevra, senza tralasciare di esibirsi in terra caucasica, e precisamente in Georgia, Azerbajgian e Armenia. Suscita anche l’interesse di musicisti illustri come Debussy e Stravinskij.

Tra il 1902 e il 1906 compone “Sei Danze” per pianoforte, in cui si percepisce un marcato influsso delle danze popolari armene. In queste sue composizioni, secondo Bardini, Komitas utilizza uno strumento tipico della tradizione occidentale, quale è il pianoforte, in chiave originalissima, non convenzionale, “avvicinandolo, per quanto possibile, alla voce umana e agli strumenti della tradizione popolare armena.”9

Komitas compose anche canti popolari, patriottici originali, spaziando quindi tra la musica sacra e quella profana. Questa sua duplice sfera di interessi, unitamente agli impegni concertistici mondani in cui era spesso coinvolto, cominciarono ad essere mal tollerati dalla gerarchia ecclesiastica. Quando i rapporti si fecero particolarmente tesi, Komitas, sia pure con grande sofferenza personale, decise di trasferirsi a Costantinopoli.

Spirito innovatore, tra il 1912 e il 1913, registra a Parigi, su dischi da 78 giri, delle incisioni fonografiche. Nella stessa capitale francese, l’anno successivo, partecipa al V° Congresso della Società Internazionale di Musica e, grazie al suo intervento, la musica armena viene conosciuta internazionalmente e suscita grandi entusiasmi. Komitas stesso, in questa occasione, sfatando alcuni luoghi comuni che la volevano tendenzialmente triste, delicata e melanconica, afferma che essa, al contrario “presenta forza e vitalità, al suo interno vive una filosofia, il vero spirito della sua stirpe” di cui è lo specchio più autentico.10 Il prestigio internazionale non serve però a mitigare una crescente ostilità che Komitas incontra in patria, dove deve affrontare due fronti. Il 9 giugno 1914 viene annunciata l’imminente uscita di un disco a grammofono in cui l’allora noto tenore Armenak Shahmouradian 11 cantava su accompagnamento musicale dello stesso Komitas: poiché nel disco erano inseriti alcuni pezzi di musica sacra, l’Assemblea religiosa gridò allo scandalo, accusando il musicista di aver svilito e svenduto un patrimonio culturale che doveva essere assoluto appannaggio della Chiesa. A nulla gli valse il sostegno della stampa: Komitas era ormai stato moralmente condannato, senza possibilità di appello.

All’ostilità della Chiesa si aggiunge, per ragioni culturali ed ideologiche, quella dei turchi che si dimostrano sempre più infastiditi dal fatto che, attraverso la valorizzazione del patrimonio musicale armeno e la chiara fama da questo raggiunto a livello internazionale, l’opera di Komitas può risultare una efficace cassa di risonanza della causa armena. Komitas diventa quindi figura sempre più scomoda per tutti, in un momento in cui ogni armeno è in pericolo.

Durante il genocidio subisce la deportazione. Sopravvive, anche grazie all’intervanto dell’ambasciatore statunitense Henry Morgenthau, ma il suo equilibrio mentale resta definitivamente compromesso. Nel 1916 viene ricoverato in un ospedale psichiatrico di Parigi, dove muore nel 1935. Le sue spoglie riposano tra i grandi d’Armenia e il conservatorio di Erevan porta il suo nome.

Si calcola che gran parte delle sue raccolte siano andate perdute durante il genocidio: oggi restano 72 canti polifonici, diversi canti a pianoforte, un Messa polifonica, canti liturgici e studi sulla musica armena. Tuttavia, grazie ad una straordinaria opera di restauro del suono, è possibile ascoltare incisioni originali sia di esecuzioni al pianoforte e all’organo di Komitas, sia la sua voce baritonale in veste di cantante. Si tratta di incisioni realizzate a Parigi nel 1912 e che comprendono sia canti religiosi, che profani.

Altri nomi possono esser fatti tra i musicisti armeni. Il più noto al grande pubblico è Aram Kachaturian (1903-1978), che erroneamente è spesso annoverato tra i russi, data la la sua prevalente permanenza in Russia. Tra le tante sue opere, basti qui citare il balletto “Gayane”, che fa rivivere lo spirito del folklore armeno nella musica sinfonica; in quest’opera è inserito il celebre brano La danza delle spade. Oltre che per i suoi noti meriti artistici, deve in questa sede essere anche ricordato per il contributo che diede alla diffusione dell’opera di Komitas nel mondo.

Negli Stati Uniti deve essere menzionato Alan Hovhannes, mentre in Italia meritano particolare attenzione Angelo Ephrikian e Avedis Nazarian.

Alan Hovhaness Chakmakijan, divenuto famoso come Alan Hovhannes, è nato nel Massachusetts nel 1911. I primi stimoli creativi del compositore furono gli studi di astronomia da un lato, e la musica di Komitas dall’altro. Successivamente le culture e tradizioni musicali di paesi quali l’India e la Cina ampliarono ulteriormente il suo patrimonio di fonti d’ispirazione, tanto che la sua musica è vista come una sintesi originalissima di elementi occidentali ed orientali. Tra le sue diverse composizioni ve n’è una, intitolata Celestial Fantasy, dedicata al santo e mistico poeta armeno Nerses Shnorhali.

Angelo Ephrikian (1913-1982), trevigiano, ha il merito di aver riscoperto e rivitalizzato le musiche di Antonio Vivaldi. Fu inoltre direttore d’orchesta da camera e alla guida de “I Filarmonici” di Bologna. La figlia Laura, attrice, è stata moglie del noto cantante Gianni Morandi.

Avedis Nazarian, nato nel 1930 a Kharpert (Turchia), ma di lì subito trapiantato ad Aleppo, è giunto in Italia nel 1954 ed è cittadino italiano dal 1968. Vive in provincia di Venezia. Esperto di didattica musicale e docente egli stesso, ha partecipato e si è fatto promotore di simposi sulla musica contemporanea armena, in Armenia e in Francia. Dagli anni ’60 si dedica allo studio e alla ricerca di autori italiani che, nelle loro composizioni, si sono ispirati a temi o poesie armene. Su sollecitazione dei politici locali veneti, si è impegnato sul fronte dell’intensificazione dei rapporti culturali tra Armenia e l’Italia. Già nel 1955, sotto la sua guida, viene fondata a Venezia l’ “Unione degli Studenti Armeni”, che ha lo scopo di organizzare manifestazioni in collaborazione con il Comune, la Provincia e la Regione Veneto. Negli anni ’70 nasce, in seno all’Associazione Italia-URSS a Roma il “Centro culturale armeno C. Zarian”, che organizza convegni e viaggi a tema in Armenia. Nel 1989 incontra la Commissione del Senato per esporre la questione del riconoscimento del genocidio. Nazarian è anche autore di musiche orchestrali, da camera, corali e strumentali.

In Italia, con una discreta pazienza e perseveranza, è possibile trovare CD di musica armena in negozi specializzati, sensibili anche alle produzioni “di nicchia”. In particolare sono rinvenibili esecuzioni di Gasparyan, tratte dal repertorio tradizionale armeno.

Note:

  1. Cfr. Padre Komitas – Musica e spiritualità armena di Gregorio Bardini, Simmetria Ed. Roma 2006, pp.105,106.
  2. Avedis Nazarian. Lineamenti di storia musicale armena in Incontro con il popolo dell’Ararat: Armenia Consiglio Regionale del Veneto -Tipografia Armena Venezia 1987, pag.112.
  3. I trovatori dell’Armenia sono noti anche come gusan, termine più antico dell’ashugh, già in unso in epoca precristiana e usato anche nella traduzione della Bibbia (V sec.). Nel Medioevo erano chiamati anche taghergu o taghasats, ovvero “cantori di odi” o “poeti di odi”. Il termine ashugh, attribuito ai trovatori del Vicino Oriente, ha fatto la sua comparsa tra gli armeni nel XVI sec.
  4. Avedis Nazarian, già cit. pag.113.
  5. Gregorio Bardini, già cit. pag. 119.
  6. Davit Bek fu il condottiero di una rivolta popolare armena contro l’oppressione persiana e turca svoltasi ad inizio ‘700 nelle regioni montuose del Garabagh e del Siwnik’ e che intendeva sfruttare il momento favorevole della prima spedizione caucasica dei russi guidata da Pietro il Grande. Su questa figura si veda: Le guerre di Dawit’ Bēk – Un eroe armeno del XVIII secolo a cura di Aldo Ferrari, Guerini e Associati Ed. Milano 1997.
  7. A. Nazarian, già cit. pag.114.
  8. G. Bardini, già cit. pag. 30.
  9. Ibid. pag. 83.
  10. Ibid. pag. 98.
  11. Nato a Mush nel 1878 e morto in Francia nel 1939, Mourdarian incise molte raccolte di Komitas, alcune conservate e tutt’oggi reperibili.

 


 

TAVOLOZZA ARMENA : dalla pittura all’artigianato

 

Non è facile, restando in Italia e basandosi sulla bibliografia reperibile nel nostro Paese, farsi un’idea il più possibile composita dell’evoluzione della pittura armena. Altro è aver modo di visitare musei e pinacoteche in Armenia, dove – come al Museo Storico di Erevan, situato nella centralissima Piazza della Repubblica – possiamo ripercorrere la storia dell’arte armena, dalle origini fino ai giorni nostri.

Qui comunque ci limiteremo ad offrire solo alcune indicazioni, facendo riferimento a quanto può essere visionato in Italia e a Venezia in particolare.

Una delle prime rilevanti espressioni pittoriche armene è offerta dai codici miniati. Lo straordinario patrimonio dell’Isola di San Lazzaro ci conserte di ammirare miniature raffinatissime e molto singolari. Poiché caratteristica tipica del manoscritto miniato armeno è – come già detto in precedenza – la presenza del colophon, questo ci consente spesso di conoscere non solo il nome dell’autore del testo, ma anche quello dell’artista che ha realizzato le miniature. Tra i tanti nomi storicamente emersi primeggia quello di Thoros Roslin, che visse e operò nella seconda metà del XIII sec., seguito da Sargis Pitzak, vissuto nella prima metà del XIV sec.

Le miniature armene coprono un arco temporale molto ampio, che va dal IX al XIX sec., ma il XIII secolo è stato definito il “periodo aureo” di quest’arte.1 Da un’analisi generale vi osserviamo una serie di elementi ricorrenti, quali svariati inserti vegetali e zoomorfi, laboriosi arabeschi e lunette molto elaborate. Tra gli animali ricorrono la gru assieme ad un ampio campionario ornitologico e diversi leoni araldici; il mondo vegetale comprende numerosi alberi da frutto, fra cui l’inconfondibile ed irrinunciabile melograno, e fantasiose composizioni floreali. Particolarmente interessanti appaiono i capilettera. Spesso molto enfatizzati, possono in taluni casi estendersi per quasi tutta l’altezza della pagina. Ricorrenti le croci, da cui si dipartono foglie, fiori e intrecci di virgulti. Talune miniature occupano un’intera pagina, in apertura del testo scritto: questo specialmente quando raffigurano gli Evangelisti o eventi sacri quali l’Annunciazione, la Natività, etc. Le figure si mostrano ieratiche, assorte, spesso isolate o separate dal fondo mediante un drappo appeso alle loro spalle.

La tavolozza è molto ricca, con un raffinato gioco di sfumature. Secondo quanto testimoniato dallo scrittore Vrthanes Kertogh, vissuto a cavallo tra il VI e il VII sec., i colori usati erano il risultato di un assortimento di ingredienti naturali combinati assieme, secondo ricette segrete, tramandate da padre in figlio: tra questi ingredienti troviamo la gomma, il vetriolo, latte, uova, arsenico, verderame, calce, camomilla, lapislazzuli. Il tutto mantenuto pressocchè inalterato grazie alle proprietà adesive e disinfettanti del succo d’aglio, che fungeva da diluente.

La maggior parte del più prezioso patrimonio di miniature fu realizzato in Cilicia, tuttavia tale tradizione perdurò oltre il crollo del suo regno, continuando in centri diasporici come Costantinopoli e Nuova Giulfa. In entrambe le sedi la miniatura godette del sostegno dei ceti agiati, soprattutto mercantili, e si sviluppò secondo due indirizzi: uno più legato alla tradizione e uno sensibilmente influenzato da modelli occidentali. Sono stati anche catalogati una settantina di manoscritti miniati realizzati in Italia, in conventi di monaci armeni. Risalgono, ad esempio, al XIII sec. due Evangelari miniati, di cui uno appare più legato alla tradizione, mentre un secondo inserisce elementi nuovi, quali edifici porticati, strutture turrite e merlate, baldacchini di chiaro richiamo locale. La gamma cromatica appare qui piuttosto limitata: i colori base – nero, rosso, giallo e celeste – sono accostati senza le sfumature intermedie caratteristiche delle opere ciliciane.

La tradizione della miniatura ha lasciato un segno profondo nella cultura e nella coscienza armene, e una sorta di legame atavico con essa emerge nelle opere di due pittori armeni noti anche in Italia: Martiros Sarian e Gerardo Orakian.

 

Martiros Sarian (1880-1972) fu definito da Renato Guttuso “un pittore forte e gentile, cui spetta un posto di rilievo tra i pochi veri artisti della prima metà di questo nostro XX secolo”.2

Artista di statura internazionale, Sarian attinse ispirazione dalla cultura russa, da quella occidentale – francese in particolare – e da quella armena antica, dando vita ad una produzione vastissima, che, non a caso, firmò ora in caratteri armeni, ora in cirillico, ora in lettere latine.

Nato in Russia, nei pressi di Rostov-sul-Don, studia a Mosca e visita l’Armenia per la prima volta nel 1901. L’impatto con la natura, il territorio, la luce e i colori del paese, lasciano un segno profondo, assieme ai primi contatti con la cultura popolare. Ne deriva un ciclo pittorico denominato Fiabe e sogni, in cui è evidente l’influsso del Simbolismo: qui persone, piante e animali dialogano armonicamente e “le radici di questo dialogo affondano nel passato […] tipico delle fiabe e delle canzoni popolari”.3

Già nel 1909 però si discosta dai soggetti fiabesco-fantastici per concentrarsi maggiormente sulla figura umana, dipingendo volti severi, assorti che ricordano i tratti delle antiche miniature; il tutto però avvolto in una luce calda, solare, sprigionata da uno straordinario uso del colore.4

Sarian era già divenuto un artista affermato in Russia, quando nel 1915 la sua ispirazione subì una brusca battuta di arresto a seguito della visione traumatica degli effetti del genocidio. Dopo cinque anni in cui la depressione ne aveva annichilito la creatività, nel 1920 decise di trasferirsi definitivamente in Armenia, a Erevan, dove riprese a dipingere. Da questo momento l’Armenia diventa il tema principale delle sue opere. Di quello che ormai è divenuto il suo paese, ci fornisce l’immagine di una terra biblica, paradisiaca, in cui colore, luce, natura appaiono immersi in un’immutabile armonia.

Sarian godette di fama internazionale, grazie alle numerose esposizioni nelle più importanti città europee, a partire dal 1909. Partecipò anche a cinque Biennali di Venezia. A Erevan la sua casa museo raccoglie oltre ad una vastissima produzione pittorica dagli inizi della sua carriera fino alle ultime opere, una serie di documenti storici che attengono ai momenti salienti della sua vita.

A San Lazzaro sono esposti alcuni dipinti dell’artista.

 

Gerardo Orakian (1901-1962) non ebbe pari fortuna. La vita di questo artista è stata associata, per taluni aspetti, a quella del poeta Hrant Nazatiantz. Entrambi formatisi culturalmente a Costantinopoli, entrambi spiriti ribelli e presto membri di organizzazioni studentesche non gradite al governo ottomano, entrambi esuli in Italia dopo essersi lasciati alle spalle “una patria lacerata e distrutta, nella quale non poterono più fare ritorno e nella cui bruciante nostalgia consumarono la loro esistenza”.5 Ma mentre Nazariantz emigra in Italia nel 1913, Orakian vive da adolescente gli anni del genocidio e arriva in Italia solo nel 1920. Devono quindi trascorrere altri cinque anni prima che il giovane decida di dedicarsi totalmente alla pittura, iscrivendosi all’Accademia delle Belle Arti di Roma. Da allora inizia una carriera sofferta, volutamente estranea alle regole del mercato e mai compiacente nei confronti della critica. Orakian condurrà una vita di stenti, spesso ai margini della società, traendo limitati guadagni dalla vendita delle sue opere, che spesso preferiva semplicemente regalare a chi dimostrava di apprezzarle. Unici amici di una vita, i coniugi De Simoni, che da subito credettero nel suo talento e lo sostennero sempre, psicologicamente e materialmente, anche nei periodi più bui. La maggior parte delle opere di Orakian si trova in Armenia, per espressa volontà dell’artista, mentre quelle rimaste in Italia costituiscono una collezione privata della famiglia De Simoni, con l’eccezione di un dipinto esposto a San Lazzaro.

Nella pittura di Orakian è stata riscontrata una personalissima fusione di elementi propri sia dell’Espressionismo, sia della corrente Metafisica, il tutto però condizionato da un imprescindibile legame con l’armenità. Amenità “che riaffiora puntualmente ora nei temi, che ripercorrono la tragedia del popolo sfortunato, ora nei tratti somatici propri della sua razza, che il pittore riproponeva stilizzati e stigmatizzati”.6 Nei volti di Orakian emerge, secondo Glauco Viazzi7, l’influsso della pittura bizantina e della miniaura armena. Non solo, ma il critico rileva che “la sua visione del mondo è amara e sarcastica; il giudizio della vita severo e irrevocabile”.8 Ed aggiunge che Orakian “esprime in profondità il senso del dramma armeno”, dipingendo volti cupi, “paesaggi atroci, deserti, sofferti, sul cui sfondo emergono le cupole tipiche delle chiese armene”.9

Poco propenso a partecipare ad eventi pubblici, Orakian allestì poche esposizioni. Dopo una prima personale a Roma nel 1947, espose a Venezia, nel 1950, in campo Manin, dove Virgilio Guidi lo presentò come “un vero artista armeno”.10 Seguiranno altre tre mostre, sempre a Roma, tra il 1955 e 1962, anno della morte.

 

Per quanto concerne la pittura armena del ‘900, il pubblico italiano ebbe modo di conoscere una carrellata di artisti, grazie ad una mostra allestita a Padova, presso il Museo Civico degli Eremitani, dal 24 ottobre al 6 dicembre 1987, ed intitolata “Sarian e i suoi contemporanei.” Molti di questi artisti, pur nella loro specificità, sono accomunati da un forte legame culturale con la Russia, la città di Mosca in particolare - ed altrimenti non poteva essere fintanto che l’Armenia era parte integrante dell’Unione Sovietica - e con Tbilisi, la capitale georgiana, che fu storicamente un importante centro culturale, in cui operò una nutrita comunità armena. Questi stessi artisti, in Europa, ebbero come punto di riferimento la città di Parigi.

 

Altri due artisti devono esser qui menzionati, per il loro legame con l’Italia e con Venezia: Hovannes (Ivan) Ayvazovski e Arshile Gorky (pseudonimo di Vosdanik Manuk Adoian).

Hovannes (Ivan) Ayvazovski (1817-1900), per formazione appartiene sia all’arte russa che a quella armena: infatti alcune sue opere sono firmate in caratteri armeni. Già pittore affermato e membro dell’Accademia delle Belle Arti di San Pietroburgo, l’artista venne in Italia nel 1840 per far visita al fratello, l’erudito monaco mechitarista Gabriel Ayvazovski. San Lazzaro fu la prima tappa di un lungo viaggio in tutta Italia. A ricordo di questa esperienza, l’artista ha dipinto numerosi quadri di ambientazione italiana. Famosi sono Il Faro di Napoli del 1842 e Caos. La creazione del mondo (1841) attualmente esposto al Museo di San Lazzaro, in cui emerge una visione del mondo intrisa di drammatico romanticismo. Legati alla sua permanenza presso i mechitaristi di San Lazzaro sono i dipinti I Padri mechitaristi sull’isola e Visita di Lord Byron ai Mechitaristi dell’Isola di San Lazzaro.

Arsile Gorky (1904-1948), nato a Khorkom, un villaggio nella regione di Van, visse la drammatica esperienza del genocidio, con la perdita della madre a seguito delle marce forzate. Appena quindicenne, al pari di tanti intraprendenti giovani sopravvissuti, emigra assieme alla sorella negli Stati Uniti, dove, dopo una prima fase pittorica che evidenzia l’influsso di Cézanne, Braque e Picasso, nel corso degli anni, diventa un affermato pittore surrealista. Muore suicida a soli 44 anni, a seguito di una grave malattia e di un incidente che gli aveva irrimediabilmente compromesso l’uso della mano con cui dipingeva. In Italia la sua opera è divenuta famosa grazie a quella celebre scopritrice di talenti che fu Peggy Guggenheim, la quale portò alla Biennale del 1948 un quadro dell’artista. La Collezione Guggenheim di Venezia conserva una tra le più importanti tele di Gorky: Senza titolo, del 1944. Nonostante fossero trascorsi molti anni dalla sua partenza dalla terra natale e fosse divenuto un integrato cittadino americano, il ricordo di Khorkom e dell’Armenia restava vivo nell’artista, che nel 1944 scriveva alla sorella: “ Li sogno sempre ed è come se qualche antico spirito armeno albergasse dentro di me e guidasse la mia mano per ricreare quelle forme che la natura assume nella nostra terra natale, con i giardini, i campi di grano e gli orti che appartenevano alla nostra famiglia Adonian a Khorkom.”

 

Dall’arte all’artigianato

Senza uscire dal Museo di San Lazzaro, e restando esattamente nella stessa sala in cui è esposto il quadro di Ayvazovski, ci troviamo di fronte ad una ricca esposizione di un’ “arte minore”, ma ugualmente interessante e rappresentativa qual è quella della ceramica.

La collezione di San Lazzaro consta di una raccolta di ceramiche originarie della città di Kütahya (antica Kutina), oggi piccolo centro a sud-est di Istanbul. La maggior parte di questi pezzi fu raccolta tra gli anni’30 e’70 da un antiquario armeno di Whichita (Kansas), Harutiun Kurdian.

A Kütahya fiorì, tra il XVIII e il XIX sec. un’importante industria della ceramica, specializzata nella produzione di piccoli oggetti di uso domestico. Altri centri si crearono in prossimità di giacimenti di argilla, ma Kütahya si distinse per il livello di qualità del prodotto.

Elemento ricorrente in queste ceramiche è il monogramma del ceramista, che spesso aggiunge il nome del committente accompagnato da iscrizioni dedicatorie. Anche in questo caso, come per i manoscritti miniati, tali indicazioni ci forniscono dati storici e ci consentono di contestualizzare con un relativo margine di sicurezza il manufatto. Nella collezione veneziana troviamo diverse borracce del pellegrino, boccette da profumo, globi per ornare i lampadari delle chiese, oltre ad altri utensili in cui compaiono motivi vegetali fortemente stilizzati, a svolgimento ondulato o avvolgente, dominati dalla presenza di foglie lanceolate e seghettate; frequenti sono gli animali marini, i fiori, curiosi pesci guizzanti e impigliati nella rete che danno una vivace idea del movimento.11 I colori dominanti sono il nero verdastro per i contorni del disegno, il blu cobalto, il giallo cromo, il verde smeraldo e il rosso vinaccia.

Vartuhi Demirdjian Pambakian, autorevole e affabilissima rappresentante della comunità armena di Milano, da diversi anni si dedica con passione e precisione allo studio di una tradizione armena molto antica, quella del pizzo, del merletto e del ricamo.

Ritrovamenti archeologici fanno pensare che già in epoca urartea, ovvero agli inizi del primo millennio a.C., la cultura armena avesse già sviluppato una produzione di tessuti molto elaborata, con l’impiego di raffinate decorazioni. Sono state infatti rinvenute statuette ritraenti figure femminili che indossano vestiti orlati con bordature finemente lavorate. Si ipotizza che all’epoca venissero impiegati materiali quali la seta e l’oro filato, stando a quanto gli scavi ci hanno restituito.

Nei secoli successivi si sviluppò la tecnica del pizzo ad ago, che divenne noto come “pizzo armeno”. Il suo aspetto caratteristico è dato da archetti effettuati attraverso un nodo particolare, non più scioglibile, che chiude ciascun archetto. Il filo impiegato poteva essere di cotone, seta o canapa, se non, in certi casi, il filo d’oro, e il lavoro poggiava su un disegno preparatorio. Generalmente di forma circolare - più rari quelli di forma ovale o quadrata – il pizzo armeno può ricordare sotto molti aspetti quello tipico di Burano. Diffuse sono anche le lavorazioni lineari, usate per bordature della biancheria personale e della casa: queste tradizionalmente facevano anche parte dei copricapo ricamati, che le donne armene erano solite indossare in passato e che venivano inseriti nei corredi nuziali.

In pizzo possono venir realizzati anche molti lavori per l’arredo della chiesa, in cui si inseriscono iscrizioni votive ed immagini sacre.

L’arte del pizzo si è diffusa in tutta l’Armenia storica, “ma raggiunge l’apice della sua fantasia creativa nella zona di Van e a Costantinopoli, dove realizzano, con la stessa tecnica, lavori policromi di scultorea plasticità e di incomparabile bellezza”.12 I lavori possono essere arricchiti da decorazioni a rilievo, con tralci di fiori o frutti, in cui la scelta del colore è molto accurata e raffinata. Rare invece appaiono le raffigurazioni di animali.

Anche nell’Armenia odierna questa tradizione non è stata abbandonata, e capita di incontrare, nei mercatini frequentati dai turisti, anziane donne che, per cifre contenute, propongono l’acquisto di pizzi finemente confezionati secondo tecniche trasmesse da generazioni.

Anche “il ricamo occupa un posto importante nella cultura armena. Non è appannaggio solo delle classi nobili e delle dignità sacerdotali, ma appartiene al gusto e alla tradizione di ogni ceto della popolazione.”13 Singolare risulta il fatto che gli artigiani di questo settore in passato siano stati sia donne che uomini, in genere monaci.

Se per i corredi popolari venivano usati materiali più poveri, nei corredi nobiliari e religiosi frequente era l’impiego di fili d’oro o d’argento, assieme alle pietre semi-preziose e alle perle. In ambito religioso, sono stati ritrovati dei codici miniati con rilegature preziosamente ricamate; a San Lazzaro è conservata un’importante raccolta di paramenti sacri e corredi d’altare, compresi i teli che il sacerdote impiega per reggere il Vangelo o la Croce, durante la Santa Messa.

Nell’isola troviamo anche preziosi ricami appartenuti ai corredi femminili di due illustri famiglie armene, i Kurtian e gli Ispelian. Questi ultimi sono noti anche per aver finanziato la costruzione dell’edificio circolare, climatizzato e realizzato secondo tecniche antincendio, dove sono conservati i manoscritti antichi.

Se fino alla fine del XIX sec. il ricamo si era diffuso, sia pur con stili diversi, in vari centri quali Urfa, Marash, Karin, Aintap, Tiflis, Costantinopoli, Smirne, Brussa, dopo il genocidio quest’arte fu ripresa e mantenuta viva in laboratori gestiti da suore armene che, in Francia come in Italia, accoglievano giovani armene, orfane e profughe. Negli anni ’20 si aprirono anche molti laboratori di ricamo all’interno dei campi profughi e negli orfanotrofi. In tal modo, alle giovani rimaste sole al mondo era offerta l’opportunità di apprendere un mestiere e crearsi una futura fonte di sostentamento. In Italia, tra il 1923 e il 1932 operò l’Orfanotrofio Femminile di Torino, sotto la guida delle suore armene dell’Immacolata Concezione di Costantinopoli, le quali gestivano anche l’Ospizio della Carità: qui ebbero ospitalità quattrocento orfane armene, le quali, oltre ad apprendere l’arte del ricamo, seguivano un più ampio programma educativo, comprendente l’apprendimento della lingua italiana e il recupero di quella armena, che avevano nella maggioranza dei casi dimenticato a seguito delle traumatiche vicende attraversate.

La creazione artigianale armena più nota al grande pubblico resta sicuramente il tappeto. I tappeti caucasici in genere sono molto apprezzati e ricercati dal mercato odierno, e relativamente noti anche tra i non specialisti del settore. Ma come si fa a riconoscere un tappeto armeno?

La tipologia più nota è quella del “tappeto del drago”: vishapagorg in armeno, da vishap = drago e gorg = tappeto. Il drago (vishap), come già spiegato in precedenza, è una figura tradizionale della mitologia armena. Nel tappeto il drago appare spesso molto stilizzato, a forma di “esse” maiuscola, posizionata al centro: in tal caso il drago è circondato da figure zoomorfe e vegetali e da elementi romboidali che danno l’idea di un movimento continuo. In altre tipologie il motivo del drago si evolve lungo i lati del manufatto. Tra le figure zoomorfe compaiono spesso leoni, fenici ed animali fantastici, facilmente ritrovabili anche nei bassorilievi ornamentali di molte chiese armene antiche. Altri tappeti tipici armeni sono il tappeto detto artzvagorg, ovvero “tappeto dell’aquila”, e il tappeto odzakapert – “tappeto del serpente.” Quest’ultimo si ispira ad una leggenda secondo cui dei draghi (vishap) salirono al cielo per dare la caccia al Sole, ma questi li respinse, trasformandoli in serpenti e facendoli così ricadere sulla terra.

Presso diversi popoli l’arte del tappeto è una delle più antiche. Sovente armeni, turchi e persiani se ne contendono, per così dire, la primogenitura.

Un’antica leggenda armena narra che un vecchio pastore, mentre scendeva dalle pendici dell’Ararat, fu colto da un repentino abbassamento della temperatura e, poiché il mantello tessuto a kilim con cui si riparava non gli era sufficiente, si ingegnò ad annodare dei fili di lana attraverso tutta la trama della tela, ottenendo così un primo rudimentale antenato del tappeto. Ma questa è leggenda, e sicuramente turchi e persiani ne avranno di simili.

Lo studioso tedesco Ulrich Schürmann (1982) invece ritiene che il tappeto più antico a noi pervenuto – il tappeto “Pazyryk”, databile V sec. a C., ritrovato nei ghiacciai del Monti Altai nel 1947 ed oggi conservato all’Ermitage di San Pietroburgo – sia di fattura armena. Quel che è certo è che Marco Polo fu un grande estimatore dei tappeti armeni, tanto che ne Il Milione, nel 1271, scrive: “Gli armeni e i greci, che vivono tra i turcomanni, tessono i migliori e i più ricercati tappeti del mondo.”14

I primi vishapagorg a noi pervenuti risalgono al XV sec., mentre i “tappeti del serpente”, detti odzakapert, hanno fatto la loro prima comparsa nel XVII sec. In generale siamo portati a pensare al tappeto come ad un oggetto di ampie dimensioni da collocare sul pavimento o, secondo una consuetudine orientale e slava, appeso, a mo’ di arazzo, alla parete; dobbiamo però sapere che nei secoli scorsi i tappeti erano anche destinati a diversi usi nella vita quotidiana. Venivano infatti impiegati tessuti lavorati a tappeto per confezionare sacche per contenere indumenti, biancheria, o borse per uso personale.

In Armenia la lavorazione dei tappeti ha sempre occupato un posto importante tra i mestieri tradizionali. Questo sicuramente favorito dalla presenza sul territorio delle materie prime, la lana, innanzi tutto. A tale proposito una curiosità: nella lingua armena i diversi tipi di lana assumono denominazioni diverse e specifiche, ad indicare l’importanza che questo prodotto ha sempre avuto nella vita degli armeni. Altri materiali fondamentali reperibili sul posto erano anche il cotone e la seta che, assieme alla lana, venivano trattati con coloranti naturali di origine minerale, vegetale e animale.

Il mercato del tappeto si è sviluppato verso diversi paesi europei a partire dal XVII sec.; a Venezia tale commercio fu particolarmente intenso e le nobili e ricche famiglie della Serenissima consideravano il possesso e lo sfoggio dei tappeti armeni nelle proprie dimore una sorta di status symbol irrinunciabile. Molti quadri dell’epoca, ritraenti gli interni dei palazzi veneziani, lasciano infatti intravedere la presenza di tappeti armeni.

I tappeti armeni antichi, tradizionalmente caratterizzati da nodi fittissimi, sono esposti in diversi musei nel mondo. A Erevan innanzi tutto, al Museo di Storia Nazionale si possono ammirare decine di tappeti, realizzati in epoche diverse e secondo le varie tipologie precedentemente menzionate. Famoso comunque è anche il tappeto “Gohar”, dal nome della sua tessitrice che non si è limitata a firmarlo, ma vi ha aggiunto una lunga frase in armeno, precisando la data di produzione: il 1700. Questo manufatto straordinario è conservato al Victoria and Albert Museum di Londra. Diversi altri tappeti artisticamente rilevanti sono esposti in molte città europee, tra cui Berlino o Budapest. Un vishapagorg di notevole pregio era conservato presso la chiesa parrocchiale di Burano, ma fu ceduto a privati verso metà del secolo scorso.

Per quanto concerne l’Italia, un ruolo importante fu svolto dal villaggio di Nor Arax, sorto in Puglia, su iniziativa del poeta Nazariantz negli anni ’20. Qui nel 1927 si costituisce la Società Italo-Armena dei Tappeti Orientali, dove trovano impiego molti profughi armeni. La qualità del prodotto realizzato a Nor Arax doveva essere sicuramente eccellente se una apposita commissione della FIAT decise di commissionare alla Società i rivestimenti delle carrozze ferroviarie destinate alle loro Maestà il Re e la Regina d’Italia. Quando, nel marzo 1929, i manufatti vennero consegnati, la commissione della FIAT, scrisse nella relazione ufficiale che il risultato appariva “un miracolo di pazienza: basti pensare che il tappeto del salone è intessuto con 380.000 nodi per metro quadrato”.15 Sostenitore della Società e della comunità armena fu il ministro Luigi Luzzati, cui è attribuito il merito di aver migliorato radicalmente le condizioni abitative nel villaggio di Nor Arax, facendovi pervenire luce elettrica ed acqua corrente. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale Nor Arax cominciò a spopolarsi e i laboratori per la lavorazione del tappeto si trasferirono a Guastalla (Reggio Emilia) e a S.Giovanni in Fiore (Cosenza).

Note:

  1. Giulio Ieni, I codici miniati in Gli Armeni in Italia, De Luca Edizioni d’Arte, PD-VE 1991, pag. 89.
  2. Shahen Khatchatrian, Sarian e la pittura armena del’900 in Incontro con il popolo dell’Ararat: l’Armenia, Tipografia S. Lazzaro, Venezia, pag. 64.
  3. Ibid. pag. 66.
  4. Ibid. pag. 66.
  5. Mara Filippozzi, Un espressionista armeno in Italia: Gerardo Orakian in Gli Armeni in Italia, De Luca Edizioni d’Arte, PD-VE 1991, pag. 134.
  6. Ibid. pag. 136.
  7. Glauco Viazzi (pseudonimo di Jusik Achrafian, 1920-80) allievo del Collegio Moorat Raphael. Di origini armene, è stato critico cinematografico e uno dei maggiori studiosi delle avanguardie letterarie italiane del primo’900.
  8. Glauco Viazzi, La pittura di Gerardo Orakian in Gli Armeni in Italia, De Luca Edizioni d’Arte, PD-VE 1991, pag. 138.
  9. Ibid. pag. 138.
  10. Mara Filippozzi, già cit. pag. 138.
  11. Si veda Claudia Bernardi, Le ceramiche di Kütahya in Gli Armeni in Italia, De Luca Edizioni d’Arte, PD-VE 1991.
  12. Vartuhi Demerdjian Pambakian, Pizzi e ricami armeni in Gli Armeni in Italia, De Luca Edizioni d’Arte, PD-VE 1991, pag. 124.
  13. Ibid. pag. 124.
  14. Dicran Antonio Papazian, Note sui tappeti armeni in Gli Armeni in Italia, De Luca Edizioni d’Arte, PD-VE 1991, pag. 132.
  15. Vartuhi Demerjian Pambakian, già cit. pag. 128.

 


 

GLI ARMENI IN ITALIA: una secolare presenza

 

Quando, a seguito della conquista romana per opera di Pompeo, Tiridate I fu incoronato da Nerone re d’Armenia in una solenne cerimonia svoltasi a Roma nel 66 d. C.,1 non potè non farsi accompagnare da un ampio seguito. In questo periodo quindi ci fu sicuramente la presenza nell’Urbe di considerevoli gruppi di armeni, principalmente mercanti, ma – come ipotizza Gaianè Casnati – anche maghi, se si dà seguito a quanto scritto in talune Satire di Giovenale.2

Tra l’altro si presume che in questi anni vengano importate nella penisola italica dall’Armenia piante come il ciliegio, il susino e l’albicocco. Quest’ultimo, particolarmente amato e celebrato dagli armeni, è infatti definito scientificamente “prunus armeniaca”, e curiosamente, a ribadirne le origini armene, i veneziani della Serenissima repubblica, chiamarono non a caso “armein” l’albicocca, in un’epoca in cui la comunità armena a Venezia era molto numerosa ed influente.

Tuttavia bisogna partire dall’Alto Medioevo perché la presenza armena in Occidente cominci a farsi considerevole. Troviamo tangibili tracce di presenze armene, sia in ambito confessionale che civile, in Francia, Irlanda, Islanda, Ungheria, Germania, Inghilterra. Nel contempo, molti occidentali si recano in Oriente, con motivazioni analoghe. Sempre più numerosi sono i pellegrini che da Occidente muovono verso Gerusalemme, spinti dall’impulso dato dalle Crociate, mentre commercianti occidentali – francesi e italiani in particolare – approdano in Oriente, attraverso il Mediterraneo, a partire dal X e XI sec. Se ne deduce quindi che durante tutto il primo Medioevo i contatti tra armeni ed occidentali dovettero essere frequenti e considerevoli. Di qui “la notevole mole di presenza di armeni in Occidente. Si trattò di gente di professioni e provenienza diverse, che avevano tuttavia in comune la tenacia e l’audacia della loro razza, un gusto innato per l’avventura, una bravura negli affari, i tratti di un destino sottoposto spesso alle più dure prove, colpa della posizione geografica del loro paese d’origine.”3

La fondazione del Regno di Cilicia (1199) e il protrarsi delle Crociate costituiscono due fattori decisivi per l’intensificarsi dei rapporti tra armeni e Occidente, favoriti anche dalle ottime relazioni diplomatiche instauratesi tra il re di Cilicia con Francia ed Inghilterra. Tra il XI e il XIV sec. si formano colonie armene in Transilvania, Ungheria, Ucraina, Moldavia, Crimea, Polonia; dal XV al XVI sec., oltre all’intensificazione di queste realtà, si insediano varie comunità armene in Spagna, Olanda, Francia e, non ultima, in Italia. Infatti, “tra tutte le nazioni occidentali l’Italia è senz’altro quella che vanta una più antica e continua presenza armena.”4

 

In Italia, nel Medioevo, si registra la presenza di armeni a Ravenna, Firenze, Roma, Siracusa, Benevento, Ancona. Ravenna assume un ruolo particolarmente significativo quando annovera due esarchi armeni, Narsete (Nerses) (541-568) e Isacco/Isaccio (Sahak) (624-644); in questo periodo la milizia della città era composta prevalentemente da armeni, tanto che il quartiere da loro abitato si chiamava proprio “Armenia”. Nella Chiesa di S.Vitale in onore dell’esarca Isacco è stato eretto un gruppo marmoreo con epigrafi attestanti le sue origini armene.

In ambito politico anche la Sicilia non fu meno importante da questo punto di vista: nell’XI sec. l’isola aveva un governatore bizantino originario di una nobile casata armena, i Mamikonian, venuti in Italia nell’ 832. In Sicilia viene anche ricordato un castello, detto Rocca degli Armeni, espugnato nell’861.5

Le ragioni che spingono nutrite comunità armene a raggiungere la nostra penisola sono sia di tipo economico-commerciale, che di tipo religioso. Se da un lato mercanti sempre più numerosi mettono a buon frutto le valide relazioni diplomatiche instauratesi tra i governi, dall’altro, troviamo gruppi di monaci che, spinti da obiettivi missionari o dalla necessità di fuga verso luoghi più sicuri, si trasferiscono in Italia, incoraggiati anche dai migliorati rapporti tra la Chiesa di Roma e la Chiesa Apostolica armena. L’esempio più rilevante è quello della fuga a Genova di un gruppo di monaci di Cilicia che, nel 1290, sotto l’incalzare delle minacce e violenze mamelucche, abbandonano la terra natale a bordo di una nave genovese. Navi delle repubbliche marinare erano infatti attraccate al porto di Mersin, presso Tarso, sin da quando i crociati avevano iniziato a transitare per la Cilicia: Federico Barbarossa aveva infatti valutato che questo regno cristiano si trovava in una posizione strategica ideale e poteva fungere da appoggio logistico per i suoi eserciti. I monaci transfughi daranno origine all’Ordine Armeno Basiliano, che da Genova si è diffuso in molte altre città italiane: Milano, Pavia, Siena, Firenze, Ancona, Parma, Napoli. I Basiliani mantengono per un certo periodo la lingua armena nella loro liturgia, fino a che questa non viene gradualmente italianizzata. Fondano anche istituzioni culturali e caritative: annesso al convento c’era spesso un ospizio e creano centri di traduzione e copiatura di manoscritti, secondo una radicata consuetudine monastica armena.

Anche Roma, grazie ai pellegrinaggi, ospita, sin dal XIII sec. una fiorente comunità armena, dotata, come attesta un’epigrafe del 1246, di monastero, chiesa ed ospizio, di cui però non esiste attualmente traccia. Uno dei segni armeni più datati conservati a Roma è un’iscrizione armena sul portale bronzeo di San Pietro, dedicata a San Gregorio l’Illuminatore. Successivamente verranno edificate le Chiese di San Biagio della Pagnotta e San Nicola da Tolentino. Quest’ultima appartiene al Pontificio Collegio Armeno 6 ed è regolarmente officiata in armeno.

Altro centro che registra nel XVI sec. una influente comunità armena è Livorno. Nel 1591 il Granduca di Toscana aveva emanato un decreto con cui invitava gli armeni a stabilirsi a Livorno con il compito di risollevarvi il commercio. All’inizio del ‘600 si registrano 120 negozi armeni in città, e nel 1643 vi viene creata la prima stamperia su iniziativa di un sacerdote armeno.

In Sicilia la presenza armena viene testimoniata dall’XI al XVIII sec. e nel 1753 S. Gregorio l’Illuminatore è proclamato patrono di Palermo.

A Milano sappiamo che nel 1307 fu edificata, per intervento dei Basiliani, una chiesa dedicata ai santi Cosma e Damiano, che però fu demolita all’inizio degli anni ’20. Oggi, la comunità milanese può invece far riferimento alla Chiesa Apostolica Armena dedicata ai Santi Quaranta Martiri, costruita però in anni molto recenti (è stata consacrata nel 1958) su progetto dell’architetto Surian, in uno stile armeno tardo medievale.

Le diverse colonie armene sparse per l’Italia edificarono molti luoghi di culto, secondo un radicato costume secondo cui gli armeni, una volta stabilitisi in un luogo, si preoccupavano “in primis” di edificarvi una chiesa e una scuola. Di parecchie chiese purtroppo oggi resta solo il nome, come S.Maria de Armenis a Matera e S.Andrea de Armenis a Taranto; altre invece sono tutt’oggi presenti, come la Chiesa di San Bartolomeo a Genova, che ha ospitato un nucleo di monaci armeni e dove è conservato un sudario di Cristo, esposto all’adorazione dei fedeli una volta all’anno. La tradizione vuole che questa sacra reliquia provenga da Edessa, dove si narra che, una volta esposta durante l’assedio della città, abbia avuto il potere di fermare il nemico. Quello che invece con acutezza fa notare Adriano Alpago Novello è la “vasta gamma di punti di contatto tra l’Armenia e l’Italia in campo architettonico.”7 Emergono, secondo gli esperti, diverse analogie tra il Rinascimento italiano e l’architettura armena, riscontrabili soprattutto nel rigoroso controllo degli spazi, nell’assoluta simmetria, nell’essenzialità del decoro, nell’uso di costruzioni centriche cupolate, nella ricerca della policromia negli esterni e nel frequente uso degli orologi solari.

Finora sono stati citati, un po’a volo d’uccello, tanti nuclei armeni presenti in Italia, in cui vivevano militari, funzionari statali, monaci, commercianti, artigiani – nuclei che hanno fatto in tanti momenti da ponte tra la loro madre patria e l’Occidente. Abbiamo volutamente tralasciato il centro che storicamente è divenuto il più importante, perché necessita di uno spazio speciale: Venezia.

 

Una storia a parte: Venezia

“I primi contatti degli armeni con Venezia si perdono nella remota epoca delle origini stesse della città,”8. Una delle prime testimonianze sicure ne è certamente la costruzione della primitiva cattedrale di Torcello su iniziativa dell’esarca armeno di Ravenna, Isacco, e documentata da una lapide commemorativa del 639. Abbiamo comunque notizie poco certe fino a che non si giunge al Regno di Cilicia. Nel XI sec. Venezia e il regno armeno si scambiano accordi che sanciscono privilegi reciproci in campo commerciale. Grazie a tali accordi, veneziani possono risiedere agevolmente in Armenia ed armeni trovano vantaggiosa ospitalità a Venezia. In una città che sta diventando sempre più cosmopolita, come è dimostrato dalla sua toponomastica, gli armeni, essendo cristiani, non hanno difficoltà ad inserirsi in qualsiasi zona, anche se il sestiere di S. Marco diventa una delle aree privilegiate. Qui, e precisamente in parrocchia S. Zulian, nel 1235 viene ufficialmente consegnata alla comunità la sua Casa Armena (Hay Dun), in Calle delle Lanterne, oggi Calle degli Armeni. Altre analoghe istituzioni erano state create in diverse città a densa comunità armena, come ad esempio Genova. La Hay Dun veneziana era nata grazie alla benevolenza del doge Sebastiano Ziani il quale, prima di divenire la massima autorità della Serenissima, aveva lungamente soggiornato in Cilicia, intrecciando positive ed amichevoli relazioni con i suoi abitanti. Ritornato quindi a Venezia, aveva voluto rafforzare questa amicizia, aiutando gli armeni che vi si erano trasferiti. La Casa Armena doveva infatti fungere da punto di riferimento e ospizio per i nuovi arrivati, oltre che essere un centro di incontro per tutta la comunità. Annessa a questo stabile, sorse in seguito la chiesetta di Santa Croce. Un primo edificio risale al 1434. Rinnovata ed ampliata a più riprese, grazie all’intervento di facoltosi mercanti armeni, assunse la struttura attuale nel 1689. Si tratta di una chiesa di piccole dimensioni, di cui non è visibile la facciata, essendo serrata tra l’arco del Sotoportego dei Armeni e un rio adiacente. Il campanile è individuabile, e la foggia è tipica delle chiese occidentali coeve. Santa Croce è l’unica, tra le tante chiese armene sorte in Italia nel Medioevo – più di una quarantina – dove ancor oggi si svolge la funzione religiosa in armeno, officiata dai Padri Armeni Mechitaristi di San Lazzaro. Ricordiamo comunque che precedentemente, a Castello, sorgevano già nella prima metà del Trecento la chiesa e il convento di S.Giovanni Battista dei Frati Armeni.

A S. Zulian risiedevano numerosi mercanti ed artigiani armeni. Il commercio spaziava dai tessuti, alle spezie, dalle pietre preziose alle pelli. In ambito artigianale, tra le tante abilità, spiccavano quella della lavorazione delle pelli e soprattutto quella dei tappeti. I tappeti armeni erano particolarmente ambiti e non potevano mancare nei più prestigiosi palazzi che si affacciavano sul Canal Grande. Le merci importate dall’Oriente e vendute dagli armeni, affascinavano per raffinatezza ed originalità la ricca aristocrazia veneziana e si ipotizza che “fra tante ricchezze, un giorno (sicuramente nel XII sec.) sia arrivato, premurosamente ingabbiato, anche quell’inestimabile simbolo d’universale fama della Venezia di ieri e di oggi, il Leone Alato, che svetta su una delle colonne della Piazzetta S. Marco e che a procurarlo sia stato addirittura il celebre Sebastiano Ziani, prima di salire al dogato.”9

Flavia Randi, nel suo Dove si posò l’arca: l’Armenia, accompagna graziosamente il lettore lungo un curioso itinerario armeno-veneziano, e ne stimola la fantasia, soffermandosi su molti interessantissimi e curiosi particolari.10 Seguendone la guida, possiamo far tappa alla Chiesa di S. Salvador dove, in una monumentale tomba marmorea riposa Caterina Cornaro “regina di Cipro, Gerusalemme ed Armenia.”

Nel XV sec. i Corner (in seguito Cornaro) sono una potente famiglia veneziana con cospicui interessi commerciali a Cipro. Qui sostengono finanziariamente il giovane re dell’isola, Giacomo II di Lusignano, di origini francesi, ma imparentato con aristocratiche casate armene, tanto da fregiarsi del titolo di “re di Cipro, di Gerusalemme e d’Armenia.” Per rafforzare maggiormente i legami tra Venezia e Cipro viene celebrato il matrimonio tra la giovanissima Caterina Corner e il sovrano. Unica clausola prematrimoniale: qualora la giovane sposa fosse rimasta anzitempo vedova senza la nascita di un erede, avrebbe ereditato titolo e regno. Ipotesi che fatalmente si avvera. Non passa però molto tempo che Caterina, a seguito di notevoli e reiterate pressioni, cede in dono alla Serenissima la straordinaria eredità lasciatale dal marito. Deve dunque abdicare, ma come contropartita viene proclamata “Signora di Asolo”, di cui riceve pieno possesso e dove continuerà a vivere tra gli agi e il prestigio degni di una sovrana. Il monumento tombale la ritrae proprio nell’atto di deporre la corona nelle mani del doge Agostino Barbarigo.

Se la Serenissima aveva saputo esprimere adeguata riconoscenza a questa sua augusta cittadina per il dono di un regno da lei così facilmente conquistato, non altrettanto può dirsi circa quello straordinario, geniale armeno che fu Anton Surian.

Giunto a Venezia circa ventenne, probabilmente da Cipro, inoltrò una domanda di lavoro indirizzata al doge Girolamo Priuli il 24 giugno 1561. Lavoro che gli fu assegnato all’Arsenale, e dove non tardò a dar prova di capacità e competenze non comuni, tanto da guadagnarsi presto la qualifica di “ingegnere.” Riuscì infatti a coordinare il recupero di un galeone e tre grossi cannoni affondati nel porto; creò un sistema per varare navi di grosse dimensioni e per pulire i fondali dei canali dai depositi melmosi che vi si accumulavano nel tempo. Si ritiene inoltre, che gli debba esser attribuito buona parte del merito della Vittoria di Lepanto, poiché non solo i cannoni di diverso calibro impiegati in quella circostanza erano stati da lui costruiti, ma la sua presenza al momento della battaglia consentì di posizionarli strategicamente, in modo tale che il loro tiro risultò praticamente infallibile.

Tuttavia il contributo maggiore dato da Anton Surian alla Serenissima fu quando vi scoppiò la peste nel 1575. In questa occasione emersero il suo spirito altamente umanitario, oltre che le grandi doti organizzative ed eccezionali competenze mediche. Il governo sapeva che il Surian, grazie ad un farmaco di sua invenzione, aveva precedentemente guarito molti soldati feriti in battaglia. Decise quindi di accettare una sua offerta di aiuto e gli affidò la cura dell’intero sestriere di Dorsoduro. Il Surian si prodigò senza sosta, con competenza e generosità, non esitando ad impiegare una considerevole parte del patrimonio accumulato negli anni, nella sua battaglia contro l’epidemia. Quando questa fu debellata dopo due anni, e molti potevano dire di essersi salvati grazie a lui, il governo della Serenissima diede prova di un’ottusa ingenerosità nei suoi confronti. Quale ricompensa si limitò ad inserirlo stabilmente nell’organico dell’Arsenale e a concedergli la cessione gratuita degli alimenti per il resto della vita. Deluso ed amareggiato, Surian si ammala e comincia a condurre una vita sempre più ritirata. Muore nel 1591. Oggi, quale postumo risarcimento, al suo nome sono intitolati un sotoportego, una calle e una corte.

S. Zulian non era l’unica zona ad alta concentrazione armena di Venezia. Nel 1530 cominciano a giungere diverse famiglie armene provenienti da Giulfa, città sotto la sovranità persiana, sulla riva settentrionale del fiume Araxe, nel Nakhitchevan meridionale. Questi nuclei si concentrano principalmente tra S. Marco e Castello, un una zona che verrà denominata Ruga Giuffa. Si tratta principalmente di mercanti, impegnati nel rifornimento di materie prime – lana, cotone, seta, lino – alle manifatture tessili veneziane; altro settore di loro competenza era quello dei coloranti. Non mancavano anche artigiani specializzati nella lavorazione del corallo e delle pietre preziose.

La fama dei mercanti armeni in Venezia e il loro peso sociale sono rispecchiati anche nell’opera di Carlo Goldoni. Non solo incontriamo la figura di un mercante armeno – dipinto con non poca ironia – ne La famegia de l’antiquario, ma la Trilogia di Arcana, comprendente La sposa persiana, Ircana in Julfa e Ircana in Ispania, descrive armeni provenienti da Giulfa e Isfahan.11

Che gli artigiani e i commercianti armeni di Giulfa fossero molto abili lo aveva ben capito lo scià Abbas il Grande, che regnò per ben quarant’anni, dal 1587 al 1628. Alle doti imprenditoriali, gli armeni di Giulfa univano un’ampia rete di collegamenti commerciali ed interpersonali o parentali con l’Occidente. Per queste loro caratteristiche, lo scià ordina che queste interessanti popolazioni vengano trasferite in massa a Isfahan, città molto più meridionale e strategicamente sicura, e che, nei suoi progetti doveva divenire una capitale ricca di bellezze artistiche e centro economico di primo piano del suo impero. Dopo un drammatico trasferimento durato quattro mesi, gli armeni giungono ad Isfahan, dove fondano un nuovo quartiere, denominato Nuova Giulfa. Qui godono di una considerevole libertà, sia in campo religioso che civile, e di un’indiscussa fiducia da parte del sovrano. Quando questi perciò comincia a scorgere in Venezia un interlocutore di primo piano in ambito economico, chi meglio dei suoi fedeli sudditi armeni di Nuova Giulfa poteva fare da tramite tra il suo paese e la Serenissima? Tra questi, i primi ad aprire, nel 1612, un vero e proprio ufficio di rappresentanza commerciale a Venezia sono gli Scerimanian, più noti in seguito come Sceriman. Si occupano principalmente del mercato di pietre preziose, tessuti, pellicce, tabacco, spezie; in seguito non tralasceranno il commercio di immobili e si occuperanno anche di agricoltura, con la coltivazione del riso nell’entroterra veneto. Da subito dimostrano di possedere ingenti capitali ed abilità imprenditoriali non comuni. Quando poi Venezia diventa il centro europeo specializzato nel taglio dei diamanti, l’intraprendente famiglia si concentra in particolare sul mercato dei preziosi. Quando giungono a Venezia, gli Sceriman sono già in possesso di un cospicuo capitale e, fatto più importante, godono di appoggi di rilievo in ambito internazionale. Basti pensare che il capostipite Zaccar, assieme ad altri nove armeni, era riuscito a farsi ricevere dallo zar Aleksej Romanov, recandogli in dono un trono d’argento laminato in oro, con incastonate diverse centinaia tra brillanti, pietre preziose e perle. Questo preziosissimo trono fa parte del tesoro dei Romanov ed è oggi conservato al Museo dell’Armeria, a Mosca, nel territorio del Cremino. Lo zar in cambio concesse agli Sceriman condizioni di commercio favorevolissime all’interno di tutto l’impero russo e diede in dono un’incalcolabile quantità di pellicce di zibellino.

Anche il ramo della famiglia rimasto a Nuova Giulfa viveva nel lusso e nel prestigio, godendo della benevolenza dello scià Abbas, che riconobbe a tutti gli Sceriman il nobiliare titolo di malik.

Il ramo “veneziano” della famiglia nel frattempo aumentava capitale e prestigio sociale grazie ai buoni affari e ad una serie di matrimoni altolocati. Qui però, vuoi per ragioni familiari-matrimoniali, vuoi per allacciare solidi rapporti con la Chiesa di Roma, gli Sceriman scelgono di convertirsi al Cattolicesimo. Questa svolta fu accolta con non poco disappunto da parte della Chiesa Apostolica Armena di Nuova Giulfa, ma ormai gli Sceriman che avevano in Zaccar il loro capostipite si dimostrano sempre più affezionati cittadini della Serenissima. Infatti, in un periodo in cui la casse dello stato erano sempre più vuote e Venezia perdeva progressivamente potenza e ricchezza, sono proprio questi “re della finanza europea e mediorientale”12 a prestare alla Repubblica due milioni in ducati d’oro a fondo perduto.

Quando poi Venezia cadrà sotto il dominio francese prima, ed austriaco poi, i diversi discendenti della dinastia degli Sceriman metteranno a frutto capitali ed abilità presso altri territori. A Venezia rimane comunque Giambattista Sceriman che si fa eleggere responsabile della Commissione di pubblica beneficenza. Per dare una sede a questo istituto, Giambattista stesso acquista in Lista di Spagna un palazzo che tutt’oggi porta il nome della sua prestigiosa famiglia ed è sede della Regione Veneto. Al suo interno un busto marmoreo lo ricorda quale “benefattore” della città.

Tra i discendenti degli Sceriman veneziani, val la pena di ricordare Fortunato Sceriman, poeta in lingua italiana, veneta e friulana, nonchè giornalista e pubblicista a servizio del Regio Commissario dell’Impero Austro-Ungarico nella prima metà dell’800, e prima ancora il più noto Zaccaria Sceriman (1708-1784), abate del monastero benedettino di S.Giorgio ed autore di varie opere su argomenti disparati, tra cui spicca l’originalissima satira politica intitolata Viaggi di Enrico Wanton nei regni delle scimmie e dei cinocefali.

 

 

San Lazzaro: un faro per tutti gli armeni dispersi nel mondo

 

Il poeta armeno sovietico Hovannes Shiraz, in una poesia composta in occasione del 250° anniversario dell’insediamento di Mechitar a S.Lazzaro, scrive:

 

“Isola armena in acque straniere,

con te si rinnova la luce dell’Armenia”13

 

Se pensiamo che questi versi furono composti in anni in cui il regime era poco incline a dar voce a fonti di ispirazione non prettamente laiche e politicamente schierate, emerge quanto l’isola di San Lazzaro sia sempre stata un punto di riferimento irrinunciabile per il popolo armeno.

Un aneddoto a dimostrazione di questa tesi: nei primi anni ’80, quando non si riusciva a trovare nelle librerie di Erevan alcuni libri, ad esempio testi scolastici per lo studio della lingua armena, accadeva che la commessa, con naturalezza dicesse: “Quello che cerca lo pubblicano a Venezia, in Italia”, alludendo ovviamente alla casa editrice di S. Lazzaro, “bisognerebbe cercarlo là.”

Ma veniamo ora a ricostruire la storia di questa “piccola Armenia” e del suo geniale fondatore, Padre Mechitar.

Nato a Sebaste (oggi Sivas) il 17 febbraio 1676, il suo vero nome è Manuk. A quindici anni diventa diacono e, come consuetudine, cambia il nome di battesimo, divenendo Mechitar, che significa “il consolatore”. Entra nel monastero di Santa Croce nella città natale e da subito manifesta una forte personalità, tesa allo studio e al sapere; poco incline ad adeguarsi agli interessi dei monaci di Santa Croce, sia pur giovanissimo, comincia una peregrinazione che in pochi anni lo porta a Etchmiadzin, Sevan, di nuovo a Sebaste, quindi a Erzurum. Mechitar è animato da un’ansia di ampliare i propri orizzonti. Nel 1691 incontra a Erzurum un sacerdote gesuita – Jacques Villote – che gli fa conoscere la cristianità occidentale. Si ritiene che questa figura, assieme agli scritti di Nerses Shnorhali, abbiano creato le fondamenta di quel pensiero in senso ecumenico che ha ispirato e guidato per tutta la vita le scelte di Mechitar. Egli “ebbe infatti una coscienza profonda dell’unità cristiana […] nel più totale rispetto della fisionomia e della cultura spirituale propria di ciascuna Chiesa locale e nazionale, come pure nella loro autonomia amministrativa.”14 È stato da più parti riconosciuto che Mechitar anticipò di ben due secoli quella prospettiva di Chiesa Universale che stette alla base del Concilio Vaticano II voluto da Giovanni XXIII. Il valore della sua modernissima concezione di unità cristiana gli verrà riconosciuto il 22 ottobre 1977, in occasione del terzo centenario della nascita, durante una cerimonia in Palazzo Ducale, presenti alte autorità civili e religiose.

Ma, tornando alla sua biografia, nel 1696 Mechitar viene ordinato sacerdote. Trasferitosi a Costantinopoli, si fa presto notare per le doti di predicatore. È in questo periodo che, acquisito un notevole seguito, comincia a maturare l’idea di fondare un nuovo ordine. Idea che però non era opportuno render nota, viste le agitazioni in atto in quel periodo contro gli armeni cattolici. Costoro dovevano fronteggiare l’atteggiamento ostile non solo degli apostolici, ma anche dei cattolici romani, che giudicavano gli orientali inferiori culturalmente. A questo si aggiunga la diffidenza della Sublime Porta che vedeva negli armeni cattolici potenziali nemici, se non addirittura coinvolti in attività di spionaggio al soldo delle potenze occidentali. Ipotesi questa che veniva suffragata dallo stesso Patriarca armeno di Costantinopoli. Questa situazione, nel 1701, costrinse Mechitar e i suoi discepoli a cercar rifugio in Morea (Peloponneso), allora dominio della Repubblica di Venezia. Qui, grazie al benevolo appoggio del governatore Angelo Emo, il gruppo di monaci riesce, sia pur tra mille sacrifici, a costruirsi una chiesa e un monastero. Giudicato che i tempi erano finalmente maturi, Mechitar inoltra al pontefice Clemente IX la richiesta di costituzione di un nuovo ordine, basato sulla regola di S. Antonio – povertà, castità, obbedienza – cui si aggiunge quello della missione. L’approvazione arriva dopo sei anni, nel 1711. Ma quando per la piccola comunità sembra essersi avviata una fase di tranquillità materiale e di gioia spirituale grazie anche all’accresciuto seguito dei fedeli, una nuova dura prova li costringe ad intraprendere la strada dell’esilio che li condurrà a Venezia: a causa dell’imminente scoppio della guerra tra Impero Ottomano e Repubblica Veneta Mechitar si trova costretto ad abbandonare quanto aveva faticosamente costruito. La scelta della nuova meta cade su Venezia, dove egli sapeva esserci una numerosa ed accogliente comunità armena. Assieme ad una decina di confratelli – altri lo raggiungeranno in seguito -, salpa da Modone, nel sud-est della Morea, e a bordo di una modesta nave da carico, la “San Cirillo”, battente bandiera della Serenissima, approda a Venezia il 2 aprile 1715. Dopo la prevista quarantena, il gruppo di monaci alloggia in una casa in S. Martino di Castello, rimasta tutt’ora intatta e sulla cui parete una lapide marmorea ne ricorda con esattezza la presenza dal 12 maggio 1715 all’8 settembre 1717. Non essendo questa una sistemazione idonea, Mechitar si rivolge a conoscenze autorevoli in ambito civile ed ecclesiastico ed ottiene dal Senato l’autorizzazione a scegliersi un luogo adatto, purchè sia fuori dal centro cittadino dove, per precedente decreto, non era autorizzata la collocazione di nuove congregazioni religiose. Dopo accurato esame, Mechitar richiede San Lazzaro, facilmente raggiungibile sia da Venezia che dal Lido e già dotata di una chiesetta ed un piccolo edificio abitabile, anche se alquanto fatiscente.

Il 26 agosto 1717 il Senato veneziano concede in perpetuo l’Isola di San Lazzaro alla Congregazione mechitarista, doge Giovanni Corner, discendente di Caterina Corner (Cornaro). I restauri, gli ampliamenti e l’edificazione del chiosco sono effettuati su progetto dello stesso Mechitar.15 Risolti i problemi logistici, poterono quindi aver inizio quelle attività in campo umanistico ed educativo di cui Mechitar è stato pioniere geniale e che, con la forza di una missione, ha tracciato un solco fondamentale per la sopravvivenza, la diffusione e la crescita della cultura armena. Ritenendo che la catechesi passi anche attraverso la cultura ed intuendo che l’editoria può essere un mezzo potente per la diffusione di entrambe, nel 1789 crea una tipografia: avvia quindi un’enorme attività di traduzione di classici italiani in lingua armena e la pubblicazione di classici armeni, sia in “grabar” che in “volgare”. Per quanto riguarda quest’ultimo, Mechitar fu un precursore, poiché nel ‘700 non aveva assunto ancora la dignità di lingua letteraria. È opera sua anche il Thesaurus della lingua armena (Bargirkh Haykazean Lezui), vocabolario in più volumi.

All’attività editoriale è connessa la creazione della biblioteca che attualmente conta più di cinquantamila volumi in lingua armena ed altrettanti in altre lingue. Vi sono inoltre raccolti i più importanti tra giornali e periodici in lingua armena editi sia in Armenia che nella diaspora. Anche la raccolta dei manoscritti antichi, preziosissimo patrimonio non solo per gli armeni, ma per l’intera umanità, inizia con Mechitar. Fondamentale si dimostrò anche l’attività educativa, da lui avviata. Una sorta di sasso nello stagno, poiché nel corso degli anni verranno fondati nel mondo ben quaranta istituti scolastici mechitaristi, con sedi che spaziano da Buenos Aires a Trieste, da Los Angeles a Madras. Istituti nei quali si formeranno molti intellettuali, scienziati, artisti armeni della diaspora, alla ricerca di un polo di attrazione dove acquisire, accanto ad una solida base culturale, una più profonda consapevolezza delle proprie antiche origini.

Un’altra iniziativa in cui Mechitar dimostrò di essere all’avanguardia, fu la creazione di un teatro in cui far lavorare i propri discepoli. A partire dal 1730 cominciarono ad esser messi in scena testi su soggetti religiosi, storico-patriottici, ma anche satire di costume. Da S. Lazzaro questo tipo di teatro si propagò in altri centri, tra cui Costantinopoli e Parigi.

L’opera di Mechitar fece sì che la nazione armena, che stava attraversando un periodo di crisi culturale e spirituale si risollevasse. “Mechitar – afferma Claudio Gugerotti – diede alla cultura armena uno slancio inedito e certamente straordinario proprio perché comprese, con intelligenza rara, che si poteva essere cosmopoliti senza snaturarsi, e finì con l’essere contemporaneamente il campione di questa apertura all’altro da sé, senza dare pretesto ad alcuno di accusarlo di perdita della propria identità armena.”16

Mechitar muore il 27 aprile 1749.

La sua opera continuerà ad essere perpetuata dai suoi successori che fortunatamente in alcuni momenti cruciali daranno prova di tempra e spirito di iniziativa degni del loro padre fondatore. Si pensi in particolare al Padre Abate Stefano Akontz (1800-1824) che, con una stamperia in piena funzione ed un’attività culturale ormai molto intensa, rischiava di vedersi confiscare e smantellare il frutto di tanto lavoro, quando Napoleone si impadronì di Venezia. Dal 1805 vigeva un provvedimento che stabiliva l’abolizione di parecchi ordini religiosi nelle terre conquistate da Napoleone. Sarebbe stata la fine dell’opera per cui Mechitar aveva vissuto e tanto lottato. Padre Akontz però non intende rinunciare a lottare e riesce a metter in moto una così raffinata macchina diplomatica che, a seguito di un colloquio con lo stesso Napoleone, ottiene da questi un decreto (4 settembre 1810) in cui si dichiara che “I monaci armeni dell’Isola di San Lazzaro di Venezia sono conservati nell’attuale loro stato”. Non solo, ma il convento assurge al ruolo di Accademia di Scienze e come tale gode di diritto di benevolenza dell’imperatore. Da allora nessuno avrebbe più cercato di togliere ai mechitaristi quanto il doge Corner aveva donato a Mechitar.

In quegli stessi anni, precisamente a partire dal 1816, l’isola di San Lazzaro ha un ospite tutt’altro che votato alla vita monacale: si tratta del poeta inglese George Gordon Noel Byron, più noto come Lord Byron. Pur portato agli eccessi mondani in casa delle innumerevoli nobili amanti, ricade spesso in stati di melanconia e depressione, e in questi momenti, quando cerca di far ordine nel suo spirito tormentato, si rifugia dai benevoli padri mechitaristi. Qui decide di studiare la lingua armena, giudicandola la più difficile in assoluto, e come tale un buon esercizio per la mente, una sorta di terapia antidepressiva. Ne acquisisce in breve tempo una buona padronanza, tanto da cimentarsi nella traduzione in inglese di classici come Mosè di Corene e Nerses di Lambron. Ed è nella pace tra i mechitaristi che trova l’ispirazione per creare opere quali Il pellegrinaggio del giovane Aroldo e Don Giovanni.

Riflettendo al ruolo di S.Lazzaro e al legame venutosi a creare tra gli armeni e Venezia, Boghos Levon Zekiyan scrive: “Il patrimonio armenologico di San Lazzaro costituisce, insieme a quello della Congregazione consorella mechitarista di Vienna, un caso singolare in tutto l’Occidente, di una testimonianza storica così completa di una cultura medio-orientale. […] Quando, più di 250 anni orsono, un giovane monaco armeno profugo chiese protezione e asilo per il suo Ordine, da poco fondato, alle maggiori autorità veneziane, la Serenissima sicuramente vide in lui quasi un simbolo di quell’Armenia con la quale aveva mantenuto sin dal Medioevo i più stretti rapporti commerciali e culturali. […] Nel medesimo tempo la Serenissima colse negli intenti dell’umile religioso una delle più valide e vive testimonianze di quella funzione di ponte e di punto di incrocio tra Oriente e Occidente che fu sempre una delle caratteristiche più salienti della missione di Venezia in seno alla cultura italiana ed europea, come lo fu pure del popolo armeno e della sua cultura.”17

 

 

Il Moorat-Raphael di Venezia, ovvero “Il Collegio”

 

Sono in molti, tra gli ex-allievi del collegio mechitarista Moorat-Raphael di Venezia ad essersi fermati, negli ultimi decenni, definitivamente in Italia. Provenienti dal Libano, dall’Iran, dalla Siria, da Istanbul o da altri centri diasporici, hanno poi continuato l’università nel nostro paese e vi hanno costruito le loro vite. Quando ne parlano tra loro lo definiscono semplicemente “il Collegio”, e tutta la loro esperienza scolastica e di studi, precedente e successiva, non sembra aver lasciato alcun segno significativo, nulla comunque di paragonabile a quegli anni fondamentali di crescita umana, psicologica e culturale. Uno di questi, Baykar Sivazliyan, ora docente di lingua e letteratura armena all’Università di Milano, in due significativi studi sui rapporti tra l’Armenia e il Veneto, raccoglie una serie di testimonianze-interviste tra gli armeni che vivono nel Veneto, e molti tra questi sono stati proprio allievi del prestigioso Moorat-Raphael. Da studioso, e non solo da ex-allievo, egli non esita a definire il Collegio “perla della propagazione della cultura armena di Venezia, attraverso l’opera dei suoi alunni e dei suoi insegnanti. […] Faro di scienza, ma soprattutto di amenità.”18

Ma vediamo come nacque e si sviluppò questa straordinaria istituzione.

Nel 1834, per volontà testamentarie di due mercanti armeni - suocero e genero - i cui nomi sono appunto Moorat e Raphael, viene fondato in Prato della Valle a Padova il Collegio Moorat. Dopo due anni, nel 1836, a Ca’Pesaro in Venezia viene fondato il Collegio Raphael, che di lì a poco viene trasferito a Ca’Zenobio, sestriere di Dorsoduro. Il Moorat nel frattempo da Padova si sposta a Parigi, dove rimane fino al 1870. Di qui ritorna in Italia, per fondersi definitivamente con il suo gemello di Ca’Zenobio ed assumere quindi l’attuale denominazione di Moorat-Raphael. Successivamente, nel 1928, si riaprirà il Moorat di Parigi per i bisogni della numerosa comunità armena di Francia. “Ambedue i collegi, ma soprattutto quello di Venezia svolsero un ruolo di primo piano nella cultura armena, in quanto vi si formò una buona parte degli intellettuali armeni più celebri del secolo scorso.”19 Queste parole di Boghos Levon Zekiyan sono confermate dallo stesso Sivazliyan, il quale sostiene che il Collegio è stato “centro di produzione di idee e di concetti politici, adatti ad affrontare, e in qualche caso a risolvere, le problematiche del mondo armeno […] in modo particolare a cavallo dei due secoli” della sua esistenza.20 Infatti egli osserva che, quando a fine ‘800 a Costantinopoli emerse la necessità di far dialogare diverse componenti, sia politiche che religiose, di un’inteligencija armena quanto mai in fermento, furono gli ex-studenti del Collegio ad assumere il ruolo di mediatori, portando soluzioni pacificatrici.

Tra gli studenti illustri, un nome su tutti: quello di Daniel Varujan, di cui si è già parlato, e che ebbe a ritenere fondamentali, per la propria formazione, gli anni veneziani.

Passando ai giorni nostri, il Moorat-Raphael fu la prima scuola della diaspora ad aprire le porte ai giovani della Repubblica d’Armenia da poco indipendente, ma già negli anni immediatamente successivi al devastante terremoto del 1988, aveva ospitato molti giovani di Vanadzor e Spitak, in un’azione di assistenza concertata con la Regione Veneto.

Nel 1997, per mancanza di fondi il Moorat-Raphael è stato costretto a chiudere definitivamente i battenti, con profondo ed immutato rammarico di molti tra i suoi ex-allievi. Oggi, il bellissimo Salone degli Specchi che si trova al primo piano, ospita occasionalmente concerti, convegni, mostre ed incontri di interesse armenologico, mentre d’estate le stanze in cui alloggiavano gli studenti fungono da spartano albergo per giovani turisti.

 

 

Padova: piccolo, ma sempre più significativo polo armeno

 

Tra le prime testimonianze di una presenza armena a Padova, sorgeva nel XIV sec. in borgo Ognissanti (oggi via Belzoni) la chiesa di Nostra Signora di Nazaret, chiamata anche S. Maria Armeniorum. I frati armeni ivi preposti, dovettero però trasferirsi altrove, nel 1348, per lasciar posto all’ordine degli Olivetani.

Nel XIX sec. troviamo segni molto evidenti di una autorevole ed influente presenza armena nel cuore della Città del Santo. Il 15 agosto 1834 apre infatti i battenti il Collegio Samuel Mooratian, in Prato della Valle; all’epoca i Padri Mechitaristi acquistarono alcuni terreni dietro a Prato della Valle allora adibiti ad uso agricolo. Come sappiamo, nel 1846 il collegio armeno di Padova venne trasferito a Parigi, ed in seguito nascerà il celebre Moorat-Raphael, secondo le modalità precedentemente descritte. Attualmente, il palazzo che ospitava il Collegio Mooratian è sede del Circolo Ufficiali di Padova.

Prato della Valle è un luogo armeno significativo, anche perché in una casa oggi corrispondente ai numeri civici 42-44, nacque nel 1855 la poetessa di origini armene Vittoria Aganoor; a questa è anche dedicata una laterale di via M. Sanmicheli.21

Oggi a Padova abita una piccola, ma attiva comunità armena: si tratta di una decina di famiglie, che da anni sono solite darsi appuntamento, due volte al mese per assistere alla celebrazione della S. Messa in rito cattolico armeno officiata da Padre Levon Boghos Zekiyan. Attualmente questa ha luogo nella Sala del Capitolo, presso la Basilica del Santo. È un momento di armonica comunanza, non solo nella fede, ma anche nella espressione di una cultura e di un sodalizio, in cui armeni ed amici degli armeni, si ritrovano con gioia. Il desiderio di mantenere salde le tradizioni è anche trasmesso dal piccolo, volonteroso coro che, sotto la preziosa guida della sua maestra, intona gli inni sacri che accompagnano i diversi momenti del rito.

Nel 2008 è stato pubblicato dalla Biblioteca Universitaria di Padova un catalogo di Libri armeni dei secoli XVII – XIX nella Biblioteca Universitaria di Padova, relativo ad un fondo di 468 libri, di cui 457 in caratteri armeni. Una sorta di tesoro rimasto lungamente dimenticato – un po’ come l’antica mappa di Bologna – e scoperto con gioiosa meraviglia da armenisti e docenti patavini. Si tratta principalmente di testi editi dalla Sacra Congregazione della Propaganda Fide (Roma), dalla nota tipografia veneziana di Antonio Bortoli e dalla celebre e fondamentale tipografia Mechitarista di San Lazzaro degli Armeni. Le opere in questione vanno dalle traduzioni di classici, quali l’Iliade, ad opere di carattere teologico e testi sacri – ad esempio un raffinata edizione della Bibbia di Mechitar – a dizionari, grammatiche, testi di matematica, botanica, etc.

Infine, è importante ricordare che il Comune di Padova ha riconosciuto ufficialmente il genocidio del popolo armeno del 1915 e da anni la città, con il patrocinio e la partecipazione delle autorità comunali, celebra ogni 24 aprile la memoria del Grande Male, scegliendo modalità diverse, ma ugualmente significative. Quale testimonianza di tale tragedia è stato affisso, nel cortile interno di Palazzo Moroni, sede del Municipio della città, un bassorilievo opera dello scultore armeno libanese Mossik Guloyan.

 

 

Ultime spigolature armeno-venete

 

A cercare quanti altri segni di presenze armene sono disseminate nel Veneto ci vorrebbe forse un capitolo intero. Ne citiamo solo alcuni, molto diversificati tra loro.

A Treviso, una delle porte che sorgono lungo le antiche mura medievali, reca il nome di Porta Santi Quaranta, ma ben pochi tra i trevigiani sanno che il suo nome allude ai Quaranta Martiri di Sebaste. Erano questi quaranta soldati provenienti da diversi luoghi della Cappadocia, ma tutti appartenenti alla XII Legione “fulminata” (veloce) di stanza a Melitene nel 320 d. C., caduti vittime della persecuzione anticristiana messa in atto da Licino Valerio. Arrestati perché cristiani, fu loro posta l’alternativa di abiurare la propria fede o subire la morte per assideramento, essendo esposti nudi sopra uno stagno gelato. Il martirio ebbe luogo il 9 marzo a Sebaste (odierna Sivas in Turchia) e in tale data viene, presso gli armeni, celebrata la loro festa. Inoltre, in base ad alcuni ritrovamenti archeologici è stato dimostrato che attiguo alla Porta Santi Quaranta sorgeva un monastero.

Alla città di Sebaste è anche legata la figura di S. Biagio: questi infatti era armeno di nascita e fu vescovo della città durante le persecuzioni di Licino, di cui cadde egli stesso vittima. In suo onore sono stati eretti molti santuari, chiese e cappelle, in Italia e in Europa. A Roma molto nota è la chiesa detta S. Biagio della “Pagnotta”, nome derivatole dall’usanza di distribuire ai fedeli nel giorno dedicato al santo dei pani benedetti.

Il 25 agosto 1929 un armeno residente ad Asolo, l’ingegnere Ohannes Gurekian, scala per primo la vetta di una cima dolomitica tra la Forcella del Pizzon e il Monte Agner, cui viene dato il nome di “Torre Armena.” Attualmente, nell’Agordino a 1730 mt è meta di escursioni e centro di interessanti iniziative culturali legate alla montagna il Rifugio Scarpa-Gurekian. Questo nacque proprio grazie al sodalizio tra Ohannes Gurekian, che fu anche presidente del C.A.I. di Agordo dal 1933 al 1946, e il pittore ed alpinista veneziano Enrico Scarpa, con cui condivise l’amore per la montagna.

Una tradizione armena vuole che i Cavalli di San Marco siano stati in origine recati in dono a Nerone dal re d’Armenia Tiridate I, in occasione della sua incoronazione.

In Italia vi sono molti cognomi di origine armena, ma con il tempo sono stati italianizzati. In alcuni casi ciò è avvenuto, sin dalle prime fasi migratorie, per scelta degli stessi armeni che preferivano “mimetizzarsi” anagraficamente, in un periodo in cui, per decreto, un immobile nella città di Venezia non poteva essere acquistato da stranieri. Altre motivazioni, più drammatiche sono state quelle dei sopravvissuti al genocidio, che, ancora traumatizzati, intravedevano, ovunque si trovassero, potenziali rischi per sé e per i propri figli e decidevano di modificare il proprio cognome traducendolo o accorciandolo e togliendoci l’inequivocabile suffisso –ian. Un momento di comprensibile iniziale paura fu da molti vissuto quando il nazifascismo mise in atto la campagna antiebraica. Solo in un secondo momento gli armeni capirono che, in quanto cristiani, non sarebbero stati toccati. Ma tornando allo specifico dei cognomi, possiamo qui fornire alcuni esempi di come dei cognomi armeni si sono trasformati: Oskanian – Onorato; Noradunkian – Casanova (traduzione); Mikayelian – Michieli; Atamian – Atami/Adami; Kanzian/Chandjian – Canzian; Mardirossian/Martirossian – Martilengo; Duzian – Duse; Arslanian – Arslan. Gli ultimi due attirano in particolare l’attenzione, poiché il primo ci fa dedurre che la celebre attrice Eleonora Duse avesse origini armene, mentre il secondo attesta come il ramo padovano della celebre famiglia cui appartiene la scrittrice Antonia Arslan, abbia subito questo accorciamento, e ciò avvenne per espressa volontà del celebre nonno di lei Yervant, proprio a seguito della drammatica perdita del ramo degli Arslanian rimasto in Anatolia. Ultima precisazione: il suffisso –ian sta per “figlio di”; similmente in inglese incontriamo cognomi quali Robertson (ovvero figlio di Robert), Johnson, etc. In armeno incontriamo ad esempio Vartanian (figlio di Vartan), Hovannessian (figlio di Hovannes), e così via.

 

Note:

  1. “Al Museo Archeologico di Venezia vi è un piccolo bronzetto che raffigura Nerone seduto sul trono nell’atto di ricevere la sottomissione di Tiridate. La statuetta è stata rinvenuta presso Oderzo (Treviso) nel 1911.” Cfr. F. Randi e S. Luginbühl Dove di posò l’Arca: l’Armenia, Ed. ADLE Padova 2004.
  2. Gaianè Casnati, Presenze armene in Italia. Testimonianze storiche ed architettoniche in “Gli Armeni in Italia” AA.VV. De Luca Edizioni d’Arte Venezia/Padova 1991, p.28.
  3. B. Levon Zekiyan, Gli Armeni e l’Occidente in “Gli Armeni in Italia”, già cit. p. 24.
  4. Aldo Ferrari, Gli Armeni in Italia: commercio, religione e cultura in “Dal Caucaso al Veneto – Gli Armeni tra storia e memoria” di B. L .Zekiyan, A. Arslan, A. Ferrari. Ed. ADLE Padova, 2000, pag.56.
  5. Gaianè Casnati, già cit. p.28.
  6. Originariamente fondato nel 1584, con la dicitura di Collegio per la Nazione Armena, venne chiuso dopo soli 7 mesi per mancanza di fondi. Nel marzo 1883 papa Leone XIII istituì il Nuovo Collegio Armeno per chierici armeni. Tra gli anni 1883-1983 fu frequentato da quasi trecento studenti. L’attuale sede fu eretta negli anni 1939-1943 e al suo interno possiede una cappella in stile armeno, al primo piano dell’edificio.
  7. A. A. Novello e A. Pansa , L’architettura armena e l’Italia in “Gli Armeni in Italia” già cit. pag. 58.
  8. B. L. Zekiyan, Gli Armeni a Venezia e nel Veneto e San Lazzaro degli Armeni in “Gli Armeni in Italia” già cit. pag. 40.
  9. A. Hermet e P.Cogni Ratti di Desio, La Venezia degli Armeni. Sedici secoli tra storia e leggenda, Ed. Mursia Milano 1993, pag. 54.
  10. F. Randi e S. Luginbühl, Dove si posò l’Arca: l’Armenia, Ed. ADLE Padova 2004, pag. 83-87.
  11. v. La trilogia di Ircana di Carlo Goldoni, Neri Pozza ed. Vicenza, 1993.
  12. F. Randi e S. Luginbühl, Dove si posò l’Arca: l’Armenia, Ed. ADLE Padova 2004, pag. 103.
  13. B. L. Zekiyan, La visione di Mechitar del mondo e della Chiesa in “Gli Armeni e Venezia. Dagli Sceriman a Mechitar: il momento culminante di una consuetudine millenaria” Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2004, a cura di B. L. Zekiyan e A. Ferrari, pag. 178.
  14. Ibid. pag. 191.
  15. Un secolo dopo, nel 1814, grazie all’intervento dell’imperatore Francesco I d’Asburgo, la superficie dell’isola viene quasi raddoppiata, divenendo di 15mila mq. Un ulteriore ingrandimento verrà effettuato a metà ‘900, fino a raggiungere gli attuali 30mila mq.
  16. Claudio Gugerotti, La figura e l’opera di Mechitar nel contesto della cultura europea e cristiana in “Gli Armeni e Venezia” Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2004, pag. 168.
  17. B. L. Zekiyan, Gli Armeni a Venezia e nel Veneto e san Lazzaro degli Armeni in “Gli Armeni in Italia” De Luca Edizioni d’Arte, VE/PD, 1991, pag. 42.
  18. Baykar Sivazliyan, Del Veneto, dell’Armenia e degli Armeni (La memoria dell’integrazione) Regione Veneto – Ed. Canova Dosson di Casier (Treviso) 2003, pag. 37.
  19. B. L. Zekiyan, Gli Armeni a Venezia e nel Veneto e San Lazzaro degli Armeni in “Gli Armeni in Italia” De Luca Edizioni d’Arte, VE/PD, 1991, pag.42.
  20. Baykar Sivazliyan, Del Veneto, dell’Armenia e degli Armeni (La memoria dell’integrazione), Regione Veneto Ed. Canova Dosson di Casier (Treviso), 2003, pag. 37.

21. Flavia Randi, Sirio Lunginbühl Dove si posò l’Arca: l’Armenia, Ed. ADLE, Padova 2009

 

 


 

LA DIASPORA : cercare un equilibrio tra integrazione e conservazione

 

La caduta di Ani – antica capitale del Regno d’Armenia in epoca medievale – avvenuta per mano tartara nel 1044, “diede origine alla prima diaspora della storia armena. Nuclei consistenti di Armeni emigrarono alla volta della Crimea, Polonia, Ungheria, Transilvania e Cilicia.”1 E dopo di allora altri flussi migratori si verificheranno, nel corso della complessa e travagliata storia di questo piccolo ed antico popolo, dotato di una non comune capacità di adattamento e nel contempo di un forte istinto di autoconservazione.

Tra le più antiche sedi della diaspora armena deve essere qui menzionata Israele. Attualmente a Gerusalemme, che fu meta di pellegrinaggi fin dai primi secoli, vivono circa 2000 armeni, mentre alcuni nuclei risiedono a Jaffa, Haifa e Raffa. La presenza storica degli armeni è testimoniata dall’estistenza del quartiere armeno all’interno della Città Santa, in cui hanno sede la chiesa di San Giacomo, la biblioteca dei manoscritti miniati e il seminario apostolico, uno tra i più importanti per il popolo armeno.

Altro paese in cui si verificarono migrazioni armene a partire dal IV secolo d.C. è Cipro. Attualmente vi risiedono circa 3000 armeni che, nonostante l’esiguità numerica, sono in grado di gestire alcune importanti istituzioni confessionali e civili, oltre ad una emittente radio ricevuta in tutto il Medio Oriente.

In Iran risiedono circa 400.000 armeni, discendenti di quella comunità che si era venuta a formare a seguito del trasferimento forzato degli abitanti armeni di Giulfa ad Isfahan durante il regno dello scià Abbas il Grande, a cavallo tra il XVI e il XVII sec.

Infine, tra i paesi che registrano presenze armene in epoca remota, ricordiamo l’Etiopia. Attualmente vi risiedono circa 2000 armeni. Pietro Kuciukian a seguito di un viaggio che ha toccato nel 1998 numerosi paesi della diaspora, sottolinea, con orgoglio che “la miglior scuola del Paese è un liceo armeno, cui si iscrivono anche i residenti stranieri”.2

Tuttavia, quando si pensa alla diaspora armena si fa più facilmente riferimento a quella derivata dalle conseguenze dei massacri del 1894-96 e del genocidio del 1915, e costituita quindi dai sopravvissuti, in fuga verso paesi più accoglienti e sicuri.

Tra i paesi europei la Francia è quello che censisce il maggior numero di armeni (circa 500.000 persone), seguito dalla Polonia (circa 100.000), dalla Spagna (circa 60.000), dalla Germania (circa 40.000) e dalla Grecia (circa 30.000), e a seguire altre comunità, più esigue numericamente, come quella italiana, che conta 2000 componenti.

In Medio Oriente, la Giordania, il Libano e la Siria registrano complessivamente circa 700.000 armeni che si sono dotati di scuole, chiese e giornali propri. Tuttavia, a seconda della situazione politica, queste comunità alternano momenti di sicurezza e benessere ad altri di incertezza e precarietà. Particolarmente penalizzata è stata negli ultimi anni la comunità armeno-libanese, che dai tempi della guerra civile è andata via via assottigliandosi, avendo in molti scelto nuovamente la via dell’emigrazione.

A Istanbul risiedono circa 90.000 armeni.

La più numerosa ed importante comunità diasporica armena risiede in Nord America e principalmente negli Stati Uniti, dove vivono oltre un milione di armeni.

Se una prima immigrazione si verificò sin dal 1681, il grosso della diaspora si formò agli inizi del 1900, dopo le stragi di Adana, e soprattutto a seguito del genocidio. Va ricordato che gli Stati Uniti sin dal 1915 avevano denunciato attraverso la stampa le stragi di armeni perpetrate in Anatolia, e a partire dal 1918 si impegnarono molto efficacemente con l’invio in Turchia di missionari, personale sanitario, derrate alimentari e strutture logistiche in soccorso ai sopravvissuti. Organizzazioni filantropiche, come la Fondazione Rockfeller e il Near East Relief, intervennero con cospicue donazioni per l’istituzione, nell’immediato dopoguerra, di orfanotrofi sul posto, dove i bambini rimasti soli ricevettero assistenza sanitaria e istruzione; nell’ambito educativo era compreso anche il recupero linguistico per quei giovanissimi ospiti che avevano smarrito la memoria della famiglia d’origine e la lingua materna.3 Tuttavia, nei primi anni ’20, molti di questi orfanotrofi dovettero essere smantellati e trasferiti fuori dal territorio turco, che era da poco governato da Kemal Atatürk. Un crescente numero di profughi armeni, alcuni poco più che adolescenti, partirono quindi alla volta degli Stati Uniti, concentrandosi soprattutto in California.

La diaspora statunitense è riuscita a coniugare armonicamente integrazione e conservazione dell’armenità. Nel comprensorio di Los Angeles, quello a più densa concentrazione armena, può capitare di imbattersi in diversi negozi, specie di prodotti alimentari, con le insegne bilingui inglese-armeno, ed entrandovi, alla vista delle merci esposte che emanano aromi lontani, si ha la sensazione di esser d’un tratto catapultati in una strada di Erevan. Pubblicazioni in lingua armena – quotidiani, riviste e libri editi da case editrici armeno-statunitensi – soddisfano le esigenze della numerosa comunità e degli studiosi di questa affascinante lingua e cultura. In ambito religioso sono presenti chiese apostoliche, cattoliche e protestanti.

Questa numerosa e prospera comunità, non solo si sente parte integrante della società americana, ma percependo di aver trovato nel nuovo paese un’indubbia opportunità di benessere e sicurezza, ha ritenuto, sin dalle prime generazioni di attivarsi in campo umanitario per sostenere altri armeni meno fortunati. Non mancano infatti associazioni atte al collegamento tra la diaspora e la Repubblica d’Armenia, che promuovono molte iniziative in ambito culturale, sociale e sanitario, grazie al sostegno degli armeno-americani. In California, a Pasadena, si trova ad esempio la sede principale dell’ARS (Armenian Relief Society), che ha quasi un secolo di vita. Composta di sole donne, attua iniziative di sostegno all’infanzia povera, alle madri sole, al miglioramento degli standard sanitari in Armenia e nel contempo organizza in America corsi di lingua armena per far sì che tra le giovani generazioni la lingua dei nonni e bisnonni non vada perduta.

Il mantener viva la lingua armena tra le diverse diaspore è impresa non facile, soprattutto con il trascorrere degli anni e i passaggi generazionali. Ma se nei secoli la religione e la lingua sono sempre stati quella forza di coesione che ha protetto gli armeni dai più massicci tentativi di acculturazione da parte di popoli dominatori e dominanti, oggi gli armeni sparsi nel mondo hanno il dovere e il bisogno estremo di non perdere definitivamente il proprio patrimonio linguistico. Lingua significa coesione tra gli armeni della diaspora e legame - nonostante le diversità tra l’idioma occidentale ed orientale - con l’Armenia attuale, che alcuni definiscono, sia pur un po’ astrattamente, “Madre Patria.” Per queste ragioni, da oltre venticinque anni a Venezia l’Associazione Padus-Araxes organizza nel mese di agosto corsi intensivi di lingua e cultura armena, frequentati da persone di età diverse, provenienti in genere da Stati Uniti, Canada, Russia, Francia, Grecia e tutti gli altri paesi diasporici; non mancano ovviamente gli italiani e, dato interessante, negli ultimi anni si sono aggiunti giovani studenti turchi. In Italia, anche la Casa Armena di Milano in Piazza Velasca, organizza corsi di lingua per i membri della comunità ivi residente.

Ma come viene espresso dagli armeni della diaspora quella equilibrata dualità che li fa sentire in egual misura armeni e italiani, armeni e francesi, armeni e americani?

Uno dei più famosi figli della diaspora in generale, e di quella francese in particolare, è sicuramente Charles Aznavour, al secolo Aznavourian. Nome impronunciabile, secondo egli stesso, che venne semplificato e come tale immortalato da una lunghissima e fortunata carriera. Ma noi diremmo che il suo cognome originario venne anche mimetizzato, secondo una tendenza abbastanza comune tra gli armeni della prima generazione dopo il genocidio.

In conclusione all’autobiografia in cui esordisce raccontando le proprie origini, Aznavour con semplicità dichiara: “Quando mi chiedono se mi sento più armeno o più francese, c’è una sola risposta possibile: cento per cento francese e cento per cento armeno. Sono come il caffelatte: una volta mischiati gli ingredienti, non si può più separarli”.4 E continua la sua riflessione, sottolineando il valore culturale ed umano conferitogli dal fatto di appartenere a due culture, di aver sentito fin dall’infanzia parlare due lingue. Percezione questa molto comune tra gli armeni della diaspora.

In un’intervista rilasciata a Baykar Sivazliyan, anche Carlo Arslan dichiara di possedere una “doppia anima”5 e, a proposito delle modalità di insediarsi ed inserirsi in un paese ospitante, ricorda che “le prime cose che un armeno costruisce in un paese sono la chiesa e la scuola. È la difesa della propria identità attraverso la religione e la cultura. […] Uno dei segreti dell’unità è proprio l’unità religiosa, ma non fanatica, e la difesa della cultura e del libro”.6 E la sorella Antonia ne completa il pensiero, affermando che “l’armeno, per la sua storia di perseguitato, cerca di persuadere, non di imporsi”.7 Ed è sempre con parole sue che riassumiamo qui il concetto di armenità, ovvero quel sentimento che accomuna i tanti armeni sparsi nel mondo:

 

“ L’armenità è come una traccia esile di flauto, che l’orecchio appena percepisce ai confini dell’udito; come due profondi orientali occhi neri sotto sopracciglia foltissime, intravisti in filigrana dietro paesaggi consueti. È il tan estivo, la bevanda di yogurt acqua e sale che disseta come nessun’altra, e che solo da noi si beveva: sono i dolci di miele e d’ambrosia, sono i berek di sfoglia squisita ripieni di tutto.

L’armenità è sapere che in ogni dove c’è uno simile a te, che ha una simile storia alle spalle; che due s’incontrano in un qualsiasi caffè del vasto mondo, scoprono che il loro nome termina in –ian, cominciano diffidenti a parlare e si scoprono presto cugini. E si raccontano, e ciascuno prende piacere della storia dell’altro, e la riconosce.

L’armenità è sentire in se stessi l’eco e il ricordo delle vaste pianure dell’Anatolia e dei morti che ancora le abitano, e là hanno lasciato le flebili voci del loro rimpianto”.8

 

Note:

  1. Baykar Sivazliyan, Del Veneto dell’Armenia e degli Armeni Regione Veneto-Ed. Canova, Dosson di Casier TV 2000, pag. 28.
  2. Pietro Kuciukian, Dispersi. Viaggio fra le comunità armene nel mondo Guerini e Associati, Milano 1998, pag.101.
  3. Sull’argomento si veda: D. E. Miller e Lorna Touryan Miller, Survivors. Il genocidio degli armeni raccontato da chi allora era bambino, Guerini e Associati, Milano 2007, pp. 146-150.
  4. Charles Aznavour, I giorni prima Rizzoli Ed. Milano 2004, pp. 320-321.
  5. Baykar Sivazliyan, Del Veneto dell’Armenia e degli Armeni, Regione Veneto-Ed. Canova, Dosson di Casier TV 2000, pag. 106.
  6. Ibid. pag. 108.
  7. Ibid. pag. 107.
  8. Ibid. pag. 13.

 


 

A TAVOLA CON GLI ARMENI


Gli armeni non paiono molto inclini ai moderni, occidentali “Fast food”. Amano la buona tavola e riunirsi allegramente attorno ad un desco riccamente ed artisticamente imbandito, con tanti piatti di portata cui si può attingere, tra un brindisi e l’altro.

La cucina armena è molto colorata, varia e spesso elaborata: necessita quindi di cuochi e cuoche molto pazienti ed accurati. Nel contempo però risulta relativamente magra e leggera, pur rispondendo originariamente alle esigenze di un popolo di montanari, residenti in territori caratterizzati da lunghi inverni molto rigidi e brevi estati torride. Speziata, ma non eccessivamente piccante, profumata da una miriade di erbette spesso usate fresche, tra cui la menta, il coriandolo, il prezzemolo, l’aneto, un particolare basilico rossastro che solo loro hanno, prevede un consistente impiego di aglio e cipolla.

Della medesima ricetta possiamo trovare più varianti, a seconda che ci troviamo in Armenia o ospiti di armeni appartenenti alle diverse comunità diasporiche. Pertanto può variare anche la terminologia relativa a determinati ingredienti o pietanze e spesso troviamo che molti prodotti sono indicati con il vocabolo turco o arabo, poiché era quello comunemente usato nei mercati durante la secolare convivenza con questi popoli.

I khorovatz, gli spiedini di agnello o carni miste sono il loro “piatto forte”, ma non manca il pesce che, vista la lontananza dal mare, è in genere di acqua dolce; in tal caso primeggiano le celebri trote del Lago di Sevan, cucinate alla brace, dopo esser state precedentemente saltate in padella con del burro, e cosparse, a fine cottura, di fettine di limone, dragoncello e chicchi di melograno.

Il riso yeghindz, più comunemente noto come pilav, è un primo piatto molto diffuso, cucinato in svariate versioni; tuttavia anche le zuppe sono molto usate. Il riso costituisce uno degli ingredienti base per i dolmà, involtini in foglie di vite o verza. I legumi – un tempo primaria fonte di proteine – trovano un ampio e diversificato impiego: con i ceci, ad esempio vengono preparati i famosi topik, dei fagottini vegetali, tanto laboriosi quanto prelibati. Tra le verdure più popolari troviamo le zucchine, i peperoni e le melanzane, spesso cucinate ripiene.

Il formaggio è in genere ottenuto dal latte di pecora e risulta alquanto salato e poco grasso.

Il pastermà/bastermà è un filetto di manzo affumicato, speziato, particolarmente impiegato come antipasto ed in genere consumato assieme al lavash. È questo il pane tradizionale armeno: una sorta di piadina sottilissima e morbida, tradizionalmente cotta nel tonir, il forno circolare scavato nel pavimento delle abitazioni rurali armene. Nelle campagne è facile trovare questi antichi forni ed osservare con quale abilità le donne preparano il lavash, ricavando da piccole pallottole di impasto, ampi dischi che lanciano in aria, per farli allargare e assottigliare, con una maestria da far invidia al più provetto pizzaiolo napoletano.

Altro alimento di antica tradizione è il dzavar oppure col termine turco più comunemente usato, bulgur: è questo il grano spezzato, impiegato sia in antipasti freddi che in zuppe a base di verdure.

Lo yogurt, spesso prodotto artigianalmente in casa e chiamato matzun, non costituisce solo uno degli alimenti assunti assieme al miele durante la prima colazione, ma è usato come ingrediente in molte pietanze, zuppe comprese. Inoltre, diluendolo con acqua, si ottiene il than, una fresca e dissetante bevanda estiva.

I dolci prediligono l’impiego di miele, cannella, noci, pistacchi ed altri ingredienti non rapidamente deteriorabili d’estate. Tra tutti il paklavà/baklavà, anche se di origine araba, è particolarmente popolare e molto apprezzato anche dai più esigenti palati occidentali. Mentre non può mancare sul desco natalizio di ogni famiglia armena l’Anushabur.

La frutta in Armenia, grazie all’intenso sole estivo e alla natura del terreno, cresce particolarmente rigogliosa e, maturando sulla pianta, è dolcissima. La sua conservazione – caramellata o avvolta in sottili strati di cioccolato – è un’arte antica e consente di goderne i ricchi sapori tutto l’anno. Oltre alle celeberrime e celebrate albicocche, grandi quasi come pesche, primeggiano i fichi, le prugne, ciliege sia rosse che gialle, l’uva e naturalmente i melograni. A proposito di questi ultimi, se ne ricava un ottimo succo, oggi prodotto a livello industriale e distribuito in contenitori di tetrapack.

In tavola troviamo un’acqua minerale che sgorga dalle sorgenti termali della città di Jermuk: ce ne sono di più tipi, rispondendo alle esigenze più diverse. Infatti le acque di questa località hanno varie qualità terapeutiche. La più diffusa, “Noy”, prende il nome dal biblico conduttore dell’Arca.

Per i non astemi, ricordiamo che in Armenia si producono parecchi vini, giudicati di alta qualità: il più diffuso tra i rossi è denominato “Areni”, mentre tra i bianchi spicca l’“Arax”. Questa valutazione positiva proviene proprio da un gruppo di esperti e viticoltori italiani. Infatti, di recente il Centro di ricerca sulla vitivinicoltura di Conegliano (Treviso) ha avviato uno studio sui vini armeni: l’interesse non è solo dovuto alla qualità del prodotto, ma all’ipotesi che i vitigni originali del celebre Prosecco provengano proprio dalle pendici dell’Ararat (vedi Il Gazzettino 03.09.2008, pag. 15).

Concludiamo questa carrellata culinaria con il digestivo. L’Armenia distilla un ottimo cognac, fino ad oggi non esportato, e perciò poco noto, ma che si dice non abbia nulla ad invidiare al suo omologo francese. La fabbrica, denominata “Ararat”, ha sede a Erevan ed è meta di visite guidate per i turisti stranieri, i quali, oltre a godere dell’usuale degustazione, possono visitare un annesso museo e percorrere i cicli di produzione di questo orgoglio nazionale.

A completamento di questo breve quadro sulla cucina armena, aggiungiamo qui qualche ricetta, facilmente realizzabile anche in Italia.

 

Palline di lenticchie
Mrgov vosp

Ingredienti:
200 gr di lenticchie
60 gr di noci tritate
50 gr di prugne secche sminuzzate
50 gr di uvetta sultanina
Sale, pepe, prezzemolo tritato

Frullare le lenticchie lessate in precedenza; aggiungere il sale, l’uvetta, le prugne e le noci, diluendo, se necessario, con l’acqua di cottura delle lenticchie. Amalgamare bene l’impasto con un cucchiaio di legno e, quando questo risulta omogeneo, formare delle palline. Servire su un piatto su cui è stato precedentemente steso il prezzemolo tritato, e spolverizzare con altro prezzemolo.

 

Insalata di bulgur con verdure
Tabuleh

Questo piatto è di origine libanese e molto impiegato nella cucina armena della diaspora. Di recente è molto facile reperire il bulgur (grano spezzato) nei nostri comuni supermercati.

Ingredienti:
200 gr di bulgur
1 cetriolo medio tagliato a dadini piccoli
4-5 pomodori rossi sminuzzati
1 peperone piccolo tritato
1 cipolla dolce tritata
80 gr di prezzemolo tritato
1 cucchiaio di menta fresca tritata o 1 cucchiaino di menta secca sbriciolata
il succo di 3 limoni, sale
olio extra vergine per condire
alcune foglie di lattuga lasciate intere

Ammollare il bulgur in acqua fredda per un quarto d’ora circa. Quindi scolarlo e strizzarlo per eliminarne il più possibile l’acqua in eccesso. Metterlo in una ciotola ed aggiungervi tutte le verdure e gli ingredienti, ad esclusione dell’olio e della menta. Mescolare bene e lasciar riposare per un altro quarto d’ora. Al momento di servire aggiungere l’olio e la menta ed aggiustare di sale. Servire il tabuleh adagiato su foglie di lattuga, usate a mo’ di contenitore.

 

Succo di melagrana
Nurì hyùt

Ingredienti:
3 melagrane
200 gr circa di zucchero

Sgranare le melagrane, raccogliendone i chicchi in una terrina. Unire lo zucchero regolandosi in base alle dimensioni delle melagrane e al proprio gusto. Aggiungere un litro di acqua bollente e lasciar riposare per almeno mezz’ora. Filtrare e mettere al fresco.

 

Bevanda allo yogurt
Than

Ingredienti:
500 gr di yogurt intero del tipo greco, o comunque compatto
750 cl di acqua fredda, naturale o minerale frizzante
ghiaccio tritato, a piacere
un pizzico di sale (facoltativo)

Versare lo yogurt in una ciotola e sbatterlo con la frusta per renderlo cremoso. Diluirlo gradualmente con l’acqua, fino ad ottenere un composto da bere. Aggiungere il ghiaccio a piacere.

 

Due dolci

Dolce di Natale
Anushabur

Ingredienti:
250 gr di frumento intero pilato (oppure può andar bene anche l’orzo perlato)
250 gr di zucchero sciolto in due bicchieri di acqua calda
200 gr di uvetta
200 gr di albicocche secche
0,5 dl di acqua di rose
noci, mandorle e grani di melograno per guarnire, cannella a piacere

La sera prima lavate bene e risciacquate il frumento o l’orzo, poi mettetelo a bagno in tre litri di acqua tiepida e lasciatelo coperto.
L’indomani mettere al fuoco con la medesima acqua. Dopo la prima bollitura, schiumare ed abbassare la fiamma.Procedere la cottura a fuoco lento, mescolando di tanto in tanto.
Dopo due ore e mezza di cottura, versare lo zucchero, l’uvetta e le albicocche precedentemente lavate e tagliate in quarti. Cuocere ancora mezz’ora, sempre mescolando, sino ad ottenere la consistenza di un budino.
Quando il tutto si sarà addensato, spegnere e lasciar raffreddare.
Aggiungere quindi l’acqua di rose. Prima di servire, guarnire con gherigli di noce, mandorle bianche e grani di melograno.

 

Paklavà

Chi ha avuto la fortuna di poter vedere il film “Quella strada chiamata Paradiso”, altrimenti noto tra gli armeni come “Mayrig”, diretto dal regista franco-armeno Henry Verneuil, può assistere alle diverse fasi di preparazione di questo dolce. Una sorta di rito collettivo, cui partecipa tutta la famiglia, con soave allegria. Ne forniamo qui comunque una versione un po’ semplificata, per quanto possibile.

Ingredienti:

Per la pasta
Utilizzare la pasta sfoglia di tipo Fillo, già confezionata, reperibile in negozi di alimentari medio-orientali.

Per il ripieno
100 gr di noci
50 gr di pistacchi
50 gr di mandorle
(tutti e tre questi ingredienti devono essere tritati finemente)

Per lo sciroppo
400 gr di zucchero
3 dl di acqua
1 cucchiaio di succo di limone
alcune gocce di acqua di rose
Inoltre: 200 gr di burro chiarificato (fuso a calore moderato ed accuratamente schiumato)

Mettere tutti gli ingredienti per lo sciroppo in una casseruola piccola e portare ad ebollizione. Abbassare la fiamma e sobbollire per una decina di minuti circa, fintanto che si otterrà un composto che lasci una pellicola sul dorso del cucchiaio. Metterlo da parte a raffreddare.
Spennellare con il burro fuso una teglia rettangolare. Adagiarvi, uno alla volta, 10 strati di sfoglia sottile (Fillo), spennellandoli ciascuno con il burro fuso. Spargere uno strato sottile del composto di noci, pistacchi e mandorle tritati. Sovrapporre altri 5 strati di pasta e cospargere quindi con il resto del ripieno, continuando fino ad esaurimento della pasta. Spennellare l’ultimo strato con burro fuso.
Con un coltello a sega incidere il paklavà tracciando una serie di tagli longitudinali e paralleli. Tracciare poi altrettanti tagli nel verso opposto in modo da dar forma a tanti rombi regolari. Preriscaldare il forno ed infornare ad una temperatura di 180°. Dopo circa 10 minuti, ridurre leggermente la temperatura e far cuocere per 20 minuti circa, finchè la superficie risulterà ben dorata. Togliere la teglia dal forno e versare subito uniformemente lo sciroppo freddo. Lasciar raffreddare e servire.

 

Caffè armeno
Surtch

Tradizionalmente viene preparato in un apposito bricco di rame o ottone con il manico lungo. In mancanza va bene anche un casseruolino.

Versare 3,5 dl di acqua fredda nel bricco, aggiungervi 6 cucchiaini da tè di zucchero e metterlo sul fuoco, a fiamma moderata, mescolando fino a quando lo zucchero si sarà sciolto. Togliere il bricco dal fuoco, aggiungere 6 cucchiaini abbondanti da tè di caffè macinato molto fine, mescolare e riportare ad ebollizione. Quando in superficie salirà una densa spuma, togliere il bricco dal fornello ed attendere che il contenuto si depositi. Dopo aver ripetuto la medesima operazione una seconda volta, servire il caffè bollente, appena il fondo si è depositato.